Parole di Piero: due lettere ai Vescovi di Tortona (2)


 

Gli operai ci hanno insegnato che dovevamo “farci uomini”

Dal 10 al 13 di novembre 2014 i vescovi italiani terranno un’Assemblea straordinaria sul tema “La vita e la formazione permanente dei presbiteri nell’orizzonte di una riforma del clero”. A questo proposito la Commissione CEI per il clero ha inviato una “Traccia per l’ascolto dei presbiteri”. Il vescovo di Tortona ha trasmesso ai singoli preti la Traccia in ordine alla consultazione. Il nostro amico PO Piero Montecucco ha colto l’occasione per scrivere al Vescovo evidenziando problemi scottanti che nella Traccia vengono occultati.


Ecc.mo Mons. Martino Canessa Vescovo di Tortona

Carissimo Monsignor Vescovo,
Supero una perplessità e un pregiudizio e mi accingo a scriverLe quello che penso sulla “Traccia per l’ascolto dei presbiteri”.

La perplessità è sui tempi: come si può realizzare un sondaggio di opinione serio se c’è solo il tempo per rispondere a stretto giro di posta?
Il pregiudizio: le troppe parole e le troppe domande mi pare che rivelino la volontà di nascondere i problemi veri dei preti.

Il problema più grosso, secondo me, è la solitudine, o meglio ancora l’isolamento. Non mi riferisco tanto alla condizione logistica e ambientale, che pure è importante. Parlo dell’isolamento interiore, psicologico, spirituale. Noi preti (almeno noi delle passate generazioni) siamo stati formati al più stretto individualismo. Guai alle amicizie particolari!
Ma a creare l’individualismo è soprattutto la coscienza del cambiamento ontologico della personalità, il sentirsi una persona sacra, un essere superiore. Per cui, giustamente, si dice che i preti sono come i binari, che camminano paralleli e non si incontrano mai. Lo si vede bene nella difficoltà di realizzare la “pastorale d’insieme”.
Perciò io penso che il problema di fondo da affrontare sia quello di sciogliere il nodo tra “l’identità teologica del prete” e la “spiritualità di comunione”.
Per creare una comunione bisogna sentirsi uguali. Non si può fare comunione quando uno si sente e viene considerato superiore agli altri.
Ho maturato questa convinzione nel corso di trent’anni della mia vita in fabbrica, che mi hanno cambiato profondamente il modo di pensare e di sentire.

A questo proposito devo fare un’altra rimostranza rispetto alla Traccia preparata dalla Commissione Episcopale. Mi dispiace molto che un documento ufficiale che parla dei preti non contenga neppure un accenno ai preti operai. Sapevamo che i Vescovi italiani non hanno mai creduto nel prete operaio. Ma ciò che è grave è che un organismo ufficiale dell’Episcopato non prenda in considerazione un gruppo consistente di preti che hanno creduto e ha speso la propria vita nella condizione operaia.

Che cosa abbiamo imparato vivendo una vita in condizione operaia? Noi naturalmente siamo andati in fabbrica con delle grandi intenzioni.
Portavamo nel cuore l’ideale di Charles de Foucauld di “gridare il vangelo con la vita”.
Poi però, come si dice, siamo andati per convertire e siamo stati convertiti.
Sì, gli operai ci hanno convertiti! Ci hanno insegnato che dovevamo “farci uomini”. Dovevamo spogliarci dei nostri ruoli, gettare le nostre maschere, presentarci nudi nella nostra umanità. Allora abbiamo capito che dovevamo seguire la via del Figlio di Dio, che si è spogliato della sua divinità e ha assunto la condizione umana facendosi servo (cfr. Fil. 2, 6-7).
Io credo che il prete, se vuole incamminarsi verso una spiritualità di comunione, non ha altra via che quella di farsi uomo, di scendere dalla cattedra e di spogliarsi del suo ruolo e di quella identità che lo fa sentire diverso e superiore agli altri. È solo abbassandosi che ci si sente uguali, si prende confidenza e si è disposti a comunicarsi i propri tesori spirituali.

Penso che i preti la formazione la devono fare prima di tutto fra di loro, comunicandosi la propria fede, i propri dubbi, la propria spiritualità, con semplicità e umiltà. Così cominceranno a creare comunione tra di loro, e saranno sempre più in grado di creare comunione con la gente, mettendosi al loro livello senza arie di superiorità, perché siamo tutti uomini e donne in cammino. Questa mi pare una condizione fondamentale; dopo di che saranno anche importanti gli aggiornamenti biblici, teologici, pastorali, sociali… Ci sono tanti preti che vivono con la loro gente una spiritualità di comunione.

Un’altra contraddizione che riscontro è quella che riguarda il celibato. Da una parte si afferma sempre che il celibato non è di per sé essenziale allo stato del prete. Ma poi si continua a considerarlo come un dogma. Non lo si mette in discussione e si ha paura a chiedere ai preti che cosa ne pensino. Molti certamente lo vivono come una grazia. Ma per molti è un peso, che diventa sempre più insopportabile e viene compensato con vari surrogati, come i soldi, la carriera, l’assunzione di sostanze, che degradano la persona del prete molto più che l’amore di una donna.

A questo proposito vorrei dire qualcosa a riguardo dei preti che lasciano il ministero. Non so che cosa avviene in diocesi negli ultimi anni, ma ho avuto modo di conoscere molti casi di ex preti abbandonati a se stessi, considerati come reprobi, trattati con una cattiveria che non so a quale vangelo si potesse ispirare.

Ma perché non esercitare un minimo di carità cristiana aiutandoli a trovare un lavoro o offrendo loro un’occupazione all’interno delle opere ecclesiastiche? E perché non integrarli, se lo desiderano, in qualche settore della pastorale, come fa qualche parroco con lodevole iniziativa personale?
Ho partecipato un mese fa al funerale del nostro con-diocesano, l’ex don Luigi Masino, mio superiore per cinque anni in seminario durante gli anni del ginnasio, di cui ho sempre conservato un ricordo molto caro. Emarginato per diversi anni e poi recuperato come rettore del seminario maggiore, aveva stretto nel frattempo un legame affettivo con una suora e con lei se ne andò al termine dell’anno scolastico. Era, mi pare, il 1964 e non era ancora possibile ottenere la dispensa. Si dileguò con la sua compagna e in diocesi, almeno ufficialmente, non se ne seppe più nulla.

Avendo io ripreso i contatti con lui alcuni anni or sono, mi raccontò, ancora con sofferenza, che aveva trovato rifugio a Genova con la sua Anna, ma era senza lavoro e avevano patito anche la fame. Finché fu accolto dalla Chiesa Evangelica Battista di cui divenne pastore nella comunità di Varese. Insieme alla moglie fu per più di 30 anni pastore di quella chiesa, stimato e ben voluto, come hanno testimoniato molte persone al suo funerale. Ho portato anch’io il mio saluto, esprimendo la gratitudine per il bene che ho ricevuto da lui in seminario.
Le ho fatto questo racconto per darLe un’informazione che mi pare doverosa. Ma anche per esprimerLe il mio dissenso rispetto alla rigidità della Chiesa sulla legge del celibato.

Un’ultima osservazione Le voglio fare. Viene anche questa dalla mia cultura e spiritualità di prete operaio. Vorrei che la Chiesa, i vescovi, i preti, le comunità avessero più a cuore e parlassero di più e agissero di più per la causa della giustizia.

Viviamo in un mondo fondato sull’ingiustizia. Papa Francesco non si stanca di denunciarlo. Nella “Evangelii gaudium” ha scritto delle parole molto forti “sull’inequità”, “sull’economia dell’esclusione”, “sull’idolatria del denaro” (cap. II°). Ma sono parole che nessuno più riprende. Le ha citate solo qualcuno per accusare il Papa di essere comunista.

La Chiesa ha fatto suo l’impegno della carità. Ma la giustizia viene prima della carità.
Dare per carità ciò che spetta per giustizia è un avallare il sistema dell’ingiustizia. Mi scuso per la lunghezza di questo intervento.

Ma sono contento di averLe detto queste cose che porto nel cuore e che, ahimè, vorrei essere capace di vivere con più coerenza.
Grazie per l’attenzione e la comprensione e un abbraccio affettuoso.

don Piero Montecucco
Voghera, 20 agosto 2014


 

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