Editoriale
I pretioperai italiani, che nel post-concilio hanno posto non pochi interrogativi alla chiesa e alla società sullo snodo fede-politica, sul ‘ruolo’ del sacerdote, sulle strettoie del sacro a fronte della libertà evangelica, sull’autonomia della politica…, stanno progressivamente e, sembra, ineluttabilmente calando di numero. Certo anche perché abbiamo privilegiato la ricerca di autenticità – per quel poco che riuscivamo e riusciamo ad esprimere – sulla garanzia della continuità istituzionale, deprivata di ogni provocazione. Ciascuno di noi sa di poter e dover vivere una sola esistenza, di poter e dover scrivere una propria parola nell’immenso libro della storia.
“Arrivati al capolinea”? “Fine di un’illusione”? “Mesto tramonto di utopia sessantottina”? Quante parole cretine ed inutili, dette da altri su di noi. Noi, di noi stessi, vogliamo parlare. E non possiamo, francamente, che parlare di vita.
Si dice che Newton scrivesse a Richard Hooke: “Se possiamo vedere più lontano è perché stiamo sulle spalle dei giganti”. Come dire che il profeta è colui che sa leggere la storia a volo d’aquila, perché gli è successo di poter volare. Chi si lascia schiacciare dalla contingenza non può lungimirare, non sa situare l’oggi e il qui all’interno di una estensione e di un ritmo di vita che permettono di comprendere come tutto venga da oltre e vada oltre. Per “vedere” è necessario che la forte, responsabile compromissione nel presente si unisca inscindibilmente con l’ironia che relativizza ogni cosa, non per disprezzo dell’attualità, ma per apprezzamento di mete possibili non ancora raggiunte.
In realtà siamo figli e padri, figli di padri e madri senza nome, padri di figli sconosciuti e che mai, forse, conosceremo. E fratelli di altri fratelli. In un movimento non meccanicistico, in cui la libertà ci invita a cercare, aldilà degli smarrimenti, delle deviazioni, degli errori e dei traguardi raggiunti, contro le tentazioni alla chiusura e all’autocompiacimento, di dare un senso alla nostra e altrui esistenza, nella coscienza che esso spesso si ritrova inquilino del pensiero e dell’agire alternativo.
È dunque capitato a noi PO di vedere questo scorcio di storia – il declino del secondo millennio – stando “sulle spalle dei giganti”: la classe operaia con la sua organizzazione, la sua visione del mondo, la sua strategia, la sua sete di rinnovamento. Il tramonto del gigante – anche di questo siamo testimoni – ci costringe tuttavia a raccogliere l’eredità guardando in avanti. Certo: neanche questo tramonto deve ritenersi una fine.
A dire la verità è enorme il paesaggio passato sotto i nostri occhi, da vertigine: il crollo della classe operaia come soggetto storico – attenzione, non della condizione operaia! – la fine della cristianità (ma pochi dimostrano di essersene accorti), l’esaurirsi della modernità, la crisi profonda della politica e perfino della democrazia (oggi non è più possibile parlare di contrapposizione tra democrazia e totalitarismi); in qualche modo, l’affievolirsi del pensiero dell’Occidente.
Lo sguardo miope, dunque, parla di grandi e definitivi “capolinea”, come se la storia fosse l’accatastarsi di scatole chiuse. Ma la parzialità e l’insufficienza delle singole risposte rilanciano gli interrogativi e il bisogno di nuova ricerca, una sorta di soluzione a mosaico, nella quale ciascuno è chiamato a dare la sua disponibilità, a fare la propria parte.
“La propria parte, certo: che sopravvive alla crisi del soggetto storico, si ricolloca su di essa, riformula domande, si attesta su un altro terreno, va alla scoperta di nuove forme. In questo, se è buia la via della pratica trasformatrice, le strade della ricerca vanno ad illuminarsi di una strana luce, tutta da decifrare adesso per il paesaggio che illumina, come in una tela di Friedrich, attraversata da una sottile striscia di anima, per chi la possiede, e rimessa in gioco da una ritornante passione del pensiero, per chi ci crede”. (Mario Tronti, Con le spalle al futuro, Roma 1992, pag. XI). È l’invito a progettare il futuro non solo sul piano strettamente ‘politico’, ma anche al guardarsi attorno per riconoscere che da altri tale progetto è sognato e sperimentato. Altri: figli forse dello stesso padre, certo nostri fratelli / sorelle, compagni di strada.
Il materiale raccolto in questo numero della nostra rivista sintetizza il lavoro che i pretioperai veneti hanno sviluppato in questo anno. Ci siamo appunto guardati attorno e abbiamo riconosciuto frammenti della nostra identità nella ricerca, nelle speranze, nelle esperienze di altri. Ed è stato per noi motivo di gioia. Possiamo rincorrere una metafora?
Di tanto in tanto i potenti telescopi terrestri scoprono nel firmamento una supernova. Si tratta di un grande corpo celeste che, esplodendo violentemente, proietta parte della sua materia nel circostante spazio interstellare, creando nuovi astri splendenti di luce propria. La supernova non è una stella che muore, ma una stella che, liberando le sue energie, continua ad illuminare il firmamento attraverso mille soli e a sussistere ora in una pluralità di esseri.
In parte esito di una supernova, in parte supernova noi stessi, ci siamo sintonizzati e intendiamo sintonizzarci, senza pretese di primogenitura, con la lunghezza d’onda che ci permette di comunicare con i mondi a noi vicini nella sensibilità e nella ricerca, con i mondi da cui emana la nostra stessa luce. Da qui, mentre rimane inalterata la nostra attenzione e coinvolgimento nei confronti di chi elabora nuove sintesi e nuove strategie per la difesa delle categorie subalterne e delle soggettività negate, puntiamo al dialogo e al confronto soprattutto con chi affronta i grandi temi della fede purificata: con il pensiero femminile, che costringe il ‘genere’ a parlare da sé e per sé, senza pretese di ricomposizione, sia a livello politico che a livello religioso, liberando il divino da tutte le interpretazioni e da tutti i simboli maschili – e perciò stesso parziali – che si sono imposti nei secoli come la ‘definizione’ di Dio; con i monaci, che da lungo tempo continuano a porre radicali interrogativi sulle sommarie traduzioni pastorali della Parola, sul sacro e sull’ansia di ‘salvare gli altri’; con lo sforzo dei nostri amici parroci, che devono ogni giorno fare i conti con il tema della mediazione tra Dio e uomo, nella consapevolezza che in ogni caso l’incontro è tra due libertà; con i preti anziani e, spesso, abbandonati, con i frati minori conventuali-operai che, nella condizione operaia hanno visto il solo terreno di un rifarsi serio alle loro origini francescane; e con chi cerca di essere uomo libero per poter lanciare messaggi di libertà.
No, non ci sentiamo né stelle fisse, eterne, né sassi meteoriti che si consumano nell’impatto con l’atmosfera nel campo delle stelle cadenti, ma supernove che conflagrano, vivendo però in mille altre stelle e pianeti. Forse il frutto del nostro lavoro può apparire del tutto inadeguato alle nostre pretese e attese. Lo sappiamo, è solo un inizio.
Gianni Manziega
MATERIALI
I testi che seguono sono essenzialmente dei ‘materiali’, dato che i temi sono inesauribili e qualcuno (donne, per esempio) appena tentato. Come tante altre, l’esperienza dei PO è chiara, ma la riflessione ravvicinata su di essa, è confusa, anzi forse demandata ad altre generazioni. Lo stato di “materiali” con bibliografie, filmografie, registrano questo stato dell’esperienza che reagisce in tutte le direzioni.
Anche i ‘testi’ che seguiranno ‘prima’ e ‘dopo’ le varie sezioni, e nell’antologia finale) non sono riempimento o maquillage ma presa d’atto che i PO vivono in crocevia dove ci sono molte correnti d’aria… Per questo i ‘testi’ sono spesso profani o irreligiosi oppure, all’opposto, iperreligiosi.
Purtroppo i sacri recinti non ci sono più. Sia il ‘religioso tutto religioso’ separato nella sua trascendenza tutta sociologica, è pronto per essere profanato, sia l’irreligiosità si mostra piena di superstizioni, sia il ‘conventuale’ è pronto per il turismo religioso. Si può anche dire che il miglior strumento di questi ultimi cinquant’anni (Chiesa-mondo) anche e soprattutto nelle sue edizioni più recenti (vedi discorso del card. Martini l’8 dic. ‘95) si è rivelato una furberia. Una categoria, a partire da una sua autocelebrazione e auto pulizia chiama sé ‘chiesa’ e, con questo, de-celebra e dice ‘non pulito’ qualche altra cosa, che sarebbe il ‘mondo’. È il gesto del contadino frettoloso, ‘qui’ grano e ‘lì’, zizzania, o viceversa.
Questi ‘materiali’ risulteranno troppo politici a quelli tra noi che si ritengono ‘religiosi’ e troppo religiosi a quelli tra noi che si ritengono ‘politici’. Purtroppo per noi, dobbiamo invece aiutarci a vivere le contraddizioni per non trovar rifugio in qualche pezzo di realtà; e ad uscire dalle confusioni per non stare al riparo di nebbie rassicuranti. I crocevia pieni di vento, appunto, ma anche di nuove sfide, spazi, amici, orizzonti…
Buona lettura.
PRETIOPERAI…
SEGUENDO SIMONE, DA LONTANO
Un ordine religioso senza abito né segno distintivo, formato da uomini e donne (impegnati dal voto implicito, piuttosto che esplicito, di povertà, castità e obbedienza nei limiti compatibili con gli ordini ricevuti attraverso l’intermediario della coscienza), a cui fosse impartita la più alta cultura estetica, filosofica, teologica, e che in seguito discendessero per degli anni, astenendosi da ogni pratica religiosa appena le circostanze lo richiedano, nelle prigioni come criminali, nelle officine come operai, nei campi come contadini, e così via.
Un ordine di uomini e di donne che vadano come prigionieri nelle prigioni, ecc.
(Simone Weil, Quaderni)
AMARE E SERVIRE UNA CAUSA:
COSE DIVERSE
Le disposizioni d’animo che inclinano ad amare un certo fine sono diverse dalle disposizioni che permettono di impiegare i mezzi necessari per realizzarlo; e molto spesso le une sono del tutto incompatibili con le altre. Così, per natura, quelli che sono o sono diventati capaci di servire una causa non sono o non sono più uguali a quelli che sono capaci di amarla. Di conseguenza, quelli che la servono servono sotto questo nome qualcosa d’altro. Così non è il bene che si serve. Né lo si compie.
Se non si possiede la capacità soprannaturale delle virtù incompatibili, può ben accadere, votandosi ad una causa, e mettendosi in grado di maneggiare i mezzi corrispondenti, che si divenga entro un certo tempo incapaci di amare questa causa. Per esempio, un comunista e la giustizia.
Coloro che servono una causa non sono quelli che amano questa causa. Sono quelli che amano la vita che bisogna condurre per servirla. Eccetto per i più puri, che sono rari. Perché l’idea di una causa non fornisce l’energia necessaria per servirla.
(Simone Weil, Quaderni, vol. III)
CONVERTIRE LE PERSONE? MESTIERE RIDICOLO
Non fossi prete, non fossi cristiano, sarei più libero e apparirei disinteressato. Ora, io sono prete e cristiano e non ho mai creduto ci fosse più ridicolo mestiere, più indelicata e inumana e anticristiana faccenda che fare il convertitore. Sono cose che Iddio a noi suoi ministri non ci ha demandato.
Noi siamo funzionari, signorine del telefono, voce del padrone, non altro. Quelle faccende, io l’ho visto bene, vivendo e leggendo, se l’è sbrigate sempre Lui.
(Mons. De Luca, dal carteggio con Prezzolini in Ricordi e testimonianze, Morcelliana 1963)
BODHIDHARMA E L’IMPERATORE WU DI LIANG
L’imperatore Wu di Liang chiese a Dharma:
«Fin dall’inizio del mio regno ho costruito molti templi, ho copiato molti libri sacri, ho mantenuto molti monaci e molte monache: quale credi sia il mio merito?».
«Nessun merito, sire!» rispose bruscamente Dharma.
«Perché?» chiese sbalordito l’imperatore.
«Tutti questi sono atti inferiori», rispose Dharma, «che farebbero rinascere il loro autore nei cieli o su questa terra. Mostrano ancora le tracce della mondanità, sono come ombre che seguono gli oggetti. Benché appaiano come esistenti realmente, non sono altro che mere non-entità. Il vero atto meritorio è pieno di pura saggezza ed è perfetto e misterioso; e la sua vera natura è al di fuori della portata dell’intelligenza umana. Non deve essere ricercato mediante qualche opera terrena».
Allora l’imperatore chiese di nuovo a Bodhidharma:
«Qual è il primo principio della sacra dottrina?».
«L’immenso vuoto, e in esso non vi è nulla che si possa chiamare sacro, sire!» rispose Dharma.
«Allora, chi è che ora mi sta di fronte?».
«Non lo so, sire!».
(D. T. Suzuki, Saggi sul Buddhismo zen,
vol. 3°, Ed. Mediterranee)