Editoriali


 

Da più di dieci anni gran parte della classe politica, imprenditoriale e degli amministratori hanno imputato alle classi più basse l’accusa di essere le responsabili del deficit pubblico in costante crescita e della scarsa competitività dell’Italia sui mercati. Il disastro economico che gli illuminati profetizzavano aveva già pronto il capro espiatorio.

Dal referendum sulla scala mobile, per il cui smantellamento sono stati impiegati anche fondi neri al tempo dell’infausto governo Craxi, sino alla recente decisione del CIP (comitato interministeriale prezzi) con la quale si è tolto l’ultimo simulacro del controllo dei prezzi del pane e del latte, c’è stata una marcia inarrestabile verso una moderna ed efficiente deregulation. Verso l’Europa, dicono, a fondamento della quale viene posto il libero mercato per tutti i prodotti: affitti, pane, latte… Mercato, ohimè. che non sarebbe poi davvero libero, per via di certe regole truccate praticate dalle nostre parti, stando a quanto un insospettabile, quale è il vice governatore della Banca d’Italia, ha recentemente sostenuto nella sua relazione al convegno su “Etica e politica”.
Ricordate quando in occasione dell’accordo del 31 luglio, col quale si congelavano salari e contrattazione, il governo ancora in carica garantiva che sarebbe stato attuato un efficace controllo dei prezzi? Nel clima generale di pentitismo anche i ministri si sono pentiti di quella promessa dirigistica ed hanno scelto di restituire la libertà a pane e latte.
Ora che i consumatori italiani si ritrovano liberi di pagare di più questi due prodotti, notoriamente destinati a soddisfare le voglie di una minoranza ricca e snob, finalmente sono stati eliminati gli arcaici residui di quel dirigismo post-bellico che il CIP identifica come pesante handicap che ci allontana dall’Europa.
Detto fra noi sottovoce, occorre onestamente riconoscere che in tutti questi anni. pur nell’avvicendarsi di governi e leaders, vi è stata coerenza e determinazione nella tosatura delle classi più deboli. ovvero del capro espiatorio additato dalle élites al potere quale responsabile del dissesto italiano.

 

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Senonché, in pochi mesi, la storia che a rovinare l’Italia sarebbero state le classi sociali più basse è andata giù di moda. Gli scenari di corruzione politica, industriale, finanziaria ed amministrativa, aperti come voragine sotto i nostri occhi, esibiscono l’oscenità di un sistema articolato, pervasivo, cancerogeno, divoratore di risorse pubbliche. Risorse che forse è impossibile quantificare, ammesso che lo si voglia. Mentre desta ilarità chi parla di restituzione, visto che ormai molte casse sono vuote (il PSI, ad esempio, ha già cominciato a mettere in vendita i gioielli di famiglia).
Allora il dato che balza evidente all’occhio è la sfacciata malafede delle nomenklature che in questi anni hanno guidato il vapore. E, di conseguenza, il vuoto di credibilità nel quale hanno fatto precipitare le istituzioni a cui i cittadini si devono necessariamente rapportare. Malafede che prima era sospettata e che veniva denunciata negli slogan popolari degli operai durante le manifestazioni. Ma che ora è soggetta a prova provata, senza più via di scampo.
E viene alla luce quello che con costanza si incontra nella storia: le classi egemoni non solo detengono ed esercitano il potere. ma dettano pure le loro regole, la loro etica. Anzi, fanno anche le prediche morali.
Fa veramente senso vedere Amato disquisire, da capo del governo, sulla questione morale, dopo essere stato per anni autorevole esponente del craxismo, cioè della teorizzazione e dell’esercizio del potere come si sono espressi in Italia nell’ultimo decennio e mentre, tanto per non smentirsi, tenta di far passare un decreto propiziatorio di colpi di spugna.

 

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Sotto i nostri occhi è franato un muro di omertà e di tenaci complicità. Questo ha consentito ai giudici di procedere nel loro lavoro con sorprendente rapidità.
È convinzione diffusa che tale sgretolamento, in gran parte. sia stato determinato dall’esplosione del sistema stesso. È diventata intollerabile l’emorragia continua e capillare di risorse che finivano in una cloaca improduttiva e parassitaria. Ogni limite e compatibilità erano ormai stati superati in un meccanismo perverso ed irrefrenabile: un battello che imbarcava acqua e che non era più in grado di garantire il galleggiamento.
C’è da rallegrarsi di questo squarcio di verità. Come pure si nota una diffusa soddisfazione nel vedere cedri del Libano cadere.
Eppure …
Eppure se si confronta l’efficienza del sistema giudiziario in tema di tangenti con la paralisi alla quale si è pervenuti nel grande e inesplorato capitolo delle stragi di stato (Milano, Brescia; Bologna … Ustica) balza evidente la differenza.
Vuoto, buio. Depistaggio metodico. Nessuna verità certa. Tutto si perde nel nulla. Le stragi continuano ad essere un segreto di stato, anzi, di più stati, come insegna Ustica.
Tangentopoli che ha fatto emergere il carattere sistemico della corruzione, indirettamente ci informa, anzi diventa una conferma, delle altissime coperture su cui possono contare quei settori dello stato che invece di difendere i cittadini hanno consentito o direttamente programmato e attuato stragi indiscriminate per ottenere risultati politici.
Il buio delle stragi e il sistema di corruzione venuto alla luce la dicono lunga sulla qualità della democrazia politica italiana. Mentre è legittimo domandarsi se l’esercito degli inquisiti e dei compari che sono ancora nell’ombra non siano una sorta di mina vagante. È difficile immaginare che accettino tranquillamente senza colpo ferire di uscire dalle scene che hanno calpestato da protagonisti. Mentre suonano lugubri le evocazioni e gli appelli di Cossiga che ha ripreso a tirar sassi contro la Costituzione.

 

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Tangentopoli è un siluro che ha colpito in pieno anche l’unità politica dei cattolici. È semplicemente osceno che il partito che ha sempre proclamato di ispirarsi ai “valori cristiani” sia stato il pilastro portante del sistema di corruzione. Questo tradimento da tanto, da troppo tempo veniva denunciato; eppure quando è saltato il coperchio dalla pentola hanno riempito di stupore l’estensione e la capillarità del fenomeno.
Per chi ha vissuto la stagione post-conciliare ed è pervenuto alla chiara distinzione fra trascendenza del dono della fede cristiana e le opzioni politiche che si esprimono anche nella scelta partitica, vede con molta amarezza che la botta più efficace all’unità politica dei cattolici sia venuta dall’esplosione del sistema di corruzione. È un’ironia della storia il cui insegnamento andrebbe raccolto con cura. In molti avremmo desiderato che nella chiesa italiana si fosse aperto un coraggioso dibattito con riconosciuta cittadinanza a tutti e pari dignità, senza l’ombra del sospetto per chi era privo della circoncisione democristiana. È tragico constatare che proprio nella chiesa che si chiama cattolica si sia troppo spesso peccato contro la cattolicità.
Per chi ama la fede cristiana non è possibile non provare sofferenza acuta nel dover constatare gli abusi a cui è stata sottoposta, l’abbraccio mortale a cui è stata sottomessa nella ibrida mescolanza con gli affari, la squalificazione della sua purezza e bellezza nella compromissione col potere.
Dov’era la gran parte dei custodi di questa fede? Dov’erano le sentinelle? Per decenni vescovi e prelati hanno convissuto, benedetto, sostenuto, scambiato favori. Fino al 5 aprile ’92 è piovuto regolare l’appello ai cattolici a votare uniti, anche turandosi il naso, in nome dei “valori cristiani”; ma in realtà, come i fatti dimostrano, a sostenere quel sistema che è sotto gli occhi di tutti.
Ora la presidenza della CEI preme per un ricambio della classe dirigente, tuona perché i corrotti se ne vadano: senza troppa originalità ripete quello che ormai dicono quasi tutti i giornali. Adesso è facile denunciare, ma a tempo debito in quanti hanno alzato la voce con decisione? Forse per compiacenza. per cecità, o pretattica politica “a fin di bene”? Non porta molto lontano cavalcare ora l’indignazione morale chiamandosi fuori da corresponsabilità obiettive.
Succede in politica che chi sbaglia paga e se ne deve andare. Bene, tutti a casa, ma anche quei vescovi che hanno appoggiato questo sistema, magari traendone vantaggi. Sarebbe la predica più efficace. È ora di finirla che nella chiesa si riconoscano gli sbagli solo dopo 400 anni. Come con Galileo.

 

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“Dai sotterranei della storia”. Abbiamo ripescato questo titolo da un libro pubblicato in Italia circa 20 anni fa, nato dalla corrispondenza di Frei Betto, domenicano rinchiuso come prigioniero politico in un carcere brasiliano.
Nei sotterranei pulsa la vita, nonostante tutto. E se lì resistono germi di speranza e di amore per l’uomo si può star certi che sono di pasta genuina. È ciò che oggi ci è necessario come l’aria.
In questo numero 23 vengono offerte situazioni e testimonianze che orientano lo sguardo verso la concretezza della esistenza umana nelle sue lotte e condizioni reali.
La lotta dei minatori sardi nel Sulcis-Iglesiente, il turno di notte in fabbrica, il preteoperaio licenziato nel venerdì santo e una poesia a lui dedicata da un altro PO…
Poi dal Salvador ci annunciano che dei ragazzi suonano Mozart e padre Zanotelli dall’Africa racconta quello che vede alle frontiere della sofferenza umana…
Una donna ci narra di parole che non possono nascere alla luce della relazione, costrette alla solitudine della inespressìone. Per associazione mi vengono alla mente le immagini di Leila. Tutti abbiamo ancora negli occhi il tentativo dì linciaggio di quella donna somala, denudata in faccia al mondo dopo essere stata vista scendere dalla jeep di soldati francesi in “missione di pace”. Che fine ha fatto? Leila è stata aiutata da un gruppo di donne somale organizzate che cercano di farle superare quella tragica esperienza. Il suo desiderio più grande è quello di veder ritirate le foto che la mostrano a seno scoperto. Per la cultura musulmana questa costituisce la peggiore delle offese.Dai sotterranei della storia la vita è diversa, come diverso è lo sguardo.
”Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi; in una parola, dei sofferenti”. (Bonhoeffer).

ROBERTO FIORINI


 

Riferimenti

1. Dietrich Bonhoeffer
RESISTENZA E RESA

Lo sguardo dal basso

Resta un’ esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi; in una parola, dei sofferenti.
Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se anzi la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la contemplazione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale.
Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’ accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell’ alto.

Lettera a Bethge (21 luglio 1944)

Negli ultimi anni ho imparato a conoscere e a comprendere sempre più la profondità dell’essere-aldiquà (Diesseitigkeit) del cristianesimo; il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, cosi come Gesù – a differenza certo di Giovanni Battista – era uomo. Intendo non il piatto e banale essere-aldiquà degli illuminati, degli indaffarati, degli indolenti o dei lascivi, ma il profondo essere-aldiquà che è pieno di disciplina e nel quale è sempre presente la conoscenza della morte e della risurrezione. Io credo che Lutero sia vissuto in siffatto essere-aldiquà.
Mi ricordo di un colloquio che ho avuto 13 anni fa in America con un giovane pastore francese. Ci eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo – e credo possibile che lo sia diventato -; la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contrastai, e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere. Per molto tempo non ho capito la profondità di questa contrapposizione. Pensavo di poter imparare a credere tentando di condurre io stesso qualcosa di simile ad una vita santa. Come conclusione di questa strada scrissi Nachfolge (Sequela). Oggi vedo chiaramente i pericoli di questo libro, che sottoscrivo come un tempo.
Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani; e, io credo, questa è fede, questa è metànoia; e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cf. Geremia 45).
Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti.

 

2. Frei Betto
DAI SOTTERRANEI DELLA STORIA

L’esserci e il vivere nei sotterranei della storia ci fa ‘altro’

“…Da parte mia sento che qualcosa è cresciuto dentro di me, con radici solide e ferme. È come se uscissi dalla nebbia per vedere tutto chiaro: sia che voglio, come lo voglio, di cosa sono capace, cosa sono pronto ad affrontare. Penso di essere arrivato a una frontiera dalla quale non si torna più indietro. Sarebbe un tradimento e un suicidio. Devo camminare in avanti, senza guardare indietro. Non ho più nulla da perdere, perché tutto ciò che possiedo sta dentro di me. Mi resta solo la strada, anche se non mi porterà molto lontano.
Ma ogni passo avrà la sua importanza”. (16/5/70)
“…Tutto ciò che la società mette al bando finisce qua.
È come una cloaca dove scolano i detriti finché un giorno saranno lanciati nell’ oceano della libertà.
Vivere nella cloaca è un’esperienza che non si può descrivere. Qui si mescolano i detriti, ciò che era marcio con ciò che era buono e che è stato buttato via lo stesso. Ogni cella è un piccolo serbatoio di questa grande diga che è la prigione… Portiamo nel corpo l’odore quasi insopportabile della mancanza di libertà.
Sopra le nostre teste esiste ancora la città che consuma, che mastica, che tritura, che digerisce, che espelle ciò che essa stessa produce. Attraverso questi tubi stretti e lugubri di cemento e di ferro scorrono i sogni, gli ideali, le speranze e una fede inalterabile che le acque cristalline e pure dell’oceano non siano lontane. Un giorno arriveremo là… Sotto la terra si assiste a un bello spettacolo. Sono i semi che germinano, è il filo d’acqua che acquista forza per rompere la pietra, è la vita che diviene resistente, sono le radici che si aprono come corolle di fiori in primavera… Qui tutto nasce, tutto sboccia, tutto si sviluppa e cresce verso il sole…
La vita nei sotterranei della storia ci insegna a vedere le cose in maniera differente… Fa svanire molti degli antichi valori e ci rende amici delle tenebre. Queste ricoprono qualcosa che deve essere scoperto. Impariamo a camminare a tastoni, a vedere nel buio, a conoscere le differenze degli odori. Sappiamo come si cammina sui buchi e sulle pozzanghere, affrontiamo l’oscurità illuminati solo dalla Luce dello Spirito. Ascoltiamo voci e non sappiamo da dove vengono, ma esse non risuonano sconnesse…
…Dopo qualche tempo ci familiarizziamo con i misteri del sotterraneo. Perdiamo la paura, la necessità di sicurezza e di consolazione, l’attaccamento alle apparenze invisibili delle tenebre. Perdiamo anche le certezze assolute, le verità dogmatiche, !’interesse per le apologie della perfezione, dell’ordine, della purezza…
È inutile, non siamo più i santi, i pacifici, i miti, i rassegnati, i buoni. Siamo i paria, i banditi, gli espulsi, i discriminati, gli emarginati, i dissenzienti, i dannati della terra.
Se ci concedono ancora un po’ di vita, è perché non dubitiamo mai più di questo. Ma in questo troviamo la salvezza. Troviamo l’identificazione con chi nasce in una grotta, ruba un tesoro e muore in croce… Questo è il nostro cammino. È una rotta di liberazione.
Fa molti giri, ma non torna indietro.
Indietreggiare è tradire…”. (18/12/70)
“…Nel carcere si capisce che è impossibile essere liberi per puro caso, e anche che molte volte siamo prigionieri di tante limitazioni inutili che ci lasciamo imporre dalla vita. Almeno qui la limitazione fisica completa – vivere per un tempo indeterminato tra quattro pareti – dissolve tutte le altre che abbiamo ereditato da un’educazione borghese piena di falsità.
Non c’è possibilità di barare. Il gioco è pulito e ciò che vale è la verità di ognuno. Le parole, le apparenze, le illusioni perdono il loro significato.
Ognuno di noi è ridotto alla sua condizione umana più significativa. L’uomo si vede come in uno specchio, senza veli e senza fantasie. Allora si aprono due strade: da una parte la fuga, l’ozio, la paura, la follia; dall’altra la rottura col passato e l’impegno col futuro, anche se ciò dovesse significare la morte…
…Non è più possibile continuare ad essere la stessa persona dopo aver passato tutto questo tempo nei sotterranei della storia. Per mancanza di luce i nostri occhi hanno imparato a vederci nell’ oscurità.
Abbiamo imparato a scorgere le cose dal di dentro, laddove esse si definiscono, si trovano e si esprimono.
Allora prendiamo coscienza che il nostro compito è terribile; e se oltretutto abbiamo fede, nulla può continuare come prima… Resta da sapere come…”. (31/1/71)
“…Qui le circostanze modificano persino le nostre scale di valori. Molte cose dentro di noi perdono la loro importanza e si introducono nuovi criteri.
In altre parole, c’è un cambiamento di classe sociale.
Tutta la nostra visione del mondo subisce una modificazione profonda. Dalla teoria alla pratica…
Chi non si adatta si dispera”. (31/1/71)

Dai sotterranei della storia nasce un diverso cammino di Fede

“…Quando sono arrivato qui, pieno di buoni propositi, ho pensato: devo portare il Vangelo a queste creature. Ho vissuto e vivo qui in carcere accanto a 200 prigionieri comuni, ladri, assassini, bruti, gente che temeremmo di incontrare per strada in pieno giorno.
Ma prima che io arrivassi, Dio già era qui. Puoi credermi, essi mi hanno rivelato il Cristo.
Prima che noi arrivassimo, Lui già era accanto a loro realizzando la redenzione della terra.

Restano crocefissi accanto a Gesù. Per colpa di chi? Per colpa nostra, perché abbiamo chiuso gli occhi davanti alla miseria umana, abbiamo sprangato le finestre davanti alle favelas, siamo passati alla larga dalle zone di prostituzione…
Convivendo con questi uomini ho imparato che ‘cattiva’ è la nostra prudenza che si sottrae, sono le nostre abitudini che non riflettono sul radicalismo del Vangelo, sono i nostri consigli pieni di buon senso che non convertono nessuno, è il nostro letargo mascherato di pazienza di fronte all’oppressione, alle disuguaglianze sociali, alla violenza istituzionalizzata…
Forse lo Spirito ci ha gettato nei sotterranei della storia affinché impariamo a vedere diversamente la storia” (31/12/70).

 

A cura di Roberto Fiorini


 

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