Editoriali


 

“La sensibilità dell’uomo per le piccole cose e l’insensibilità per le grandi
sono segno di uno strano pervertimento”
(Pascal)

 

«Noi rivolgiamo un appello come esseri umani ad esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto». Con queste parole Einstein chiude il Messaggio all’umanità del gennaio del 1955. Chi lo ha gridato quasi mezzo secolo fa era ben consapevole delle tremende capacità distruttive che scienza e tecnologia hanno reso possibile ed anche della immaturità ed ottusità di cui troppo spesso hanno dato prova coloro che hanno il potere di decidere i destini dei popoli.
Ma quanto vale un appello? Vi è mai qualcosa di più debole? Un appello non raccolto è destinato a rimanere flebile sussurro che cade nel vuoto, che finisce nel nulla. Eppure esso racchiude in sé un imperativo che non è possibile ridurre a silenzio, perché sempre di nuovo rinasce e trova menti e cuori che gli lasciano spazio e lo fanno continuare a vivere.
Perfino le religioni sono giudicate da questo imperativo: nessuna di esse oggi può pretendere una qualche giustificazione quando si mostra disumana, quando nel nome di Dio si permette di calpestare uomini e donne. L’etica che deve informare ogni determinazione, è che gli esseri umani devono essere umani, o meglio, diventare umani. Non è un optional. È la condizione perché la vita umana possa continuare sulla terra. La cosa nuova che in questo secolo è stata scoperta, e che tocca in eredità al nuovo millennio, è che l’umanità tutta appartiene all’area della contingenza: c’è, ma potrebbe non più esserci. E non per un destino voluto dagli dei, ma perché la disumanità potrebbe prendere il sopravvento rompendo tutti i limiti ed argini.
Una immagine rende chiara la realtà possibile nella quale è avvolta l’umanità tutta: «Una libellula rossa è passata davanti a me. Mi sono alzata con il cappello in mano per prenderla quando…». Ernesto Balducci continua «così scrisse un’allieva del collegio Sanyo Fukuhara Eiji, sopravvissuta all’eccidio di Hiroshima. La mano infantile tesa verso una libellula nell’attimo stesso dell’apocalisse è come un simbolo di un amore fragile dell’uomo per tutto ciò che attorno a lui narra il poema della vita». Migliaia di specie animali e vegetali della terra sono per sempre state condannate all’estinzione. Il mondo umano appartiene ormai a questa possibilità e di questa porta l’angoscia.
In questi ultimi mesi India e Pakistan si sono fronteggiate a colpi sperimentali di esplosioni nucleari. La solita esibizione di forza che va conquistando, con la dimensione nuova ed impensabile che il nucleare porta con sé, altre nazioni. Il club dei paesi possessori di queste bombe, e di altri strumenti di morte collettiva, si allarga e, c’è da giurare, è destinato ad ampliarsi. Un tempo la lontananza geografica difendeva, ma oggi non difende più: quello che accade nel più lontano paese può essere l’epicentro dal quale si scatenano onde sismiche che arrivano a sconvolgere la nostra “sicurezza”. Non esiste più un’isola felice nella quale rifugiarsi. È possibile solo la fuga nei mondi virtuali offerti dall’etere, da certi usi della religione, dall’atomizzazione quasi totale del singolo che cerca nel proprio “particulare”, personale e professionale, le finalità del vivere e dell’agire…
Già nel 1929 Freud scriveva parole che dipingono perfettamente la fase della storia umana che si va imponendo irreversibilmente: «Gli uomini hanno adesso talmente esteso il loro potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde una buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi potrà prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito? Se in questi decenni a Thanatos, l’altra potenza celeste, è stato concesso di servirsi solo delle cosiddette armi “convenzionali”, il suo potere di morte può contare su altri sistemi globali e “puliti” per dar corpo alla disumanità.

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Ogni giorno sotto i nostri occhi scorre la successione delle “piazze affari” che, dall’est all’ovest, segue il corso naturale dell’illuminazione solare: Tokio, Hong-Kong, Singapore, Mosca, le capitali europee, per arrivare infine al grande tempio di Wall Street, la borsa di New York. Così tutti i giorni, salvo week-end e feste comandate. I diagrammi, le cifre fredde con segno positivo o negativo, i gesti convulsi delle mani degli agenti di cambio rappresentano il rituale dell’andirivieni di capitali colossali che transitano in tempo reale da un capo all’altro del mondo, alla ricerca delle migliori opportunità. L’unica regola è la libertà di ottenere il massimo risultato correndo rischi minimi. E il risultato, quello che conta davvero, consiste nell’incrementare il più possibile e a qualunque prezzo i profitti che derivano dagli investimenti produttivi e finanziari. «Wall Street festeggia l’aumento della disoccupazione»: con questo titolo il più importante giornale brasiliano esprimeva la mentalità che domina il mercato. I costi umani, le disperazioni e la miseria di popoli interi, non solo non vengono tenuti in conto, ma possono diventare motivo per stappare bottiglie di champagne. Da questo punto di vista l’esclusione sociale di grandi parti di umanità, in tutte le forme, la condanna alla disoccupazione e ad una precarietà sempre più rilevante, risultano come fatti “naturali”: realtà inevitabili che conseguono al processo di globalizzazione e di nuova rivoluzione tecnologica. Sono “sacrifici” necessari per incrementare efficienza e produttività. Se in passato la disoccupazione era vista come un male economico e sociale da combattere, ora non più, anzi essa diventa un bene economico nella misura in cui agevola il mercato ad essere effettivamente “libero”, senza alcun vincolo, libero di realizzare “naturalmente” la crescita economica progressiva. Da questa e solo da questa può venire la “salvezza”.
È stato fatto notare che «è sempre più comune vedere politici, economisti ed altri studiosi di scienze sociali usare espressioni come “dogma neoliberale”, “ortodossia”, “fede nel mercato”, “teologia del laissez-faire ”, “sacrifici necessari”, e altre espressioni derivate dalla teologia nel presentare i loro argomenti e le loro analisi». A titolo di esempio l’autore riporta una tra le innumerevoli citazioni che si potrebbero produrre. Ecco alcune affermazioni del libro di Paul Ormerod, La morte dell’economia : «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale predicano al Terzo Mondo la salvezza per mezzo del mercato […]. È apparsa una ortodossia intellettuale […]. L’ intensità della fede mostrata dalla maggioranza degli economisti […]. Da molti anni vige nella teoria economica l’ atto di fede fondamentale che il prezzo di una merce — sia essa banana o gente — è determinato dai relativi livelli di offerta e domanda».
L’atto di fede si presta verso qualcuno o qualcosa che ha dei lati oscuri, non conoscibili. Anche il mercato non è interamente comprensibile nella sua complessità e per questo non si può dirigere. È quanto afferma Hayek, esponente di punta del neoliberalismo, premio Nobel per l’economia nel 1974. In un saggio dal titolo significativo La presunzione del sapere egli afferma: «Agire secondo la convinzione che possediamo la conoscenza e il potere che ci abilitano a pianificare i processi della società interamente secondo i nostri gusti, conoscenza che di fatto non abbiamo, probabilmente ci causerà molto male». L’intervento di una autorità su gruppi sociali o persone in vista del perseguimento del bene sociale impedisce «il funzionamento di quelle forze di aggiustamento spontaneo dalle quali, senza capirle, l’uomo è di fatto così ampiamente assistito nella ricerca dei suoi obiettivi». In sostanza impedisce il libero funzionamento del mercato. Occorre pertanto «resistere alla tentazione di fare il bene» perché questo sarebbe causa di male». Ci troviamo di fronte a quello che i teologi della liberazione chiamano idolatria del mercato: la fiducia nel mercato ha preso il posto della fiducia in Dio. È un dogma di fede che, in questa epoca di globalizzazione dell’economia, pretende un assenso generale. Anche l’etica viene sottoposta ad una sostanziale dipendenza e la solidarietà può essere concepita come un elemento di contorno, residuale rispetto all’asse del libero mercato. In un intervento di Michel Camdessus, direttore generale del FMI, al congresso nazionale dei proprietari e dirigenti cristiani di aziende, tenuto a Lilla nel 1992, ebbe a dire: «Voi siete uomini di mercato e di impresa, in cerca di efficienza per la solidarietà. Il Fondo Monetario Internazionale è stato creato per mettere la solidarietà internazionale al servizio dei paesi in crisi che si sforzano di rendere più efficaci le loro economie — la ricerca di efficienza nel mercato e attraverso esso, voi sapete, come me, quanto siano in fondo collegate efficacia e solidarietà: siamo sullo stesso terreno». Dinanzi ad una tale impostazione che pretende, in maniera totalitaria, di rappresentare la strada esclusiva che in ogni parte del mondo deve essere percorsa, non è eccessivo il seguente giudizio di valore: «Il fondamentalismo non è solo un problema relazionato ai gruppi religiosi. Il fondamentalismo più importante e perverso oggi è quello economico… Le differenze sociali, culturali e storiche non sono prese in considerazione quando si impone il ricettario ortodosso del FMI o della Banca Mondiale ai paesi non sviluppati. I disastri sociali non scalfiscono la certezza della validità universale della sua ortodossia». Il prezzo per il raggiungimento del massimo bene economico è l’esercizio sistematico del cinismo, cioè il non voler prendere in considerazione i prezzi umani che vengono fatti pagare, poiché il criterio ultimo per valutare le questioni sociali è l’efficienza misurata nella concorrenza del mercato.
Riprendendo l’appello di Einstein «ricordate la vostra umanità», non si può, non si deve delegare a nessuno la difesa e la promozione del proprio essere umani, tanto meno lo si può affidare alla fede nella “mano invisibile” e provvidenziale del mercato perché questa mano non esiste.

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L’esportazione in termini fondamentalistici di quest’unica ricetta, ignorando le specificità e le storie particolari dei singoli paesi, sta provocando una accelerazione della crisi in grandi aree del mondo le cui conseguenze nessuno è in grado di valutare. La fibrillazione continua delle borse nelle grandi piazze affari è un indicatore dell’incertezza che regna. Segnaliamo, a titolo esemplificativo, due situazioni di dimensione continentale.
La Russia sta vivendo una vera catastrofe globale di tutta la sua economia che già era in difficoltà al tempo di Gorbaciov. Quello che, come dicevano, doveva essere l’inizio della fase di benessere, dopo l’implosione del socialismo reale, ha avviato un vero e proprio annientamento della economia russa. Il Fondo Monetario Internazionale ha imposto il taglio delle tasse sulla esportazione per gas e petrolio annullando così la possibilità di entrate, per lo stato, dalle uniche industrie attive del paese. Lo sforzo di far nascere il capitalismo, un capitalismo utilizzabile all’occidente, in quelle condizioni storiche, economiche, culturali e politiche applicando la filosofia del mercato più selvaggio, è di fatto abortito in una sua caricatura. In tali condizioni il mercato non ha accelerato lo sviluppo economico, al contrario ha diminuito la produzione industriale ed agricola. In questi ultimi anni si è infatti registrato il calo di quasi il 50% del Prodotto Interno Lordo (PIL) e gli investimenti di capitale si sono ridotti dell’80%. Il mercato non ha creato una classe diffusa di proprietari e di ceto medio, al contrario una minoranza ricca e la grande maggioranza praticamente alla fame. Gli unici provvedimenti di riforma sono stati a favore di questa piccola parte di popolazione e del mercato internazionale. Le conseguenze sociali sono drammatiche e potenzialmente esplosive: è difficile prevedere quello che potrà accadere anche perché appare improbabile una maggiore saggezza da parte occidentale, mentre rimane da vedere se le dirigenze nazionali daranno prova di minore insipienza rispetto al gruppo dirigente che ha governato in questi anni.
L’altra situazione a cui si vuole accennare è quella asiatica. In proposito si riportano contenuti e stralci del documento finale del Forum, svolto a Seul, intitolato «La crisi asiatica e il ruolo della Chiesa: il FMI, i Diritti Umani e la Chiesa».
«Obiettivo dell’incontro era l’analisi della crisi economica asiatica, iniziata con il crollo del thai baht (la moneta thailandese) nel luglio del ’97, rapidamente estesasi agli altri Paesi dell’Est e del Sud-Est asiatico che ha provocato fallimenti a catena, disoccupazione, impoverimento… Il riconoscimento del contributo dei fattori locali all’acuirsi della crisi, non ha impedito di denunciare la deregulation finanziaria e il ruolo del FMI, della Banca Mondiale, e dei governi del G7, che hanno insistentemente spinto le autorità finanziarie asiatiche alla liberalizzazione dei loro conti capitale e all’apertura del loro settore finanziario alla partecipazione straniera. Ampio spazio è stato dato allo studio dell’impatto della crisi e di quello della ristrutturazione guidata dal FMI sui settori particolarmente vulnerabili della società: i rurali (indigeni, contadini, pescatori ecc.), i lavoratori informali (lavoratori a domicilio, lavoratori con contratto a tempo determinato, venditori ambulanti, lavoratori autonomi ecc. e l’ambiente».
Dopo aver affermato che la globalizzazione è una sfida non solo all’etica, ma anche alla teologia, il documento finale propone un’agenda per un’azione solidale:

Di fronte alla crisi economica asiatica emerge il bisogno di una ristrutturazione fondamentale delle Istituzioni Finanziarie Internazionali…
– Decidiamo di sostenere ed impegnarci in campagne contro l’iniziativa del FMI che vuole emendare i suoi statuti per promuovere la totale liberalizzazione dei capitali. È un’azione irresponsabile da parte del FMI.
– Decidiamo di sostenere ed impegnarci in campagne contro altri accordi esistenti, siano essi multilaterali, regionali o bilaterali (… es. MIA, NAFTA), che hanno come obiettivo l’ulteriore liberalizzazione dei flussi di capitale internazionale senza regole adeguate né obblighi per gli investitori. I controlli sulle transazioni di capitale devono essere mantenuti.
– Decidiamo di sostenere la regola che i prestatori e gli investitori internazionali devono accettare la loro parte di costi. Quando avviene una crisi e vengono meno le garanzie, nel recuperare le perdite di prestiti internazionali insolvibili, i governi non dovrebbero garantire il pagamento. Questo socializza il debito e impone un fardello ingiusto a coloro che pagano le tasse, particolarmente i poveri, mentre protegge gli interessi di banche straniere irresponsabili e dei loro debitori.
– Decidiamo di sostenere le misure che sostengono l’annullamento del debito dei Paesi a basso reddito. I programmi per la salute, per l’educazione ed altri bisogni di base di alcuni dei popoli più poveri del mondo non vengono più alimentati perché i governi possano pagare gli interessi su debiti che non potranno mai essere estinti…
– Decidiamo di sostenere gli sforzi per controllare i trasferimenti speculativi di capitale a breve termine mediante misure come quelle della proposta della Tobin Tax, una tassa sui trasferimenti finanziari internazionali…».

A questo fa seguito un’agenda per il rinnovamento della Chiesa considerando «il forte dolore e la sofferenza vissuti dalle vittime della prassi economica che ha causato la crisi asiatica».

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Questo giro di orizzonti, che potrebbe continuare andando a visitare situazioni ancora più crudeli, come pure tentativi di reazione alle stesse, non è un diversivo rispetto a quanto ciascuno di noi vive nel piccolo spazio che gli tocca di occupare. Alzare gli occhi da sé e guardare lontano può servire a vedere quello che ci accade da vicino, quello che succede a noi stessi. Avviene, infatti, di essere sempre più schiacciati nel quotidiano, confusi dalla ridda di immagini e messaggi che bombardano, di essere “passivizzati” nel proprio pensare ed agire.
«Scusate se sbaglio — scrive Ingrao — ma non sta succedendo, a noi, non laggiù, qualcosa di terrificante?». Che cosa ci sarebbe di terrificante?
Rossanda si chiede «perché i fatti dell’umanità non sono più nostri? Siamo diventati identici ai poteri che avevamo combattuto?». Riprendendo un saggio di Luisa Muraro, intitolato Vita passiva, scrive: «Riflettendo il moltiplicarsi di private efferatezze che vengono commesse in presenza di gente che non muove un dito — passanti, vicini — mentre potrebbe frenare l’aggressore e soccorrere la vittima, Muraro si chiede se sia segno di un generale incrudelimento, se davvero chi vede e non si muove si riflette nella ferocia che esplode sotto i suoi occhi, o se non siano segno estremo di una estrema spossessione di sé. Di quel precipitare nella passività che sembra sempre più proprio della folla seriale, sia nelle poche felicità, consumate per interposto idolo, sia nelle infelicità, subíte per interposto agente. Di fronte al pericolo si è scordato il riflesso dell’azione, ci si immobilizza, se mai si tende a coprirsi, scansarsi… È indifferenza? È un ritrarsi esperto di sconfitte — tanto che posso fare, non posso far niente — quello che ci ha preso oggi».
E più avanti continua: «L’assordante messaggio di fine secolo è: non potete far niente! Inutile o prepotente proporre. Inutile e vetero elaborare invece che percepire… Ci siamo delegati al comando delle “leggi dell’economia” che non sono le peggiori, guarda che è successo a tentar di farne a meno… Come abbiamo permesso questo spossessamento, noi che restiamo orgogliosamente muniti di una coscienza infelice?».
È difficile immaginare quello che si potrebbe fare a livello globale per rendere la vita più umana, per ridurre i livelli di disumanità presenti nel mondo. Però è certo che se mai questa possibilità sussiste, essa è correlata con la pratica quotidiana di una umanità, fatta di attenzione al volto ed alla vita degli altri, di compassione non paternalistica per chi è schiacciato dalla vita, di condivisione attiva con quanti stanno… “sotto”, costretti a subire l’oppressione nelle molteplici forme; fatta di interrogazione sul senso delle cose e dell’organizzazione delle strutture che avvolgono e condizionano la vita degli umani, nella ricerca di un pensare politico ed un agire conseguente che si oppongano ad una loro riduzione in termini di mera strumentalità e convenienza.
Se è vero che il messaggio di fine millennio è “non potere far niente”, con l’induzione conseguente di uno stato di passività e di spossessamento del “riflesso dell’azione”, è nel quotidiano che può e deve avvenire il rovesciamento di una umanità che non accetta di assistere al tramonto della propria responsabilità di vivere, di amare la vita degli altri esseri umani e di lavorare perché la terra possa ancora essere la casa ospitale anche per le generazioni future. È nel quotidiano che pensiero e azione diventano effettivi, nel microcosmo delle nostre relazioni umane e nei lavori che compiamo, nelle produzioni culturali di cui possiamo essere soggetti, in una sanità della vita di cui dobbiamo essere portatori.
Quest’estate facevano il giro del mondo le immagini delle popolazioni cinesi che di fronte al caos portato dallo sfondamento degli argini dei grandi fiumi difendevano i metri di terra asciutta con tutti i mezzi a loro disposizione. Una muraglia umana compatta di fronte alla violenza delle acque. Non può essere inferiore l’energia e la passione da impiegare perché i fatti dell’umanità siano i nostri, a partire dagli incontri quotidiani. È l’unica via per non perdere la memoria di essere umani.
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In questo quaderno sono raccolti una prima parte degli interventi che ci siamo scambiati a Viareggio, all’incontro nazionale dei pretioperai. Ricordiamo il tema che ci ha uniti: «chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre per tutta la terra». Le nostre piccole zolle raccontano il senso e il lavoro delle nostre vite. Così pure la mini antologia degli scritti di don Beppe che nel gennaio scorso ha raggiunto don Sirio.

Roberto Fiorini


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