Parole di Piero: lavoro (1)


24.11.71
Oggi ho iniziato a lavorare come manovale nella fonderia di Arona a Voghera. Ho incontrato diversi compagni di lavoro, dai quali ho ricevuto alcune impressioni:
Operaio di Certosa: “È vero che è un prete? … Ha fatto molto bene! … Anzi, io penso che i preti dovrebbero anche sposarsi (un operaio vicino, Egidio, acconsente): Io, veramente, sono di sinistra… ma vedere un prete proprio in fonderia, con tutti gli studi che ha fatto… Credo che sarà l’unico in Italia che lavora in fonderia”.
Un giovane (all’uscita a mezzogiorno, rivolto a un altro giovane): “Adesso c’è il prete; dovremo stare attenti a non cacciare qualche bestemmiaccia… sai, è venuto qui perché noi siamo peccatori…!” (ironico).
A mensa l’operaio di Certosa mi ha invitato a sedermi vicino a lui. Abbiamo conversato un’ora, insieme ad un altro, sulla condizione operaia, sindacati, capitalismo, caro-vita.
Stasera sono veramente stanco…

25.11.71

“Conservaci al mattino nel tuo amore, o Signore,
e saremo nella gioia tutto il giorno”.

[…] Oggi Luigi Bozzola mi ha fatto vedere degli stampi per motori di camion militari: mi ha raccomandato di lavorarli con molta cura, se vogliamo diventare parastatali […].
Allora anche noi lavoriamo per l’esercito, per la guerra… Eppure nessuno di noi vuole la guerra… Ecco la società sfruttatrice, oppressiva, guerrafondaia.
[…] Al pomeriggio, c’è stata la fusione. Renato […] mi ha detto: “Sembra di essere all’inferno!”.
Verso sera due donne hanno bisticciato.

26.11.71
[…] Domani è sabato. È bello avere davanti due giorni di festa. Tutti sono contenti […].
Il lavoro è duro, snervante. Il ritmo, bisogna sempre muoversi, a volte in posizioni veramente scomode, da sentirti rompere la schiena, il rumore assordante, la polvere, il gas quando c’è la fusione, la fatica di sollevare i pesi, per alcuni il viaggio mattino e sera. Tutto per guadagnare un pezzo di pane… È la vita degli “straccioni”, come mi diceva ieri un operaio toccandosi la tuta lurida… Il giorno in cui mi stancherò di lavorare, vorrà dire che me ne fregherò di tutto e di tutti.

06.12.71
Oggi a pranzo lunga discussione politica (guerra Pakistan, Vietnam, consumismo…) con conclusione sulla religione. M. mi ha detto che non ha più messo piede in chiesa (è contento però che ci vada la sua bambina) da quando […], molti anni fa, un prete gli negò l’assoluzione perché comunista. S. mi ha raccontato il suo incontro col prete, in Tunisia nel 1942, in occasione del [suo] matrimonio […]:

“Cosa vuole da me? – gli aveva detto – Che gli dica i miei peccati? … ma lei i suoi peccati non li dice a me. Così io non li dico a lei. Siamo uomini tutt’e due […]. Così lei pensi ai fatti suoi che i miei me li faccio io… Se va bene così, facciamo la cerimonia in chiesa, altrimenti andiamo in municipio… Io ho la fede, credo in Dio che ci ha creati così come siamo, con tutte le esigenze di natura, ma le altre balle le vada a contare a quelle sue stupide, non a me!”.

Quanti saranno che la pensano pressappoco così tra quelli che si sposano in chiesa?

09.12.71
Attualmente non ho altro scopo che condividere la condizione operaia e la vita di fraternità.
Mi rendo conto che sono due ideali molto difficili da raggiungere. Ma l’importante è orientare verso di essi i propri passi… Io penso che valga la pena spendere la propria vita per questi ideali. Anche se la realizzazione sarà sempre relativa e imperfetta.

17.12.71
Mi accorgo sempre più come gli operai in genere abbiano un concetto tanto negativo dei preti.
Per alcuni non fanno che contare delle storie (Dio, peccato, paradiso, inferno…) […]. Per altri non fanno che politica, mentre dovrebbero interessarsi solo di religione, la quale è molto utile perché serve da “freno” alla gente. I più pensano che i preti navigano nei soldi […]. Non parliamo poi del celibato. È un sistema molto comodo. Hanno tutte le donne che vogliono senza il peso della famiglia […].
Oggi G. mi ha detto: “Per Natale non si potrebbe fare la messa qui in fonderia?”.
Chissà quando arriveremo a celebrare una vera Eucarestia con tutti gli operai.

13.11.72
[…] Ora improvvisamente è scoppiata la lotta per il contratto, una lotta senza esclusione di colpi.
[…] O. […] parla degli impiegati, i quali pure hanno il dovere di fare sciopero in quanto il contratto sarà favorevole anche per loro [a causa del] l’inquadramento unico e la parità normativa con gli operai.
Intervengo io per dire:

“Gli impiegati non scioperano. È per paura o per interesse? Allora sono sfruttatori perché fanno pagare agli operai il contratto di cui poi beneficeranno anche loro. Oppure non scioperano perché non vogliono la parità con gli operai? Allora lo dicano. Ma sono ancora più sfruttatori, perché vogliono difendere gelosamente i loro privilegi senza condividerli con chi sta peggio” […]

Alle 16.00, due ore di sciopero, con l’adesione di operai e impiegati dell’ufficio tecnico.

14.11.72
[…] Aldo mi riferisce che il dott. Giancarlo [Arona] desidera parlarmi. Salgo in ufficio. Arriva anche Costa. Poi viene il dott. Giancarlo con Picozzi. [La direzione espone una situazione critica] perché è senza soldi. Che non potrà pagare la tredicesima […], che l’unica risorsa è la produzione e che quindi bisogna limitare gli scioperi e fare gli straordinari. [La situazione è complessa e le responsabilità si stemperano fra la direzione e i sindacati stessi, anche riguardo alla rappresentatività del consiglio di fabbrica, con confusione fra gli operai].
Bozzola mi ha detto: “Avete fatto male a non sentire Fedelini. È stato attaccato molto durante il consiglio e nessuno l’ha difeso!”. Rispondo che non c’è bisogno di difendere il consiglio, ma solo di dire la verità e non rimangiarsi la parola come ieri e oggi hanno fatto alcuni intermediari mafiosi e Fedelini stesso. E poi io non ho bisogno di difendermi. Gli operai sanno fino a quando debbo essere loro delegato. E io sono lieto di esserlo finché posso fare un servizio agli operai.

(il testo seguente è riprodotto dal n. 12-13 / 1990 di PRETIOPERAI)

I miei giorni svaniscono in fumo.
Le mie forze si consumano come brace. (Sal. 102,4)

Da circa un anno e mezzo lavoro in una piccola fonderia di ottone. Quindici operai, tre padroni, padre e due figli. […] La domanda [dei prodotti] è in continuo aumento, ma il numero degli operai è sempre lo stesso. Aumentano invece gli investimenti in nuovi macchinari e soprattutto aumentano i ritmi di lavoro e la richiesta di lavoro straordinario. […]
Mi ritengo fortunato a non lavorare nel capannone della fusione ma in […] “finitura” dove […] ripuliamo i pezzi […] con una segatrice a nastro.
Ma il rumore della lama è assordante per cui devo proteggere l’udito con cuffia o tappi, […] gli occhi da schegge di metallo con appositi occhiali. E dovrei usare la mascherina per non respirare la polvere […].
In fabbrica non esiste il sindacato, […] neanche la minima coscienza dei propri diritti. Si conoscono solo i doveri, che puntualmente vengono fatti rispettare, pena il licenziamento. […] Un operaio mi ha detto un giorno in tutta confidenza: “Qui siamo trattati come schiavi”.

Per la loro avidità non è sufficiente la terra,
per la loro ingordigia non basta il cielo. (Sal. 73,9)

Turi è arrivato da due mesi […] dalla Calabria. […] ha ventun anni. [È] timoroso di perdere il posto. Dopo i primi giorni di ambientamento al forno, si è sentito dire: “L’operaio che era prima al tuo posto faceva 700 pezzi al giorno. Devi arrivarci anche tu!”. Turi, che faticava già molto fondendo 500 pezzi, si sente smarrito. Inizia allora una corsa spasmodica […].
Comincia a lavorare dieci minuti prima, non perde un minuto durante tutta la giornata […] È arrivato a eguagliare il […] suo fantomatico predecessore. Si sente dire: “Se tu riesci a produrre più di 700 pezzi al giorno, ti diamo un tanto al pezzo”. […] In questo modo si fissano i ritmi di lavoro. Che non sono rigidi. Possono essere cambiati. Ma sempre e solo verso l’alto.

La mia vita si trascina nei tormenti
sento disfarsi anche le mie ossa. (Salmo 31,11)

Francesco era partito per Assisi con la moglie. Andavano a rendere grazie a San Francesco per lo scampato pericolo dei mesi scorsi. Ma in autostrada ha avuto un’altra crisi cardiaca. Fortunatamente è riuscito a fermarsi in tempo, evitando un nuovo incidente. Ora è in coma all’ospedale di Bologna. Ha 46 anni. È venuto dalla Sicilia giovanissimo. Lavora al forno da circa 25 anni. Si può dire che si è ammazzato di lavoro. Dieci ore al giorno, compreso il sabato, qualche volta anche la domenica. La necessità della famiglia, i figli, la casa da pagare… e poi le esigenze dell’azienda: «Hanno tanto lavoro. Non si può dire di no…». E il suo cuore ha ceduto. Il lavoro al forno mina il fisico lentamente ma inesorabilmente. Non è soltanto l’ambiente esterno malsano che danneggia la persona, ma anche la continua tensione che viene creata per l’assillo della produzione, che deve sempre essere aumentata in quantità, salvaguardando naturalmente la qualità.
Uno è considerato più macchina che uomo.

Ci hai provati nel fuoco come l’argento
ci hai lasciati cadere nella rete
ci hai messo una spina nel fianco
abbiamo affrontato l’acqua e il fuoco. (Salmo 66, 10-12)

In una settimana abbiamo avuto tre infortuni.
Due ai forni: Leo si è scottato un piede e Gianfranco una mano. Vincenzo si è schiacciato l’indice alla tranciatrice, l’infortunio più grave: è stato operato e difficilmente recupererà al 100% l’efficienza del dito. Ebbene: nessuno di questi infortuni è stato dichiarato all’INAIL. Gli operai sono in malattia. Anche Vincenzo, accompagnato al pronto soccorso, ha dovuto dichiarare di essersi fatto male col motorino mentre si recava al lavoro.
Leggo che le statistiche parlano di un aumento vertiginoso, fino al 50%, degli infortuni sul lavoro e dei cosiddetti “omicidi bianchi”. Ma quanti sono in realtà, se nelle piccole aziende c’è questa facilità di ingannare i lavoratori e gli istituti di assistenza?

 

Gli arroganti mi preparano trappole
mi tendono corde e reti
nascondono un laccio sulla mia strada. (Salmo 140, 6)

Dopo aver lavorato dodici anni in una fabbrica sindacalizzata, avendone condiviso lotte, ideali, partecipazione sociale, è molto duro lavorare in una fabbrica dove il sindacato non è mai entrato. Sembra davvero di fare un salto nella preistoria. Qui sembra mancare addirittura il senso della propria dignità. Quando si subisce passivamente l’umiliazione, quando non ci si ribella di fronte ad un insulto, ad una grave mancanza di rispetto alla propria persona… non c’è più solo la svendita del proprio lavoro, ma anche della propria dignità.
Manca la conoscenza e quindi la coscienza dei propri diritti: salario, ferie, festività, infortuni, malattia: le uniche informazioni sono quelle fornite dai comunicati dell’azienda. Non c’è coscienza collettiva: ognuno ha un suo contratto individuale che non deve far conoscere agli altri.
È molto difficile in queste condizioni l’emergere di una solidarietà operaia, quando tutto concorre a impedirla e a mettere l’uno contro l’altro. Guai se più di due operai si fanno trovare a parlare tra loro, anche fuori dell’orario di lavoro. Ad arte si cerca di fomentare le discordie, gli antagonismi, le invidie, i pettegolezzi.


I miei avversari dicono il falso
le loro intenzioni sono maligne.
La loro bocca è una trappola
che attira con dolci parole. (Salmo 5, 10)

Mi disse il giorno della mia assunzione: “Tra noi c’è anche amicizia”. In quel momento mi sono ingenuamente illuso di essere capitato in un’azienda dove i rapporti umani erano tenuti in considerazione… forse avevo trovato il “capitalismo dal volto umano”.
Ho capito ben presto di che tipo di amicizia si trattava. In genere tratta tutti confidenzialmente, per poter comandare, rimproverare, insultare con la massima libertà, senza minimamente preoccuparsi del rispetto per le persone. Con alcuni, specie con i più deboli, con chi non ha famiglia, stringe un legame più stretto, coinvolgendoli anche nel tempo libero, entrando nella loro vita privata. Tutto ciò col risultato che questi non possono quasi più disporre della loro vita privata, sono sempre disponibili, prolungano il lavoro fino a tarda sera… Inoltre, tramite questi “operai amici”, il padrone ha il controllo del clima che c’è in fabbrica, di ciò che pensano e dicono gli altri operai, in sostanza ha in mano uno strumento di divisione degli operai.

 

Perché guardi l’opera dei malvagi
e non dici niente? (Abacuc 1, 13)

Oggi non è più di moda parlare contro il capitalismo.
È il sistema vincente, appare come l’unica prospettiva possibile per l’umanità. Eppure in questa piccola azienda che, vista da fuori, sembrerebbe una “fabbrica a misura d’uomo”, proprio qui ho conosciuto il volto più brutto del capitalismo, il rapporto di sfruttamento più brutale, dove l’operaio è solo e indifeso e il padrone può dominare senza freni e senza remore.
Ed è proprio questa situazione, oserei dire “estrema”, che mi ha fatto considerare “l’ingiustizia permanente del capitalismo”.§
Innanzitutto l’alienazione del lavoro. Il lavoratore vende l’opera delle proprie mani, delle proprie braccia, separandola dalla propria persona, dalla propria capacità intellettiva, creativa, dalla propria volontà e libertà. Il lavoro cessa di essere “fonte di conoscenza e relazione dell’uomo con la realtà dell’universo” (A. Paoli). Da questa “svendita” il lavoratore ricava a mala pena i mezzi di sussistenza, ma si impoverisce sempre più come persona: il capitale si impingua a dismisura.
Se si aggiunge il sistematico disprezzo per la persona umana e la sua dignità, il clima di irrisione e di intimidazione, la manipolazione culturale, la mancanza di libertà… ci si rende conto a quale dio Moloch l’umanità stia sacrificando i suoi figli…
Ma di questa situazione ormai più nessuno parla. Anzi sembra che nessuno più ne abbia coscienza. Addirittura tutto questo viene chiamato libertà, democrazia, benessere!
Ciò che più spiace è che la Chiesa stessa, che dovrebbe essere “Luce delle genti”, non leva la sua voce contro l’ingiustizia. Prigioniera di questo sistema, che ha fatto proprio culturalmente, politicamente ed economicamente, non è libera di dire la verità, di denunciarne le ingiustizie. Insensibile al grido degli oppressi, non condanna gli oppressori, mentre spesso condanna chi impegna la propria vita per la difesa degli oppressi.
Ripiegata su se stessa, non rende un servizio all’umanità con una denuncia chiara e concreta, con l’annuncio profetico (parola + azione) che il capitalismo deve finire, deve essere superato, che gli oppressi devono essere liberati, che ai popoli che muoiono per lo sfruttamento dei ricchi deve essere riconosciuto il diritto a vivere non da padroni né da schiavi, ma liberi e in fraternità.

Piero Montecucco


 

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