Editoriale 2


 

Ardisco parlare cosciente della mia parzialità, desideroso di un confronto. Non voglio adattarmi al mugugno, al parlare dietro la schiena, alla critica senza dialogo. La comunione è dono di Dio, grazia e punto di arrivo e di partenza di diversità che si arricchiscono e si armonizzano nella obbedienza all’unico Signore.
Le parlo e scrivo con cuore turbato; sono ferito in profondità là dove ho maturato le scelte della mia vita, del mio stare dietro a Gesù. La sua omelia del Giovedì Santo (28 marzo) mi inquieta.
Se per Lei è cosi importante, come ha ripetutamente ribadito, che il presbitero sia ‘uomo di istituzione’ …io sono fuori posto.
Se per Lei è decisivo identificarsi con l’istituzione ecclesiastica per cui essere / sentirci “ecclesiastici”! …io sono fuori posto.
Nella mia ricerca di essere credente è centrale il riferimento all’Evangelo e a Gesù Cristo che non possono rimanere solo sullo sfondo. Alla base del mio cammino di discepolo di Gesù dentro cui ho ricevuto il ministero presbiterale c’è» l’assiduo riferimento alla Parola di Dio, a Colui che è Parola fatta carne.
E’ il mistero del farsi uomo di Dio (dolce e sconvolgente realtà dell’incarnazione! ho desiderato essere ordinato nella festa dell’Incarnazione) che continua a sorreggere e ad alimentare la mia ricerca di fedeltà a Dio e a quanti incontro.
E’ così che esperimento quanto è importante cercare di essere uomo di Dio nella compagnia di tutti.
Sono pienamente convinto che “la fede vive / si nutre della Parola di Dlo”… “Udii dietro di me una voce potente… mi voltai per vedere la voce che parlava con me…” (Ap 1,10-12) ed è “una voce di sottile silenzio” (1 Re 19).
La fede, questo straordinario dono e straordinaria avventura con Dio, la ricevo da una comunità, in una comunità. La comunità, quella di Gesù, rimane tale proprio perchè fa riferimento al pozzo da cui riceve senso, a Colui che è “il Primo e l’Ultimo e il Vivente” (Ap 1,17-18).
La comunità esiste in quanto celebra il primato di Dio, a Lui fa posto, mai si sostituisce perchè “Dio solo adorerai” (Dt 6).
Da qui nasce la missione, la missionarietà, quella dell’Evangelo a noi riproposta da Francesco, Vescovo di Roma, con un linguaggio ricavato dalla vita: “Va’… nelle periferie del mondo… il pastore si impregna dell’odore delle pecore…”.
Ho cercato e cerco di prendere sul serio questa parola così frequente nell’Evangelo: “Va’…”» ha significato e significa saltare il muro, uscire in campo aperto, andare a pescare al largo… uscire dai recinti della sacrestia…
Ha significato mettere una tuta da lavoro che negli anni si è impregnata dell’olio dei torni e della polvere del legno, segno della condivisione della vita di tutti. Sono andato a lavorare con le mani e con il cuore in mezzo alla condizione operaia.
A Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret, falegname nella bottega di Giuseppe, FILIUS DEI FABER (Mc 6,3), ho legato il senso della mia vita: questo mi ha dato forza nel sopportare il disprezzo e il sospetto ecclesiale verso uno stile di vita fuori dai soliti schemi: operaio diacono, prete operaio.
La condivisione è la parola chiave della mia vita: senza condivisione non c’è evangelizzazione; le forme della condivisione sono molte ma non può mancare, pena il non impregnarsi “dell’odore delle pecore”.
Solo ora, dopo tanti anni, inizio a capire che “tutto è stato ed è grazia, solo dono” a cui ho cercato di corrispondere. “Tu adesso non lo capisci, lo capirai dopo…” (Gv 13): parole che mi appaiono interpretative di una storia, di una vocazione nella vocazione, di un cammino percorso in mezzo a tante infedeltà e reso possibile dall’Unico Fedele, degno di fede.
I problemi di oggi e le potenzialità di bene di oggi sono legati alla storia di ieri; una lettura sapienziale degli anni ’70 può aiutare a capire il cammino di fede in questo territorio, quale comunità di credenti essere, quale ministero in obbedienza a Dio e in solidarietà con gli uomini / le donne manifestare, quale rapporto tra fede e vita, come costruire una comunione di pluralità di presenze.
Parlare e vivere la dimensione ecclesiale della fede è molto importante: ho bisogno di essere aiutato a capire. Ho la percezione che la ecclesialità sia qualcosa di definito, un recinto con modalità di appartenenza certe. Chi non entra per la trafila (so cosa significa trafilatura perché ho lavorato 11 anni in una torneria) non viene riconosciuto, non ne fa parte, rimane etichettato per tutta la vita.
Allora “che tu ci sia o non ci sia è la stessa cosa”, oppure “ci sei per quel tanto che servi all’istituzione”. E’ così che molti si sono allontanati da essa, ma non dalla loro appartenenza al Salvatore che tutti lega a sé.
Con franchezza ardisco dire che l’ecclesialità quando si riduce a istituzione può diventare arroganza, presunzione e facilmente giudizio: “non sei dei nostri!”. La comunione si costruisce vincendo questi giudizi e pregiudizi.
Alla ecclesia = comunità dei credenti in Gesù crocifisso e risorto, io, battezzato e ministro, sono debitore della mia identità. Al suo interno essa è momento di sintesi, di incontro di cammini basati sulla condivisione della vita di tutti e sulla fede in Gesù; questa accoglienza interna la abilita ad una testimonianza credibile e affidabile dell’Evangelo come buona notizia ai poveri, agli smarriti di cuore, ai senza lavoro e dignità…
L’ecclesia di Gesù é riconoscibile dalla capacità di “stare in ascolto della Parola” per tradurla in scelte di vita: sempre la Parola letta sia commentata. Ho bisogno di essere aiutato a entrare dentro il “sta scritto” :forse il cuore dell’ecclesia di Vittorio Veneto arde se non si trascura di “spiegare le scritture cominciando da Mosè e da tutti i profeti” (Lc 24).
Nel rispetto della diversità dei compiti e dei carismi, nell’impegno di essere responsabili insieme dell’annuncio di Gesù salvatore, nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo

don Gianpietro Zago

Rolle 08.04.2013 / solennità dell’Annunciazione del Signore Gesù


 

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