Parole di Piero: orizzonti (4)


Padre, donaci la fiducia vigorosa
che tu sei potente nei deboli
(S. Kierkegaard)

Una mia vicenda personale: da metà settembre a metà gennaio ho vissuto quattro mesi di malattia.
Dopo l’infarto miocardico ho avuto l’intervento di angioplastica con l’applicazione di due “stent” alle coronarie. In seguito è subentrato un edema polmonare che ha rivelato la disfunzione della valvola mitralica. È seguita quindi l’operazione per la riparazione della valvola e un mese di riabilitazione. Vi comunico alcune riflessioni che mi hanno accompagnato in questo periodo. Anzitutto la malattia mi ha fatto pensare alla fine della mia vita. Il rischio della morte, che è incombente in ogni momento della vita, è insito nella malattia grave.
Questo mi ha portato a essere più cosciente del fatto che la mia vita è precaria e provvisoria, che il filo della vita si può spezzare in qualsiasi momento. In secondo luogo, ho sentito in modo particolare la responsabilità verso la mia vita.
Io ho il dovere di difendere e conservare la mia vita. Perché è un bene prezioso che mi è stato dato per me stesso e per gli altri. E io lo devo custodire per me stesso e per gli altri. Tante persone mi sono state vicine con affetto sincero e profondo, anche persone che non rivedevo da anni. Mi hanno fatto sentire più intensa questa responsabilità di vivere, per continuare relazioni, affetti, comunione di sentimenti e di vita. Mi sono posto poi una domanda: Quanto vale la mia vita?…

Non sono in grado di quantificare il costo della mia malattia e della mia guarigione.
Mesi di degenza ospedaliera, interventi chirurgici, personale medico, infermieri, analisi, farmaci… credo che la cifra sia enorme. Quanto vale la mia vita?…

Milioni di persone nel mondo muoiono perché non hanno l’aspirina o l’antibiotico, perché manca l’ambulanza o perché viene fermata a un check point… Quanto vale la mia vita?… Risposta non c’è.
Ma anche questo richiama la mia responsabilità: non si può vivere tranquilli fino a quando tutta l’umanità non abbia riconosciuti uguali diritti, in primo luogo il diritto a vivere.

Durante questi mesi di degenza in tre diversi ospedali, mi sono trovato immerso in un ambiente di umanità vera, che mi ha richiamato per certi aspetti la fabbrica. La malattia, come il lavoro, rivela la persona umana nella sua verità. Ricordo che nei primi anni di ministero mi pareva di percepire il vangelo vissuto più che nella struttura ecclesiastica nella vita della gente, nelle famiglie che visitavo, dove riscontravo la pratica dell’amore nella condivisione della vita, spesso al di fuori di una dichiarata professione di fede. La fabbrica è stata poi il centro di questo vangelo vissuto, dove, in mezzo a tante contraddizioni, si cercava di costruire sulla solidarietà e sulla condivisione di attese, lotte e speranze le basi per una nuova società. Nell’ospedale ho ritrovato alcuni aspetti di quella pratica di condivisione: nella prossimità ai malati di tanti medici e infermieri, nella comunione di vita dei malati stessi, che spesso si sostengono a vicenda e si aiutano a tener viva la speranza. Molti malati, specialmente i più giovani, hanno difficoltà ad accettare le menomazioni che la malattia stessa comporta. In alcuni addirittura viene meno la fiducia nella guarigione e la voglia di vivere. Nessuno può comprendere meglio questa loro situazione e aiutarli a superarla dei compagni di sventura. Ci sono relazioni di confidenza e di sostegno psicologico reciproco tra i malati, che sono di grande aiuto ai più fragili e sfiduciati. Ho apprezzato la presenza discreta dei cappellani, che esercitano le loro funzioni senza imposizioni e forzature. Però mi è parso di constatare che la maggior parte delle persone, che vivono un momento così importante e difficile come la malattia, non trovano aiuto nella chiesa e nella pratica religiosa. La fede o l’incredulità è per lo più un fatto privato, che si può condividere solo dove si trova attenzione e accoglienza. E verso la chiesa e i suoi ministri c’è molta diffidenza. È un’istituzione lontana dalla vita della gente, preoccupata soprattutto dei propri interessi… Mi sembra appropriato il giudizio di Arturo Paoli:

“Muore una certa Chiesa, una certa religiosità attaccata agli idoli del nostro tempo, ma che non cammina in mezzo ai poveri. Il fatto che siano stati moltiplicati i santi in cielo dimostra la tendenza a uscire dalla storia, a distaccarsi dalla dimensione orizzontale dell’uomo. Una Chiesa che annunziasse la liberazione totale dell’uomo è stata annichilita. La Chiesa è stata portata fuori perché ha troppo legato la sua esistenza e il suo potere alla verità astratta. Il farsi vero è essere più umani. Essere veri significa manifestare la verità profonda della vita, essere immersi nel flusso vitale delle cose, degli eventi”.
(A. Paoli, Qui la meta è partire, p. 63)

E allora, dice ancora Arturo Paoli, “si deve passare da una spiritualità individualistica all’etica della compassione universale”. La condizione complessiva dell’umanità diventa sempre più tragica. Le sollevazioni popolari contro l’aumento dei prezzi in diversi paesi poveri mi hanno fatto ricordare la previsione dell’enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI del 1967:

“Bisogna affrettarsi: troppi uomini soffrono e aumenta la distanza che separa il progresso degli uni e la regressione degli altri… Diversamente l’avarizia inveterata dei ricchi non potrà che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili”
(Populorum progressio, n. 29, 49).

In una società che spinge all’indifferenza, al giudizio dì ineluttabilità della tragedia umana e al senso di impotenza, la “compassione” che Gesù provò verso la folla affamata (Mt. 14, 14) non è un sentimento sterile e passivo. È la ribellione verso l’ingiustizia, è il proposito di fare quel poco che è nelle mie possibilità per sconfiggerla. Come ha fatto Gesù, che ha compiuto segni di amore e di condivisione, ma non ha risolto tutti i problemi che affliggono l’umanità. Anche noi siamo chiamati a fare come Gesù che “è venuto per essere amico e fratello dell’uomo e ha portato sulla croce il grido disperato dello schiavo” (Arturo Paoli). Essere compagno di cammino, condividere la condizione di vita e di sofferenza di chi sta sotto, di chi è schiacciato, del clandestino, del nomade… Anche nelle mutate situazioni, la prospettiva è sempre quella che parte dal basso, e lo spirito e lo stile di vita è sempre la condivisione.

Piero Montecucco 

Articolo pubblicato in PRETIOPERAI n. 77-78 del 2008


 

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