Editoriale (1)


 

L occupazione dell’Irak è in pieno svolgimento. Un’invasione preparata da molto tempo, con cura. In una intervista rilasciata a Ted Koppel della Abc, un giovane colonnello americano della Terza Divisione di Fanteria, mentre entrava in territorio irakeno, si è lasciato sfuggire un pezzo di verità: “non abbiamo timore di campi minati oltre il confine perché da un anno la nostra intelligence sta seguendo metro per metro la disposizione delle mine irakene e sta preparando il terreno”. Anche il card. Pio Laghi, inviato dal papa a parlare direttamente con Bush, ha dichiarato che la guerra era già stata decisa da tempo.
In Mesopotamia si sta sperimentando la nuova dottrina dello shock and awe. Colpisci e terrorizza. Con bombardamenti brutali e spietati occorre ottenere “una Hiroshima senza impiegare la bomba atomica”, teorizzano J. Wade e H. Ullman, i cervelli che insegnano al “Collegio di guerra”. E’ un messaggio chiaro ai terroristi di tutto il mondo: “vi facciamo vedere che siamo noi i migliori e i più forti a terrorizzare!”.
E’ una guerra sperimentale. E’ una guerra che si colloca in un orizzonte mondiale. La prima di una serie.
E’ una guerra imperiale. Non a caso gli organismi multilaterali rappresentati nell’ONU sono stati vistosamente snobbati, dopo ripetuti tentativi di comprare a suon di dollari la maggioranza che non c’era e non c’è stata. Anche i paesi affamati di risorse economiche e membri del Consiglio di Sicurezza hanno resistito alle pressioni, ai ricatti ed alle lusinghe impedendo la dichiarazione di legittimità da parte delle Nazioni Unite dell’intervento militare anglo-americano in Irak. Ma per Washington è un dettaglio trascurabile: anzi è utile a mettere in chiaro chi è che comanda, perché ha la forza di farlo. E’ sempre la storia di Brenno che getta la sua spada per far pendere la bilancia dalla sua parte. Per poi dire che l’ONU è debole.
La guerra va avanti con i suoi orrori e crudeltà che non riusciamo neppure ad immaginare.
Naturalmente i buoni sono i vincitori, i cattivi sono i vinti. Come nella valanga di film western dove agli indiani toccava quasi sempre la parte degli infidi, crudeli e selvaggi. Cominciano a comparire le scene delle caramelle date ai bambini irakeni che hanno avuto la fortuna di non imbattersi in una cluster bomb, sfuggendo al destino, almeno per ora, di diventare un effetto collaterale.
Da che mondo è mondo i vincitori non sono mai stati dichiarati criminali di guerra, finché hanno avuto la forza dalla loro. Criminali sono quelli che perdono e spesso lo sono davvero. Ironia della storia: Saddam e Bin Laden sono stati… compagni di merende dei padri degli attuali vincitori, rispettivamente nella guerra contro l’Iran e contro l’ex URSS in Afghanistan. Qualcuno ha scritto che spesso gli USA, per perseguire la loro strategia di dominio mondiale, hanno creato dei mostri che poi gli si sono ribellati contro. Naturalmente è di cattivo gusto ricordare queste cose perché così si insinua qualche nube che va ad oscurare la brillantezza della sicura vittoria militare, anzi della vittoria del Bene contro il Male per usare le parole apocalittiche del presidente Bush.
In questi giorni ci è stato detto e ripetuto che la guerra oltre che con le armi, si combatte con i media: anche i giornalisti sono stati arruolati. Non sono ammessi “giornalisti autonomi”, pena l’accusa di spionaggio o di fiancheggiamento a Saddam Hussein. La guerra mediatica è l’annuncio pubblico della grande menzogna nella quale siamo immersi. Lo scenario è truccato. La verità del dramma in corso, della tragedia vera, l’immane dolore, rimangono dietro le quinte.
Siamo tanto lontani dalla verità di quello che si sta consumando nelle lunghe distese di sabbia e negli agglomerati urbani presi di mira da missili e bombe. Chi potrà misurare la temperatura di angoscia e paura, di sofferenza, crudeltà che continua ad alimentarsi e a salire? Chi potrà pesare la carica di odio che si ammassa e si diffonde nel mondo, non solo nella presente, ma anche nelle future generazioni? E, citando una lettera inviata all’America dalla scrittrice canadese Margaret Atwood ci si può anche chiedere: “America, che stai facendo a te stessa?”.

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Vi è una inerzia dolorosa a mettere in parole qualcosa di sensato su una realtà totalmente priva di senso, quale è quella che si sta consumando sotto i nostri occhi. Fiumi di parole vengono quotidianamente scaricate per raccontare, descrivere ed interpretare quello che nella sua vera sostanza è un massacro. Un massacro peraltro che, sia pure sotto mentite spoglie, gode degli onori della cronaca a differenza degli altri numerosi, del tutto ignorati, che continuano ad avvenire sulla faccia della terra
Vi è una unica verità. Tutto il resto è menzogna. La verità è rappresentata dal volto delle vittime, attuali e potenziali. Qualunque vittima, nel momento in cui è tale, lascia trasparire la tragica verità dell’essere umano in balia della violenza distruttiva e dell’annientamento fisico e psicologico. Anche la soldatessa americana della più forte armata che mai sia apparsa sulla terra, arruolatasi come molti altri perché non aveva alcun lavoro, attesa a casa dal suo bimbo, appare nella nudità di un essere disarmato in balia di un potere estraneo e nemico. Gli sguardi smarriti dei prigionieri americani, diramati dalla TV araba, sono stati “i primi sguardi umani dell’America sulla guerra” che si sono potuti vedere: così osservava una ragazza mentre informalmente si parlava di quanto si sta consumando in Irak.
L’unica verità è il lamento, gridato o muto, delle vittime ancora vive, o quello di chi non è più, ma il cui grido è rimasto per sempre come eco nelle orecchie di chi l’ha udito.
Nella Bibbia è molto sviluppata quella forma di preghiera che va sotto il nome di lamentazioni, quella che dà espressione letteraria alla voce di chi grida a Dio l’insensatezza della sofferenza che sta vivendo e dell’oppressione che sta subendo. Chiede che esse finiscano per potere ridiventare un essere umano con un minimo di possibilità di vita.
La parola più vera che si può pronunciare è il lamento che esprime l’infelicità umana, senza fine, provocata dall’oppressione degli innocenti, e sono folle immense, che si trovano in mezzo all’annientamento, senza sapere il perché. E assieme al grido della infelicità emerge, appunto, la domanda perché? Perché mi è capitata questa sorte? La domanda si moltiplica per mille, migliaia, milioni…e diventa interrogativo immenso dell’umanità.
Perché, alla fine, la risoluzione ultima viene imbracciata dalla forza, da ciò che prescinde dal senso delle cose, poiché proprio la forza impone la propria quadratura, quella che riduce tutto ad oggetto, a cosa sottoposta al suo meccanismo brutale.
Il lamento delle vittime è realtà universale. Appartiene all’uomo ed alla donna di qualunque razza, cultura e religione, in qualsiasi sistema politico.
“C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti, osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. E’ questo, prima di tutto che è sacro in ogni essere umano” (S. Weil).
Il lamento ha la sua radice in quel “qualcosa”, ovvero il nucleo profondo che rende sacro ogni umano, e che sta all’origine della domanda, che rimane senza risposta, della vittima che si chiede il perché della violenza distruttiva, scatenata ai massimi livelli, che annienta la vita propria con l’esistenza delle persone amate e delle cose che ne rappresentano il contesto vitale.
Quando questo grido rimane inascoltato al mondo rimane aperta solo la via della disumanità totale e dell’assoluto annichilimento del senso della vita, per gli oppressi, e ancor più per gli oppressori.

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Un brano tratto dall’editoriale del direttore di La Repubblica, pubblicato il 17 marzo scorso, offre lo spunto per sviluppare due aspetti che mi sembrano di particolare rilievo.
“Proprio lo choc dell’11 settembre, unito al radicalismo di questa amministrazione e al suo fondamentalismo religioso che la rende diversa dalle destre americane fin qui conosciute, ha innescato la tentazione di una nuova dottrina di sovranità, che corrisponde alla sfida terroristica trasformando gli USA in arbitri del mondo. E’ una spinta di difesa, che porta l’amministrazione ad attaccare per distruggere i pericoli di oggi e di domani. Il metro è americano, come il giudizio, l’esercito, il criterio, il processo di ricostruzione e il governatorato: persino il Dio che presiede a tutto questo è americano, un Dio privato del presidente, capace prima di perdonarlo e poi di redimerlo, per portarlo quindi al comando della superpotenza trasformandolo infine in strumento messianico di lotta del Bene contro il Male, per ristabilire il nuovo ordine biblico e soprattutto americano. Perché è un Dio strumentale, quasi membro dell’amministrazione, sigillo mistico di quella ‘Strategia nazionale di sicurezza’ presentata il 20 settembre di un anno fa, quando Bush si disse convinto che ‘l’umanità ha nelle sue mani l’occasione per assicurare il trionfo della libertà sui suoi nemici’ e aggiunse che ‘gli Stati Uniti sono fieri della responsabilità che incombe loro di condurre questa importante missione’… Nessun Paese… neppure se è la superpotenza egemone, può pretendere di incarnare una ‘missione’ a nome della libertà, dell’occidente e addirittura dell’umanità… saltando i passaggi di salvaguardia del diritto internazionale e attribuendosi funzioni, ruoli e compiti ultrapolitici…: scegliere i nemici, decidere il casus belli, saltare l’ONU, portare il mondo dalla pace alla guerra, trasformando eucaristicamente se stesso in strumento di redenzione del mondo”.
Innanzitutto soffermiamoci sulla “nuova dottrina di sovranità”che sembra decisamente imboccata dalla attuale destra americana che gestisce l’esecutivo.
Sta emergendo con sempre maggiore virulenza la vocazione imperiale degli USA basata sul dato di fatto che questo paese è l’unico che possa attualmente fregiarsi del titolo di superpotenza. Un tale sogno imperiale ha, tuttavia, radici profonde e lontane ascendenze storiche.
Si riportano alcuni testi tratti da un articolo comparso su Le monde diplomatique dell’ottobre scorso.
Alla fine dell’800 un giornalista collega profeticamente il destino di questo paese con l’antico Impero Romano.
“Alla fine del XIX secolo, un certo Marse Henry Watterson, un giornalista, scriveva nel 1896 con orgoglio e in maniera curiosamente premonitrice: …siamo una grande repubblica imperiale, destinata a esercitare un’influenza determinante sull’umanità e a plasmare l’avvenire del mondo come nessun altra nazione, compreso l’Impero Romano, abbia mai fatto”.
Un secolo più tardi, con l’acquisito unipolarismo nel 1991, élite americane tornano a vedere nell’antica Roma lo specchio al quale guardare per formalizzare la concezione dell’impero americano.
Il fatto è – affermava C. Krauthamer, editorialista del Washington Post e ideologo di punta della nuova destra americana – che dai tempi di Roma nessun paese è stato culturalmente, tecnicamente e militarmente dominante”. ”L’America… sovrasta il mondo come un colosso… Dall’epoca in cui Roma distrusse Cartagine, nessun altra grande potenza ha mai toccato le vette che noi abbiamo raggiunto”.
“Un altro ideologo di destra, D. D’Suoza, ricercatore alla Hoover Institution che si era fatto notare qualche anno fa difendendo le teorie sull’inferiorità ‘naturale’ degli afro-americani, afferma in un articolo intitolato ‘ Encomio dell’impero americano’ che gli americani devono finalmente riconoscere che il loro paese ‘ è divenuto un impero…’, il più magnanimo degli imperi che il nostro mondo abbia mai conosciuto ”.

Il credo che muove i falchi neo-conservatori statunitensi si può riassumere nella convinzione del “ ruolo unico dell’America nel preservare ed estendere un ordine internazionale favorevole alla nostra prosperità, ai nostri principi ” con tutto quello che ne consegue” (Projet for New American Century).
Un ordine , come sottolinea un professore di Harvard, del tutto ‘ plasmato a vantaggio [esclusivo] degli obiettivi americani’ nel quale ‘l’impero sottoscrive gli elementi dell’ordine giuridico internazionale che gli convengono (l’Organizzazione mondiale per il commercio , WTO, per esempio) ignorando completamente o sabotando quelli che non convengono (il protocollo di Kyoto, la Corte penale internazionale, il trattato Abm)” …
Appare sempre più chiaro che “Bush e la nuova destra americana intendono ormai assicurare la sicurezza e la prosperità dell’impero attraverso la guerra, sottomettendo i popoli recalcitranti del terzo mondo, rovesciando gli ‘stati canaglia’, e forse ponendo sotto tutela gli ‘stati falliti’ post-coloniali”.
E’ quanto già alcuni anni fa pensava Brzezinski, “ideatore del Jihad antisovietico in Afghanistan” per il quale “l’obiettivo dell’America ‘ deve essere mantenere i nostri vassalli in uno stato di dipendenza, assicurare l’ubbidienza e la protezione, prevenire l’unificazione dei barbari ”.
“La scelta imperiale condannerà gli Stati Uniti a dedicare il periodo di egemonia che gli resta, quale che esso sia, a costruire muri intorno alla cittadella occidentale. Come tutti gli imperi che l’hanno preceduta l’America, vero estremo occidente, sarà assorbita, secondo l’espressione dello scrittore sudafricano J.M. Coetzee, ‘ da un pensiero unico: come non finire, come non morire, come prolungare la propria era ”.

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Vi è un secondo aspetto sul quale è importante fissare l’attenzione.
In una recente pubblicazione della rivista Internazionale è comparsa una foto che mostrava Bush al centro con ai lati il segretario di stato Powell ed il ministro della difesa Rumsfeld inginocchiati a pregare. Apparivano raccolti, quasi assorti. Sono anche stati diramati gli orari giornalieri della casa bianca che prevedono quotidiani esercizi spirituali e la lettura della Bibbia. E’ difficile non pensare che anche questa presentazione non faccia parte della campagna mediatica finalizzata a mettere in luce il “volto buono” e missionario, cristiano, degli uomini che hanno tra le mani la macchina da guerra più potente da quando il mondo esiste. E’ però anche vero che negli USA sono molto radicati movimenti cristiani e conservatori che costituiscono una parte importante della base elettorale di Bush. Del resto “la vita della nazione – dalle scritte su edifici e monumenti a quelle incise sulle monete – è tutta permeata di riferimenti a Dio, frequenti anche nelle locuzioni più comuni, quali ‘ in God we trust’, ‘God’s country’ , God bless America’…
Nel loro insieme questi fattori (religione, bandiera, storia patria) convergono in una ideologia che alimenta l’idea di un’America virtuosa e benefica, portatrice di libertà e di progresso economico e sociale: un’immagine onnipresente nella vita quotidiana, tanto da apparire come una realtà assolutamente naturale e incontrovertibile. America è sinonimo del Bene, di perfetta lealtà e perfetto amore”.

La terminologia religiosa utilizzata da Bush nei suoi proclami politici – lotta del Bene contro il Male, missione degli Stati Uniti, l’uso del termine Dio tutto interno alla strategia americana… – si inserisce in questo contesto con il risultato di farne una delle componenti della politica ed ideologia imperiale.
Ora, un ‘divino’ ridotto ed imbalsamato a propria immagine e somiglianza, quale ingrediente di una strategia imperiale, può essere soltanto una costruzione idolatrica. Proprio la pretesa di incarnare il Bene totale collocando nell’altro l’incarnazione del Male ne è il segno sicuro. Già ai tempi di Reagan – allora l’Impero del Male era l’URSS – si è fatto ampiamente ricorso, nei rapporti politici, a questa terminologia metafisica e religiosa.
Viene a proposito una riflessione della Weil del ’43. In uno dei suoi ultimi scritti sottolinea che una delle forme della idolatria consiste nel
“delimitare uno spazio sociale all’interno del quale la coppia dei contrari bene e male non ha diritto di entrare. In quanto parte di questo spazio, l’uomo non è più sottoposto a questa coppia…
In termini generali questa arte dell’incasellamento (del bene e del male) ha fatto commettere nel corso dei secoli molte mostruosità da uomini che non avevano l’apparenza di mostri…
Questo fu il caso nell’antichità per Roma… Una Chiesa può giocare questo ruolo. L’apparizione dell’inquisizione nel M.E. mostra come una corrente di totalitarismo si era senza dubbio infiltrato nella cristianità…”.
Una volta che uno spazio sociale, una nazione, si identifica con il Bene, tutto il resto che non si adegua a questo bene o si identifica con il Male o è alleato con questo male. Tutti i mezzi sono utili per la vittoria finale del bene. Non esiste altra etica se non quella che prescrive i mezzi più efficaci per arrivare a questo traguardo. Gli eventuali effetti collaterali , fossero pure il massacro di enormi masse umane, sono inevitabili incidenti di percorso che non scalfiscono in nulla il valore titanico della lotta del bene contro il male.
In un recente convegno ecumenico tenuto a Vercelli su “quale futuro per il cristianesimo?”, M. Cacciari utilizza la descrizione agostiniana del cristiano come “ civis futurus, un cittadino che vive nella città, ma che vive dominato, posseduto dall’idea escatologica del futuro… Ebbene questo civis futurus è chiaramente colui che lotta contro quello che, per me, è l’idolo della città, la quintessenza dell’idolo nella città… Qual è quest’idolo? L’idolo per eccellenza è ciò che vorrebbe eternizzare il futuro della ‘civitas’ terrena. Questa è la quintessenza dell’idolo: chi si presenta nella città dicendo ‘questa città è eterna’ la ‘civitas’ terrena è eterna, non ha fine: ‘imperium senza fine’. Questo è l’idolo. Cioè l’idea di un futuro che domina nel secolo è la quintessenza dell’idolo”.

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Non ha avuto il giusto risalto in Europa la decisione del Congresso USA, approvata a larga maggioranza, di indire “una giornata nazionale di preghiera e di digiuno per impetrare l’aiuto e la guida di Dio” come un “appello alla provvidenza per la vittoria sul male”. In tempo di guerra è difficile parlare di vittoria senza pensare alla vittoria militare. Ma non esiste nessun Dio della guerra, al suo posto si fa entrare in scena la sua controfigura. Non esiste alcun Dio dell’impero perché di esso se ne fa una miniatura tutta interna alla “civitas” terrena che si vuole instaurare nel mondo con la forza delle armi.
Se vi è un Dio universale, questi è il Dio delle vittime, di tutte le vittime, di tutti i crocifissi. Il Dio dei vincitori, a conti fatti, è diventato un idolo.
Al centro della fede cristiana c’è un patibolo. Esso rappresenta il polo irriducibile e opposto alla logica dominante. Quel segno di “sconfitta” è la chiave segreta per interpretare e giudicare la storia dei popoli della terra e il senso della vita umana.
“Qualunque croce dopo quella croce, dopo la croce del Figlio di Dio, è omicidio e basta, non ha niente di sacro, è orrido omicidio. Quel sacrificio ha tolto la possibilità di vedere in ogni atto di violenza qualcosa che attiene alla sfera del sacro, ha delegittimato ogni violenza e nel modo più radicale, totale, assoluto”.
La guerra che sta devastando l’Irak non è nient’altro che una orribile guerra, un massacro senza alcuna gloria, un crimine pagato da innumerevoli innocenti, una grande menzogna che nessun appello a Dio potrà trasformare in trionfo del bene.

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Il corpo di questo numero è costituito da una serie di articoli e testimonianze che riguardano situazioni concrete di lavoro. Le prime due vogliono essere un ricordo a più voci dei tanti operai che si sono ammalati ed hanno perso la vita per l’alta nocività dell’ambiente al quale sono stati esposti per lunghi anni. E con loro le famiglie, che hanno vissuto tragedie dolorose, senza alcun riconoscimento di colpevolezza dei responsabili tecnici e gestionali delle Aziende da parte dei tribunali che hanno emesso le sentenze. Ci riferiamo al polo chimico di Porto Marghera e alla Breda Fucine di Sesto S. Giovanni.

 

Roberto Fiorini


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