Editoriale (1)
Quando è nata la nostra rivista don Sirio Politi ci ha parlato di una pagina bianca da tenere sul tavolo. “Questa pagina bianca è come la polvere della piazza sulla quale Gesù scriveva con il dito. E’ come la strada sulla quale il camminare dei piedi descrive, racconta, l’avventura del proprio destino”. La pagina bianca apriva il numero O col quale si inaugurava questa sfida tanto impegnativa. L’articolo che chiudeva questa prima pubblicazione – La tessitura dei nostri occhi di Gianni Tognoni – ci donava un’altra immagine che si congiungeva alla prima: lo sguardo: “È come se raccontassimo o ci accorgessimo di una storia del nostro sguardo: noi siamo capaci di vedere solo con quegli occhi. Anche se, a volte, vien voglia di chiuderli, o di desiderare di aver uno sguardo diverso. Questo sguardo-necessario, ci fa vedere soprattutto e ripetitivamente le bugie della macrostoria. Queste bugie sono molto concrete: sono le protagoniste del quotidiano”. Piero ha riempito molte pagine bianche che ci narrano il suo cammino e quello che i suoi occhi hanno visto. Ne scelgo alcune per guardare, attraverso le sue narrazioni, quanto lui ha voluto consegnare alla memoria.
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Inizierò da un racconto che affonda le radici nell’infanzia. Nell’immediato dopo guerra il padre lo condusse con sé per assistere a un funerale. Quindici bare erano allineate nella piazza del mercato. Contenevano le salme di giovani renitenti alla leva, entrati poi nelle file dei partigiani. Le truppe nazifasciste in diverse fasi ne fucilarono 147 e altri morirono nei combattimenti. Fu l’eccidio de La Benedicta [1], un cascinale annesso a un monastero medioevale sull’Appennino ligure-piemontese. 400 furono deportati in Germania dove la metà persero la vita nei campi di concentramento.
Piero abitava in una cascina isolata tra le colline, lontano dal paese, ma le notizie della guerra arrivavano e anche in quell’isolamento appariva la presenza nazifascista. “E ricordo bene, pur essendo un bambino, come la milizia fascista faceva sentire tutta la sua pressione sulle famiglie dei renitenti alla leva. La guardia comunale veniva da noi ogni due o tre giorni a cercare mio zio Talino. E un giorno arrivarono in gruppo i militi armati di tutto punto, sottoposero mio nonno ad un pesante interrogatorio, salirono sul fienile e lo passarono col tridente, pensando che mio zio fosse nascosto sotto il fieno…”. Al centro del suo paese una lapide ammonisce: Non dimenticate i Martiri della Benedicta. “Ormai non si ricordano più come ‘i ribelli’, e neanche come ‘i partigiani’, ma al mio paese vengono chiamati ‘Martiri’ perché sono Morti nel tramonto della tirannia e Risorti nell’alba della libertà”. Certo Piero non li ha dimenticati. Anche la sua iscrizione all’ANPI avvenuta nel lontano 1974 lo testimonia. E aggiungo: vi sono esperienze vissute nell’infanzia che lasciano un’impronta che dura tutta una vita, una memoria che rimane nel profondo e che si fa sentire nelle scelte che danno una direzione all’intera esistenza.
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È Piero stesso a dirci quello che i suoi occhi vedevano. Occhi orientati alla ricerca, mossi dal suo impulso interiore di voler entrare in relazione. Il primo anno da prete lo trascorse nella periferia di Voghera e racconta: “Vedevo gli operai che tornavano a casa dal lavoro a gruppi in bicicletta, e avvertivo la distanza, l’impossibilità di relazionarmi veramente con loro… Tutto quello che facciamo è sempre orientato a costruire relazioni positive con le persone” [2]. La scelta del lavoro in fabbrica ha significato annullare la distanza condividendo in pieno la condizione operaia, aprendo quindi la possibilità di relazioni vive con le persone che lo sentivano come compagno. Rimando alle brevi narrazioni colte dal suo diario.
Sono appunti preziosi perché trattano della condizione oggettiva nella quale lui e i compagni sono inseriti, alle sue reazioni dinanzi a un sistema lesivo della dignità umana, a volte con riferimento ai salmi di lamentazione che troviamo nella Bibbia. Si scopre il valore della festa come sospensione del lavoro, pausa per gustare una momentanea liberazione:
Al pomeriggio, c’è stata la fusione. Renato […] mi ha detto: “Sembra di essere all’inferno!”. […] Domani è sabato. È bello avere davanti due giorni di festa. Tutti sono contenti […]. Il lavoro è duro, snervante. Il ritmo, bisogna sempre muoversi, a volte in posizioni veramente scomode, da sentirti rompere la schiena, il rumore assordante, la polvere, il gas quando c’è la fusione, la fatica di sollevare i pesi, per alcuni il viaggio mattino e sera. Tutto per guadagnare un pezzo di pane… È la vita degli “straccioni”, come mi diceva ieri un operaio toccandosi la tuta lurida… Il giorno in cui mi stancherò di lavorare, vorrà dire che me ne fregherò di tutto e di tutti.
Là, dentro la fabbrica, lavorando gomito a gomito, conosce le storie delle persone. Turi che viene dalla Calabria, sottoposto al lavoro a cottimo, a cui fissano traguardi sempre più ardui: “se tu fai più di 700 pezzi al giorno, ti diamo un tanto al pezzo”. Francesco, venuto dalla Sicilia giovanissimo che per 25 anni ha lavorato al forno. Si è ammazzato di lavoro con 10 ore al giorno, compreso il sabato e qualche volta la domenica, perché doveva pagare il mutuo della casa. Il suo cuore ha ceduto a 46 anni. E commenta Piero: “Il lavoro al forno mina il fisico lentamente, ma inesorabilmente”. Ciascuno è chiamato per nome. Ancora: in una settimana ci sono stati tre infortuni sul lavoro. Leo si è scottato un piede, Gianfranco una mano e Vincenzo ha perduto un dito alla tranciatrice. Nessuno di questi infortuni è stato dichiarato All’INAIL. Commento: “Leggo che le statistiche parlano di un aumento vertiginoso, fino al 50% degli infortuni sul lavoro e dei cosiddetti omicidi bianchi. Ma quanti sono in realtà, se nelle piccole aziende c’è questa facilità di ingannare i lavoratori e gli istituti di assistenza?”. Quello che ha visto Piero allora continua ad avvenire anche oggi, sepolto nel silenzio.
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Ma allo sguardo di Piero non mai venuto meno l’orientamento verso la bellezza. Nato tra i colli amava le montagne che ha esplorato con continuità fino a quando le energie l’hanno sostenuto. Riprendo un passaggio della memoria di Gianni Bazzini:
È stato l’amico che tra le tante esplorazioni in montagna mi ha guidato nella sfida al Castore, cima del Monte Rosa che aveva già scalato con i nipoti, anche se poi siamo stati respinti dal forte vento sul costone finale, dopo il Colle di Felik. E ci ha accompagnato fin verso la fine della sua vita sul suo Monte Boglia, sopra Brè, o sullo splendido Monte Generoso da dove riusciva a scorgere il Finsteraarhorn, citato da Eberard Bethge nelle lettere dal carcere di Dietrich Bonhoeffer.
Non a caso tra i testi scelti nell’accompagnamento ultimo c’è questo salmo trascritto in parole nuove:
La bellezza dei monti
Quanto sono stupende le tue opere, Signore.
Le hai fatte per l’uomo vivente che abita la terra.
Le hai fatte perché nulla sia scontato.
Le hai fatte perché sconvolgessero le sicurezze.
Le hai fatte perché guardandole e vivendole
ricordassimo che la vita è molto più
di ciò che viviamo e crediamo.
Vette intorno e sentieri che conducono
verso orizzonti splendidi,
tempeste improvvise, panorami infiniti.
Sono stupende le tue opere, Signore.
Le hai fatte perché vivendole,
abitandole e gustandole fino in fondo,
si possa scoprire il grande mistero
della vita e del tuo amor.
La bellezza porta un carico che va ben oltre la dimensione meramente estetica, quella che rimane alla superficie, o addirittura alimenta il mercato. Salvatore Iacono, nel suo intervento evoca un senso profondo della bellezza:
“Quale bellezza salverà il mondo?” si chiedeva il cardinale Carlo Maria Martini, in una lettera pastorale rivolta alla sua città, Milano. Era una citazione dal romanzo “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij. “Mettersi in ascolto delle domande vere del cuore umano vuol dire cogliere ogni nostalgia della bellezza, per camminare insieme con tutti, alla ricerca della bellezza che salva”, continuava Martini.
C’è anche lo sguardo che immagina, che sogna. Qualcuno dirà lo sguardo che si sfuoca nell’illusione che finisce inesorabilmente nella delusione.
Piero ha sognato una chiesa diversa, a partire dalla nuova Pentecoste del Concilio Vaticano II. Riprendo da un suo scritto, ripubblicato per intero su questo quaderno, un passaggio particolarmente efficace:
“Il sogno di una “Chiesa altra” l’abbiamo ereditato dal Concilio e l’abbiamo fatto nostro con la scelta del lavoro operaio. Tra le motivazioni che ci hanno spinto ad andare in fabbrica, quelle “ecclesiali” erano di grande rilevanza. Io le avevo espresse con queste parole:
- passare davvero da una Chiesa gerarchica piramidale alla “Chiesa Popolo di Dio”
- abbandonare ogni privilegio e ogni forma di potere, per essere “uomo tra gli uomini”
- vivere del mio lavoro, rinunciando a qualsiasi provento legato al ministero
- concretizzare un nuovo modello di prete inserito nella vita della gente comune”.
In questo caso il sogno non rimane qualcosa di fatuo destinato a scomparire come la rugiada dinanzi alla potenza del sole. È un sogno incorporato, proprio nel senso che il corpo stesso è diventato il vettore del sogno stesso.
“L’abbiamo fatto nostro con la scelta del lavoro operaio”. Tutta la vita è stata compromessa in quel sogno che dura tenacemente anche oltre la nostra morte. Diventando così parabola evangelica, parabola esistenziale che parla ancora, oltre la nostra consumazione. Non aggiungo altro perché il mio articolo posto alla fine sviluppa il discorso della parabola di Piero.
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Un accenno allo sguardo sulla sua città, al territorio che le sta attorno e alla popolazione con le modifiche che sono in corso. Su questi aspetti abbiamo riportato tre suoi articoli comparsi sulla nostra rivista a cui rimando: In quel di Voghera; Terra amica e Una nuova fase storica. Mettendoli insieme da un lato cogliamo la forza del suo sguardo capace di una lettura ampia, dall’altro emergono i compiti che stanno di fronte che attendono una presa di coscienza e anche l’assunzione di responsabilità politiche per una migliore convivenza e responsabilità verso il territorio.
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Infine un altro sguardo che non è oggettivabile per la sua unicità e quindi rimane segreto. Lo sguardo di un uomo e di una donna che si sono amati per tanti decenni e si sono guardati con uno sguardo unico. È lui a dirlo pubblicamente nel suo testamento. È stata cancellata la falsa idea che amare una donna significhi rubare qualcosa a Dio. Non è così. La gelosia di Dio, di cui parla la Bibbia, non riguarda questo ambito, ma l’idolatria. C’è una bellissima metafora della quale parla Bonhoeffer nel chiuso del carcere dove era prigioniero. La nostra vita umana è una polifonia nella quale sono in contrappunto le diverse voci. Un tipo di composizione musicale a più voci molto indipendenti tra loro, ma che non si contrappongono e quindi sono correlate al cantus firmus, una melodia preesistente che forma la base stabile di una composizione a più voci:
“Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto. Uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno. Anche nella Bibbia c’è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla (cfr. 7,6!); è davvero un bene che faccia parte della Bibbia, come contrasto per tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore… Vorrei pregarti di far risuonare con chiarezza nella vostra vita insieme il cantus firmus, e solo dopo ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene, e resterà tuttavia qualcosa di specifico, di totale, completamente valido in se stesso. Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita diventa completa e, contemporaneamente, sappiamo che non può succedere nulla di funesto finché viene mantenuto il cantus firmus. Forse diventerà più facile sopportare molte cose, in questi giorni di vita insieme, ma anche in quelli della separazione che probabilmente verranno” [3].
Queste cose scriveva Bonhoeffer all’amico che era militare qui in Italia, lontano dalla moglie Renate, sua nipote. Più avanti applica questa metafora anche alla propria sofferenza dovuta all’impossibilità di essere presente al battesimo del figlio della coppia al quale diedero il suo nome Dietrich.
Concludo affermando che Piero ha vissuto una vita polifonica. I diversi sguardi che sono stati messi in luce sono un’indicazione delle pluralità di voci che in lui si sono espresse, avendo come base il cantus firmus, quella realtà che regge la ricchezza polifonica.
Una di queste è stata l’accoglienza dell’amore di Luciana. La completezza che abbiamo ammirato in lui certamente ha attinto molto da quel dono.
Un dono sofferto, ma felice.
A loro due la parola: il testamento di Piero e la testimonianza di Luciana.
Roberto Fiorini
1. Pretioperai 68/2006.
2. Pretioperai 94/2011.
3. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa ODB Vol. VIII, Queriniana, Brescia 2002, 411-412.