Testimonianze nella chiesa del Carmine nei giorni del commiato (7)
La mattina del funerale di Piero Montecucco, sono partito molto presto da Viareggio, in tempo utile per poter essere a Voghera e, con l’aiuto di amici di Piero, venir “guidato” fino alla cattedrale per essere presente alla celebrazione. Ci eravamo sentiti con Roberto Fiorini, impossibilitato a partecipare al funerale essendo ormai quasi del tutto assorbito dall’assistenza alla madre, gravemente ammalata.
Piero era stato da anni una presenza costante agli incontri e ai convegni dei preti operai: che non ci fosse nessuno di noi ad accompagnarlo ci pareva inaccettabile. Diverse volte avevo manifestato a Piero l’intenzione di venire a Voghera per conoscere la sua realtà e la sua storia. Non potevo mancare questa ultima occasione!
Avevo preparato due appunti per un intervento a nome dei Pretioperai, di quel “piccolo resto”, sopravvissuto di un tempo della chiesa che in me continua a suscitare la nostalgia del sogno.
Al termine del rito sono stato invitato a intervenire, insieme ad alcune altre “testimonianze”, e sono riuscito a ricucire i pochi appunti scritti e le parole che avevo raccolto scendendo verso Voghera giù dal vecchio tracciato della Genova-Milano incontrando via via manufatti e sagomature che ancora raccontano una delle storie più articolate del duro passaggio dall’agricoltura all’industria del popolo lavoratore in Italia.
Non ritrovo più quegli appunti e non saprei più – a distanza di mesi – ricostruirne l’ossatura che avrebbe dovuto improntare questo mio scritto.
Parto comunque da qui, dalla intuizione di una stretta corrispondenza tra il paesaggio aspro da me attraversato al mattino e il carattere dolce di Piero, la sua voce sempre pacata anche quando usava parole forti, intuendo che là dove io ravvisavo le tracce di storie di immensa fatica e dolore, lui non cessava di incontrare uomini e donne che – pur raccontando la sofferenza – la cantavano con le nenie dell’amore.
Spero di essere stato capace (se non nei concetti, almeno nell’emozione della voce) di comunicare ai presenti in cattedrale quello che ho colto essere nota caratteristica del “sacerdozio” dei preti operai e quindi ben presente anche in Piero: l’affiorare dell’“uomo” nell’incontro tra intelligenza e cuore e la chiara appartenenza a un popolo che si riconosce nelle differenze. A questo compito che, nella sua semplicità considero comunque essenziale, credo di aver adempiuto. Me l’hanno confermato gli sguardi e i saluti dei suoi amici preti, degli uomini e donne che hanno voluto condividere con me quei pochi minuti di ristoro prima di riprendere la strada per tornare a casa.
Con Piero, eravamo quasi coetanei. Di poco mi aveva preceduto nel venire al mondo. Un mondo segnato dal dilagare di una guerra, la seconda, che ci avrebbe travolti a dimensione mondiale. Conclusa nel sinistro irreale bagliore delle esplosioni atomiche. Segnata dal tragico sorpasso del numero dei morti civili sotto i bombardamenti a tappeto delle città tedesche ad opera dell’aviazione alleata rispetto a quello dei militari.
Avrei voluto abbracciarti ancora, Piero caro. Avrei ancora tanto bisogno di sentire la tua voce quieta e insieme capace di far trasparire l’amore che ha conosciuto il dolore perché c’è ancora tanto bisogno di uomini e donne che portano il sogno della giustizia nel cuore e conoscono l’essenziale bisogno di guadagnarsi il pezzo di pane. Mentre non riusciamo a cancellare l’idea che solo uccidendo il nemico si possa sconfiggere ogni fame di potere.
Oggi, in questo tempo ancora così terribile, mentre attendiamo con timore e tremore il dilatarsi della voglia immonda di far guerra, sappiamo – come cantò Bertolt Brecht – che “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”.
Luigi SONNENFELD