Editoriale
Svelare il tempo significa alzare il velo su ciò che esiste ed avviene davvero. Questa operazione per essere attuata esige un esercizio insonne dell’attenzione. Come un iceberg, gran parte della realtà vera rimane sommersa. Anche quando qualche suo brandello viene a galla, basta poco perché di nuovo scompaia coperta da mille altre cose. Non si tratta solo della polvere del tempo che inesorabilmente scende ad oscurare; vi è anche, e soprattutto, la polvere sollevata (fino anche a diventare un polverone) che arriva a nascondere e a far ricadere tutto nella irrilevanza. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti.
L’operazione dello “svelare” viene paralizzata in radice quando l’animo e la mente sono invasi dall’ indifferenza . Il movimento della ricerca, che è quello che tiene viva l’intelligenza, senza spinta alcuna né movente, si arena nei piccoli circuiti ripetitivi: l’indifferenza è una forma di malattia che dà volto alla disperazione, divenendone la maschera, alla quale si è arrivati dopo esservi, spesso, stati condotti. L’indifferenza è il contrario di I care – me ne importa – per riprendere una espressione cara a don Milani, scritta sui muri della sua minuscola scuola. È anche quella che ho visto a Viareggio tre anni fa al funerale di don Beppe. Decine di manifesti e locandine riportavano l’espressione corale dei ragazzi della cooperativa: “indifferenti mai!”
L’altro blocco può derivare dall’ astenersi , cioè dall’interdirsi dal prendere posizione. Dato che nessuna posizione può essere assolutamente pura, ci si rifugia nella neutralità: una collocazione che sembra godere di una certa pulizia, se non di una aristocrazia mentale o addirittura spirituale. La scelta dell’astenersi dall’entrare nelle pieghe della vita, dall’incontrare e guardare volti umani alle prese con il mestiere di vivere, segnati da durezze e ferite indotte dall’organizzazione economica e sociale ed anche dal tempo vissuto, è una rinuncia alla fatica del giudizio sulle cose ed alla assunzione di responsabilità.
Il fenomeno più rilevante e diffuso, tuttavia, è la fuga nel sogno, nell’ illusione. Esso trova un terreno fertile nella difficoltà a reggere la fatica del contatto con la concreta realtà quotidiana, nella impossibilità a convivere con il vuoto che si sperimenta quando il presente rimane tale, senza vie di fuga nel passato o nel futuro, quando si affaccia alla coscienza la domanda sul senso delle cose. L’organizzazione delle illusioni, che oggi può contare su un apparato tecnologico di una potenza inaudita, funziona un po’ come il virus dell’HIV, responsabile dell’AIDS, che, penetrando all’interno delle difese immunitarie, rende l’organismo praticamente disarmato. Così è della fabbrica delle illusioni, che lancia le sue teste di ponte in quel vuoto tanto temuto, con la promessa di colmarlo. Anche la politica, sempre più ancella dei poteri economici forti, che nella storia si è fatta ampiamente conoscere anche come arte di sedurre le folle occupando lo spazio della immaginazione, oggi dispone di un sofisticato strumentario, in grado di falsificare totalmente la realtà di quanto avviene, sostituendolo con un prodotto confezionato ad hoc .
“La nostra vita reale è per più di tre quarti composta di immaginazione e finzione… Si tratta sempre di un rapporto col tempo. Perdere l’illusione del possesso del tempo. Incarnarsi. L’uomo deve compiere l’atto di incarnarsi, perché è disincarnato dalla immaginazione” (S. Weil, L’ombra e la grazia, pp. 65-66).
La stessa vita religiosa non sfugge alla possibilità di essere costruita e vissuta sull’immaginazione. Quando essa sottrae alla vita ed alla sua materialità, disincarna l’essere umano, consegnandolo ad un mondo che si propone più elevato perché condanna alla irrilevanza dimensioni realissime del vivere, pretendendo per sé la centralità assoluta.
La tragedia è che “l’illusione, quando se ne è vittima, non è sentita come una illusione, ma come una realtà” (ibidem, p. 82).
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Nell’assemblea ecumenica delle chiese cristiane europee tenuta a Graz nel giugno del ’97 la pastora E. Parmentier diceva nella omelia inaugurale: “L’Europa è incinta. Europa non sa come mai le accada una cosa del genere. Ci voleva pure questo, alla sua età! Aspetta dei gemelli. I figli già si scontrano nel suo grembo. Ha dato loro un nome: si chiamano ‘paura’ e ‘speranza’. La paura e la speranza si battono per stabilire chi dei due sarà superiore all’altro” (Atti, p. 304).
Sembra che la paura sia molto più robusta della speranza. E il problema non riguarda solo l’Europa.
Z. Bauman, nel suo libro “La solitudine del cittadino globale” (Feltrinelli, 2000) individua una parola quale chiave di lettura di un sentire generalizzato che invade con caratteristiche particolari la società occidentale. Si tratta del termine tedesco “Unsicherheit” che designa un “complesso di esperienze” definite nella lingua inglese con “incertainty” (incertezza), “insecurity” (insicurezza esistenziale), e “insafety” (assenza di garanzie di sicurezza per la propria persona). Sono tre diversi aspetti che si collegano all’interno degli individui.
Il risultato di questa condizione vissuta è che “le persone che si sentono insicure, che diffidano di ciò che il futuro potrebbe riservare loro e che temono per la propria sicurezza personale, non sono veramente libere di assumersi i rischi che l’azione collettiva comporta. Non trovano il coraggio di osare né il tempo di immaginare modi alternativi di vivere insieme. Sono troppo assorbite da incombenze che non possono condividere per pensare (e tanto meno per dedicare le loro energie) a quei compiti che possono essere svolti solo in comune” (p. 13).
La prima accentuazione riguarda la situazione di incertezza, diffusa nelle popolazioni, determinata dall’estendersi di uno stato di precarietà. Il neoliberalismo che sta pervadendo il mondo ha un peso decisivo nella diffusione della condizione di assenza di garanzie. In un articolo pubblicato nel maggio 1998 sull’ “International Herald Tribune”, Friedman afferma che sono necessari cambiamenti strutturali perché la moneta europea possa decollare: “l’elemento che i politici devono ancora aggiungere è la chiave per rendere più semplici l’assunzione e il licenziamento, ridurre la spesa pubblica per le pensioni e altri benefici concessi dallo stato sociale, e diminuire gli elevati contributi previdenziali e gli oneri sociali che gravano sui datori di lavoro dell’Europa continentale…” ( cit. in Bauman, p. 32).
Queste ricette, universalmente distribuite in tutto il mondo e metodicamente promosse o imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) – il nostro orecchio si è ormai abituato a sentirle ritualmente annunciare dai vari ripetitori italiani – inducono necessariamente un clima di incertezza che tocca individui e collettività. Questo è il costo che deve essere pagato perché possa sempre più consolidarsi l’auspicio di M. Camdessus, Direttore Generale del FMI, ovvero la “sistematica liberalizzazione dei movimenti del capitale” che “deve diventare la nuova missione del FMI” (intervista a Le Monde, cit. in ibidem, p. 33).
Questa “missione”, per realizzarsi, deve procedere alla sistematica demolizione delle strutture collettive che in qualche modo contrastano la logica del dominio assoluto del mercato, “il solo orizzonte cognitivo del mondo occidentale!” (Del Lago, “Esistenza e incolumità. Bauman e la fatalità del capitalismo”. Postfazione in Bauman, p. 214).
“La vera novità è… la sollecitazione costante ad abbattere le difese costruite con tanta cura, ad abolire le istituzioni destinate a limitare il grado di incertezza e la portata del danno che l’incertezza dilagante ha arrecato, e a impedire o neutralizzare lo sforzo di elaborare nuove soluzioni comuni tese a consentire il controllo dell’incertezza” (Bauman, p. 35).
Si può ben capire che la solidarietà diventa la vittima sacrificale della teoria e pratica neoliberali. Essa trova posto nella rituale enfasi della retorica ed ottiene spazi di agibilità riconosciuti, però confinati, nelle iniziative a carattere privato, religioso, assistenziale e di volontariato. Il faro che fa da guida alle dinamiche economiche e sociali è lo slogan lanciato dalla Thatcher: “Non esiste una cosa come la società”. Ha fatto scuola ed è diventato pensiero diffuso coerente al processo in atto che porta all’atomizzazione dei lavoratori e delle persone.
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La situazione descritta comporta delle conseguenze pesantissime sia a livello di identità dei singoli, sia nell’ambito della vita politica.
I singoli sono costretti ad un continuo inseguimento alla ricerca di una sicurezza e stabilità, delle quali non possono essere certi; in antagonismo con altri concorrenti, perché qualunque posizione acquisita può essere occupata da un nuovo inquilino. “L’individuo subisce la sfida di una serie sempre più varia di richieste ‘comportamentali’ dato che ‘la composizione del posto di lavoro è in continuo mutamento’ ”. Mentre sullo sfondo incombe la possibilità, anche per chi al momento è piazzato, di finire nella lista degli esuberi.
A questo occorre aggiungere il ruolo centrale che il desiderio ha acquisito nella definizione del soggetto in un contesto che può essere considerato come “la fabbrica dei nuovi desideri” nel quale i cittadini sono trasformati in consumatori.
Per dirla in breve: “Il punto è che questa ‘nuova’ figura di lavoratore/consumatore flessibile (l’esposizione alle incertezze della professione è complementare all’incessante stimolazione dei consumi) è strutturalmente in una condizione di ansia” (Del Lago, cit., p.221).
Anche a livello di vita politica emerge uno svuotamento di senso, correlato al processo di globalizzazione: “La struttura di base dell’economia globale è sempre più indipendente dalla struttura del mondo e ne viola sempre più i confini” (Hobsbawn). Le parole d’ordine della flessibilità, competitività, efficienza, sono trasversali agli schieramenti politici nazionali, mentre l’assunto più o meno esplicitato è che non ci si può più permettere di garantire reti di protezione collettive. Si profila in termini marcati la contrapposizione “tra società dei garantiti e società degli estranei”.
La dimensione politica, sempre più ridotta alle logiche ed ai riti elettorali, appare inerme di fronte alla globalizzazione ed ai suoi effetti sulla vita concreta dei singoli e dei popoli.
“L’idea centrale di Bauman è l’assoluta impotenza dell’attore di fronte ai primi due (cioè l’incertezza e l’insicurezza esitenziale ) non solo per il loro carattere globale e per il consenso generalizzato che li circonda, ma anche per la scomparsa di qualunque dimensione pubblica, e quindi politica, che li possa affrontare. È chiaro che nessuno di noi ha la libertà di scelta e di intervento davanti ai processi dell’economia globale, mentre d’altra parte non c’è forza politica consistente che si ponga, almeno nelle nostre società, l’obiettivo di contrastare una tendenza che viene proclamata come destino” (Del Lago, cit., p.220).
La pratica impotenza a sconfiggere le minacce alla sicurezza della propria condizione sociale o alla certezza delle loro prospettive future trova una via più vicina e percorribile per sbloccarsi nella ricerca di sicurezza individuale quale campo nel quale si concentra la tensione determinata dallo stato di paura. Peraltro va detto che “esiste una disposizione delle élites politiche a spostare e localizzare le cause di ansia più profonde – cioè l’esperienza dell’insicurezza personale e dell’incertezza – nella preoccupazione generale per le minacce alla sicurezza personale” (Bauman, p. 57). La preoccupazione per la sicurezza della propria persona e dei propri beni, diventa il collante per una “riscoperta dell’autodifesa comunitaria” con la creazione della figura del nemico identificato in coloro che rivestono i caratteri dell’estraneità. La costruzione dello straniero come nemico e la protezione del “territorio” diventano motivi unificanti di movimenti, apparsi alla ribalta in quest’ultimo decennio in Italia ed in Europa, che esprimono la reazione “culturale” degli individui alle dinamiche della globalizzazione.
Un’indagine condotta dalla televisione pubblica nel 1997, evidenziava che la preoccupazione principale dei danesi era la presenza degli stranieri più che la crescente disoccupazione, il degrado ambientale o qualsiasi altro problema.
“La ventiduenne Suzanne Lazare, arrivata a Copenhagen da Trinidad dodici anni prima, rispondendo ad una intervista dell’International Herald Tribune disse al corrispondente che stava meditando di lasciare la Danimarca. ‘Il loro atteggiamento è cambiato’ – disse dei suoi ospiti – ‘Ora i danesi ci guardano dall’alto in basso. La gente sta diventando molto fredda’. Quindi aggiunse un commento pungente e sagace: ‘È curioso, anche nei confronti di se stessi!’ ”. Questa osservazione di Suzanne diventa lo spunto per dare il titolo ad un capitolo del libro citato: “il raffreddamento del pianeta degli uomini” (Bauman, cit., p.59). La freddezza non riguarda solo gli stranieri che sono tra noi, ma anche le relazioni con i ‘vicini’, con i ‘simili’. La temperatura si è abbassata anche verso noi stessi!
In un recente incontro tenuto a Mantova sul tema: “Il messaggio della Bibbia all’occidente” Armido Rizzi esordiva dicendo: “ Possiamo dire che siamo in una società senza cuore . Per senza cuore si intende: “senza una radicale apertura verso l’altro” . È da qui che occorre ripartire per inventare forme di vita e di relazione, di produzione e di ripartizione dei beni, di cittadinanza e di ospitalità che superino la maledizione della solitudine del cittadino globale.
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Questo numero di Pretioperai è un esercizio sullo “svelare il tempo”. È un tentativo di misurarsi con quello che accade sollevando il velo su alcuni aspetti del reale.
Intanto vi è un riferimento alla rivelazione biblica data per essere compresa durante i tempi. Angelo Reginato mette in luce il gioco dei verbi: svelare, velare, rivelare; mentre P. Tecle Vetrali, biblista, ci apre alla comprensione del libro dell’Apocalisse di Giovanni: Tra storia e profezia le ragioni della speranza .
Luigi Forigo parla della chiesa, e la svela, assumendo come chiavi di lettura i temi della differenza e dell’ ecumenismo. Maria Grazia Galimberti guarda alla tragedia dello sfruttamento totale di cui sono oggetto i bambini partendo da questo presupposto: ogni bambino, figlio di tutti. I giovani e il senso della notte interpreta la rottura che essi introducono nel rapporto notte giorno come indicatore del malessere di fronte alla scansione dei tempi previsti dalla organizzazione sociale. Questa sezione termina con una serie di brevi flash che rappresentano uno sguardo operaio: sono stati inviati da Sandro Artioli.
Completano il quaderno due contributi raccolti sotto il titolo generale: “Vangelo nel tempo” e tre interventi di due amici mantovani raccolti nella rubrica “Voci dalle tribù”.