Narrazioni della parabola di Piero (18)
Il mio ricordo di Piero parte da molto lontano, quando lo incontrai per la prima volta in clergyman agli inizi degli anni ’70. Successivamente, una volta che il gruppo dei pretioperai lombardi si diede un metodo di lavoro e una configurazione più precisi, ci si vedeva almeno cinque volte all’anno, oltre che ai convegni nazionali. Noi due ci siamo trovati anche a Cremona, a metà strada, per parlare di noi stessi, in uno scambio amicale.
Ricomposizione narrativa della figura di Piero.
Questa prima assemblea, nella quale in tanti abbiamo preso la parola, apre un processo molto importante che ci aiuta a scoprire meglio e in maniera più ricca e articolata il volto del Piero. Le varie voci si connettono riferendo i diversi aspetti ed esperienze vissute con lui lungo il tempo della vita. Ne risulta una narrazione a più voci che io oso chiamare parabola. È evidente il riferimento all’Evangelo dove le parabole sono similitudini, piccole narrazioni, utilizzate da Gesù per alludere al Regno di Dio, centro del suo messaggio. Ora è mia convinzione che la vita stessa di Piero, con le scelte attuate, il lavoro operaio, le relazioni vissute e la testimonianza offerta con azioni e parole, rappresenta davvero una parabola esistenziale.
Non è una mia novità questa, ma attinge a un discorso già presente nel numero 0 della nostra rivista – 1987 – nel quale Gianni Tognoni scriveva, parlando dei pretioperai: “Siamo coloro che interpretano le parabole rappresentandole, come in una grande recita nella quale ci è toccata la parte del lievito: che non sa se la massa fermenta, se fermenta male o bene”.
Dopo il compimento della sua vita storica, il nostro compito consiste nel mettere in luce la rappresentazione evangelica che lui ci ha offerto. È un esercizio della memoria, che si collega con quella strana espressione che troviamo nel Qoelet “Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso” (Qo 3, 15). Io oso interpretarla in questo modo: è lo Spirito di Dio che è attivo nello stimolarci ad afferrare il senso profondo e nascosto che si è dipanato nel percorso storico di Piero che nella condivisione, sia pur parziale della sua vita, abbiamo potuto intuire, apprezzare ed esserne arricchiti.
Ascoltiamo una sua sintetica testimonianza del 1996 comparsa sulla nostra rivista con il titolo: In quale Dio io credo:
“La mia dislocazione in condizione operaia è stata una svolta decisiva nella mia vita. Da un lato è stato il punto di arrivo di un travaglio interiore che dagli anni del Concilio ha iniziato a mettere in discussione il mio essere prete alla maniera tradizionale ed il mio rapporto con la Chiesa, dall’altro la mia stessa fede è stata messa in questione. Posso dire che nel corso di questi anni il mio modo di intendere e di vivere la fede è diventato più concreto, intimamente legato alla mia vita di ogni giorno, al mio lavoro, al mio impegno nel sociale, al rapporto con i compagni di lavoro e con la gente con cui vivo.
E questo non soltanto come conseguenza del fatto che la mia vita ha assunto una dimensione quasi esclusivamente laica, ma anche per una diversa e, a mio parere, più vera comprensione del messaggio cristiano.
Una delle motivazioni fondamentali di partenza, che peraltro conserva per me ancor oggi la sua validità, è stata quella dell’incarnazione, che comporta due aspetti: il farsi uomo, il vivere la vita umana nella sua concretezza; e l’affermare i valori umani e la dignità umana, che non possono essere negati o trascurati, specie a motivo di presunte esigenze religiose”.
Dimensione laica: lo straordinario è come l’ordinario
La citazione offre molti spunti, ma credo che convenga innanzitutto sottolineare questo aspetto. Molti di noi, che abbiamo fatto una scelta analoga alla sua, ci siamo sentiti rimproverare perché stavamo sprecando la nostra vita di preti, impiegando il tempo in cose non da preti, sottraendola agli uffici ministeriali e non facendo il bene che avremmo dovuto compiere nelle forme canoniche previste dalla chiesa cattolica. E cose anche peggiori accompagnavano le critiche alla nostra scelta.
Ora, a me sembra importante e anche decisivo, riportare un testo di P. Ricoeur, nel quale si sottolinea la logica paradossale di Gesù nel presentare il messaggio del Regno attraverso le parabole:
“La prima cosa che colpisce è il fatto che le parabole sono racconti radicalmente profani. Non ci sono né dèi, né demoni, né angeli, né miracoli, né tempo prima del tempo, come nei racconti della creazione, e neanche eventi fondatori, come nel racconto dell’Esodo. Nulla di tutto questo, ma per l’appunto gente come noi: proprietari palestinesi che partono per un viaggio e affittano i loro campi, amministratori e operai, seminatori e pescatori, padri e figli; in una parola, gente ordinaria che fa delle cose ordinarie: vende e compra, getta le reti in mare, e via di seguito. Qui c’è il paradosso iniziale: da una parte queste storie sono racconti della normalità, come ha detto un critico, ma dall’altra è il regno di Dio quello che intendono rappresentare. Lo straordinario è come l’ordinario.
Ci sono anche altre parole di Gesù, in particolare i proverbi escatologici, che illustrano il regno dei cieli e sembrano riferirsi a qualcosa di totalmente altro, di ulteriore, tanto diverso dalla nostra storia quanto lo è il cielo dalla terra. Per questo la prima cosa che può sorprendere è che proprio quando ci aspetteremmo il linguaggio del mito, il linguaggio del sacro, il linguaggio dei misteri, ci troviamo di fronte al linguaggio della nostra storia, il linguaggio profano, quello dei nostri drammi. (P. Ricoeur, La logica di Gesù, pp. 38-39).
Seguendo questa logica, entrare nell’ordinario e abitarlo è un percorso che apre allo straordinario e lo fa scoprire in maniera nuova. Per noi preti inquadrati nell’ordine clericale, la decisione di entrare nella laicità del lavoro dipendente ha rappresentato l’esodo da una condizione autoreferenziale per condividere anche la condizione materiale degli altri. E questo ha modificato profondamente anche la forma del proprio credere. Come testimonia bene Piero: “Posso dire che nel corso di questi anni il mio modo di intendere e di vivere la fede è diventato più concreto, intimamente legato alla mia vita di ogni giorno, al mio lavoro, al mio impegno nel sociale, al rapporto con i compagni di lavoro e con la gente con cui vivo”. È il punto di arrivo.
A partire dal concilio
Il punto di partenza è stato la presa di coscienza provocata dall’evento conciliare. Il travaglio interiore, di cui parla Piero, si fonda su motivazioni oggettive che riguardano la chiesa in rapporto al Vaticano II. La formazione teologico-spirituale ricevuta sulla quale siamo stati plasmati come preti veniva messa in questione. Prima di essere ordinati ci era stato imposto il giuramento antimodernista che le dinamiche conciliari e i documenti varati avevano di fatto polverizzato. Era avvenuto un vero e proprio cambio di paradigma. Ricordo il mio smarrimento alla prima lettura dei documenti conciliari e la convinzione che si faceva largo in me di dover ricominciare su basi nuove la mia formazione teologica e spirituale. È il medesimo travaglio interiore attraversato da Piero.
Enuncio in tre punti sintetici, che trovo formulati da Ernesto Balducci nel suo “L’uomo planetario” (p. 35), il cambio di paradigma che modificava l’assetto precedente:
“Il primo di questi «princìpi» di disgregazione della forma cattolica è che la norma a cui tutti i membri della chiesa, compreso il papa, sono soggetti è la Parola di Dio contenuta nella Scrittura, che genera la fede e solo alla fede si dischiude.
Il secondo è l’identificazione della chiesa con il popolo di Dio e cioè, in prima istanza, con l’insieme dei battezzati, da considerare come un soggetto unico e indivisibile della missione di salvezza, dentro il quale e non sopra il quale hanno senso i ministeri gerarchici.
Il terzo è il servizio alla crescita del mondo, quale legge costitutiva della chiesa, chiamata così a spogliarsi di ogni ideologia e di ogni pratica di dominio”.
Ora è successo che proprio nel Concilio da un lato si proponeva un’ecclesiologia nuova – la Chiesa da “società perfetta” a realtà di comunione – ma non si tiravano le conseguenze a livello dei ministeri, pur essendo chiaro il rapporto strettissimo tra ecclesiologia e dottrina dei ministeri. Forse questa è la contraddizione più grossa del Vaticano II. Mario Cuminetti al seminario nazionale organizzato dai pretioperai nel 1985 notava: “In questa situazione era logico che l’immagine del sacerdote subisse una terribile crisi”.
La scelta nostra è stata l’adozione di una forma vitae che assumesse i paradigmi emersi nel Concilio mediante un’opera di conversione che riguardava l’intera vita. È stato un processo lungo, costoso, spesso solitario, ma creativo. Ciascuno ha un’unica vita da spendere e deve assumersi la responsabilità di operare nel proprio tempo, nel tempo limitato di una sola vita. Anche correndo il rischio di compiere degli errori.
Il novum conciliare in alcune concretizzazioni di Piero
1. Rispetto alla parola: “Nel mondo che cambia la compagnia della Parola” (Pretioperai 103-104, 38-39)
“È stato il Concilio che, proclamando la centralità della Parola, mi ha aperto delle prospettive nuove, che hanno cambiato la mia vita. Racchiudo un tre parole il messaggio del Concilio come io l’ho recepito. La prima parola che è stata liberata dal Concilio è comunità…
L’altra parola liberata dal Concilio, fondamentale per noi preti operai, è condivisione…Si è parlato dell’identità del prete. Io penso che, se c’è uno specifico dell’essere prete, noi l’abbiamo trovato nell’immedesimarci nella condizione umile della gente normale, a partire dal lavoro, dal lavoro operaio…
L’altra parola liberata nel nostro cammino è proprio liberazione. Ma oggi, in queto mondo cambiato, e come siamo cambiati anche noi, che cosa significa condividere un cammino di liberazione? Cosa significa vivere la parola liberata?… Alcune cose importanti danno un po’ di senso alla mia vita attuale:
- Essere vicino (il farsi prossimo di Luca 10, 36).
- Promuovere la pace.
- Sognare una Chiesa altra… una chiesa libera dal potere e dall’idolatria del denaro, solidale con i progetti di liberazione delle donne e degli uomini, per costruire insieme una nuova pacificata umanità”.
2. Rispetto alla Chiesa: (Pretioperai 113-114, pp. 30-31).
“Il sogno di una “Chiesa altra” l’abbiamo ereditato dal Concilio e l’abbiamo fatto nostro con la scelta del lavoro operaio. Tra le motivazioni che ci hanno spinto ad andare in fabbrica, quelle “ecclesiali” erano di grande rilevanza. Io le avevo espresse con queste parole:
- passare davvero da una Chiesa gerarchica piramidale alla “Chiesa Popolo di Dio”
- abbandonare ogni privilegio e ogni forma di potere, per essere “uomo tra gli uomini”
- vivere del mio lavoro, rinunciando a qualsiasi provento legato al ministero
- concretizzare un nuovo modello di prete inserito nella vita della gente comune.
Leggendo ora l’intervento di Congar del 1967, trovo che ha espresso magistralmente quella che era l’istanza fondamentale del Concilio, “la Chiesa nel mondo”:
“È il mondo che ci impone i suoi problemi. Non è più la società chiesa, bensì il mondo che determina i problemi, è lui che suscita delle questioni difficili riguardo alle affermazioni della fede. L’aggiornamento conciliare deve portarci a un modo di essere, di parlare e di impegnarci, che risponda all’esigenza di un totale servizio evangelico al mondo“.
3. Rispetto al servizio alla crescita del mondo, (Pretioperai 87-88)
Mi limito a citare, tra i molti, un suo testo del 2010 con un titolo attualissimo “Custodi del futuro”:
“È vero, noi viviamo nella selva oscura, nel deserto, siamo disorientati e possiamo anche perdere la speranza. Ma è importante che noi lavoriamo per il futuro. L’anno scorso p. Scalia concludeva la sua relazione dicendo che noi dobbiamo essere “custodi del futuro”.
Che cosa significa essere custodi del futuro, lavorare per il futuro?
Mi sembra molto eloquente, all’inizio dell’Esodo, l’episodio di Sifra e Pua, le levatrici ebree che, disubbidendo al Faraone, facevano nascere i bambini ebrei invece di ucciderli (cfr Es. 1, 15 ss).
Mi fanno pensare a tutte le persone e gruppi che si ostinano ad andare contro corrente, anche mettendo a repentaglio la propria vita, o la carriera, o l’estimazione comune. Penso ai refusnik israeliani che rifiutano di prestare servizio militare nei territori palestinesi occupati. Penso a coloro che con diverse modalità si oppongono alle mafie. Penso alle famiglie qui da noi che ospitano un “clandestino” (non per sfruttarlo!) o che sottoscrivono un contratto di lavoro per regolarizzarlo.
Sono tante le vie per essere “custodi del futuro”.
Si è custodi del futuro sostenendo, nei modi più svariati, la speranza e la resistenza delle vittime del sistema; o con l’obiezione di coscienza a leggi e ordinamenti ritenuti lesivi dei diritti delle persone. Si è custodi del futuro con la difesa dei beni comuni che devono essere garantiti a tutti, come l’acqua, l’aria, l’istruzione, il pane, la salute… Si è custodi del futuro promuovendo il dialogo e la pacificazione tra culture e religioni, perché, come dice Hans Kung “non c’è pace fra le nazioni se non c’è pace fra le religioni”.
Si è custodi del futuro “impegnandosi a vivere una Chiesa libera dal potere e dall’idolatria del denaro, una Chiesa capace di continua conversione e rinnovamento, solidale con i progetti di liberazione delle donne e degli uomini di buona volontà, per costruire insieme una nuova pacificata umanità”.
Per concludere
Il Piero è un grande dono per tutti noi. La sua parabola esistenziale che ora noi narriamo è stata la concretizzazione in un luogo e in un contesto precisi di un impulso travolgente che ha portato centinaia di preti in Italia ed Europa ad inventare il ministero ordinato totalmente inserito nella condizione laica e materiale del lavoro operaio. In questo momento nel quale appare drammatica e ancora attualissima la crisi del ministero presbiterale, “i preti operai sono stati e sono ancora, sebbene in modo più defilato, traccia di provocazione, forma visibile e profezia”. Indicano alla Chiesa la possibilità di una sua “uscita dalla autoreferenzialità… perché dobbiamo dirlo apertamente, una chiesa autoreferenziale è una contraddizione in termini: una Chiesa che non dice Cristo come vero Dio e vero uomo, ma solo se stessa, è una chiesa falsa o forse solo Chiesa morta e che non sa di esserlo” (Andrea Grillo, intervento al convegno dei Pretioperai del 18 settembre 2021 sul tema “Con quale cristianesimo”).
Pretioperai in Europa: una grande parabola evangelica
Una parabola: il Regno di Dio è simile a…
Nell’Europa del XX secolo i preti operai sono stati una parabola evangelica.
Come succede nei testi scritti, le parabole possono avere diverse varianti e redazioni, ma intatta rimane la loro forza comunicativa.
Sono tra quelli che hanno aderito all’invito di Paolo VI che diceva al mondo
che la chiesa aveva inviato dei suoi preti a condividere dall’interno e direttamente la condizione di lavoro (Octogesima adveniens 1971).
Era necessario che questo avvenisse nelle vicende storiche
del capitalismo occidentale e del cristianesimo potente che l’Europa ha conosciuto.
Se Dio vorrà, la nostra parabola potrà continuare, narrata con la vita da altri dopo di noi,
o forse, potrà sollecitare nuove parabole che fioriscano in contesti diversi.
Qualunque sarà il futuro, che ormai ha dimensioni mondiali,
è importante che noi arriviamo a completare l’opera che ci è stata assegnata,
portando a frutto tutti i semi che sono stati piantati nella nostra vita.
Roberto Fiorini

Un gruppo di PO presso la tomba di Cesare Sommariva