Editoriale



Le catastrofi possono mostrarci
l’essenza della nostra epoca

(P. Virilio)

Tsunami è entrato prepotentemente nel linguaggio corrente e nel nostro immaginario. Nel 1976 in Cina un terremoto fece 600.000 morti. Nel 1970 in Bangladesh un ciclone uccise 500.000 persone. Quello che è avvenuto nel mattino di S. Stefano, dunque, non è stata la più grave calamità naturale a memoria d’uomo, almeno sotto l’aspetto della numerosità delle vittime. Però è diventato il più grande evento mediatico nel suo genere. Certamente la presenza di migliaia di turisti occidentali in vacanza per le feste natalizie, con il loro diretto coinvolgimento nella catastrofe, è stato elemento determinante perché il fuoco dell’attenzione conquistasse una tale insistenza. Comunque, e questo è il punto di novità, lo tsunami è diventato un fatto globale.
Immagini terribili hanno inondato in tempo reale il mondo, il quale è apparso in tutta la sua finitezza e precarietà. Abituati alle visioni di distruzione prodotte dalla violenza politica e militare, la catastrofe “naturale” ha colto di sorpresa. Il conteggio della sua forza dirompente, capace di spostare l’asse terrestre, è stato fatto utilizzando come misura l’ordigno che più caratterizza la potenza distruttiva della nostra epoca. Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, paragona il terremoto avvenuto all’energia meccanica contenuta in uno o due milioni di bombe di Hiroshima. La violenza equivalente alla loro esplosione in simultanea si è scatenata negli abissi provocando distruzioni a migliaia di kilometri di distanza. Le immagini, viste dall’alto, che mettono a confronto la bellezza di paradisi terrestri, prima dell’evento, con quello che rimane dopo che si sono abbattute montagne di acqua impazzita, possiedono una eloquenza spaventosa. Sono state colpite regioni a noi lontane, ma di fatto quell’evento tragico rappresenta un segnale per il mondo intero. Qualcuno ha parlato di “rivelazione”. Questa volta “la globalizzazione ci dà una nuova consapevolezza del fatto che il mondo è limitato, è finito” (Paul Virilio). Diventa sempre più chiara la follia che domina criteri ed obiettivi con i quali si occupa e si domina la terra.

Non solo evento “naturale”

Dicono gli esperti che il terremoto non si può prevedere. Ma lo tsunami sì perché è l’effetto del terremoto. Tra i due c’è un lasso di tempo molto prezioso. Se fosse stato sfruttato, migliaia di vite umane forse si sarebbero potute salvare. Salvator Briceño, direttore dell’agenzia internazionale per la riduzione dei disastri naturali dell’ONU, ebbe a dichiarare: “Prevedere un terremoto è impossibile, ma non si può dire lo stesso per lo tsunami che lo segue. Sono passate due ore da quando gli Stati Uniti e diversi organismi hanno individuato lo tsunami a quando questo ha raggiunto le coste indiane. Ma non c’è stato nessun avviso. Dicono che le cose sono andate così perché era Natale ed erano tutti in vacanza. E’ una spiegazione inaccettabile”. In verità il NOAA, l’ufficio americano del controllo del clima oceanico ed atmosferico, resosi conto del pericolo ha immediatamente messo in guardia la base navale di Diego Garcia che ha avuto ben pochi danni. Ma non ha avvisato le autorità civili della zona. La base militare è stata allertata, ma i civili no. Il risultato di questa criminale negligenza sono state le migliaia di morti. Infatti per salvarsi bastava salire un dieci-venti metri rispetto al livello del mare e questo si può fare, in molti posti, in pochi minuti (informazioni diffuse dall’International Action Center di New York).
In una intervista a La Repubblica lo scrittore Dominique Lapierre, autore di un best-seller sulla catastrofe industriale avvenuta 20 anni fa a Bhopal in India, afferma: “Gli Stati Uniti e il Giappone dovevano condividere le loro conoscenze sugli tsumani con i paesi travolti da questo muro d’acqua. Molta povera gente, forse, poteva salvarsi… Lì sulle coste colpite dallo tsunami, c’è gente abituata a fare i conti con i cicloni… pescatori abituati ad ascoltare e a dipendere dalla radio. Sì, le loro vite, molto spesso, dipendono da semplici, banali, radioline a transistor che descrivono i movimenti e i cambi di traiettoria dei cicloni…”
Dunque lo tsunami, al momento del suo scatenarsi nella sua opera di distruzione, ha trovato un buon alleato nel fattore umano, nel lasciare che le cose seguissero il loro corso “naturale”, nell’assenza di relazioni e di protocolli operativi tra paesi fortemente interessati a questi fenomeni distruttivi. Ben diverso sarebbe stato se l’evento avesse investito l’oceano Pacifico nel quale è attivo da decenni un sistema di rilevazione che vede collegati USA e Giappone. In sostanza le coste del sud est asiatico non possono contare su un sistema di monitoraggio per la propria protezione, pur essendo a conoscenza di tutti che esse si trovano ubicate nell’area più pericolosa del pianeta. Vi è un altro aspetto da considerare. Un episodio che ha commosso il mondo intero è quello della bambina inglese che era a conoscenza delle dinamiche dello tsunami perché lo aveva studiato a scuola. Ha capito subito quello che stava succedendo, il significato di quel ritirarsi al largo dell’acqua dell’oceano, e ha gridato trascinando verso le alture la sua famiglia e un centinaio di persone che le hanno dato retta e sono riuscite a trovarsi in un posto sicuro prima che piombasse l’onda assassina.
Questa storia di salvezza, dotata di notevole forza simbolica, insegna che oltre alla messa a punto delle tecniche di rilevazione di questi fenomeni ed ai sistemi di comunicazione e di allerta è essenziale il livello e la qualità dell’istruzione quale patrimonio delle popolazioni. Ho letto da qualche parte che gli abitanti delle Haway, quando avvertono le scosse del terremoto, fuggono dalle coste e si dirigono verso l’interno. Anche in questo settore, come in altri della vita umana (sanità, lavoro…), gli investimenti in ordine alla prevenzione sono quelli che offrono migliori garanzie di successo. La coltivazione del fattore umano, qualunque sia il problema che si deve affrontare, è un passaggio inevitabile. E’ una scelta strategica anche a livello politico ed economico. Questo è il punto decisivo, anche a fronte del segnale globale che lo tsunami ha lanciato.
Se è vero che il terremoto non può essere previsto e controllato nella sua forza dirompente, perché non esiste potere tecnologico capace di incidere sul movimento delle placche tettoniche, è però accertato che ci si può proteggere sulle sue conseguenze. Basti citare un esempio. Il 26 dicembre del 2003 in Iran un terremoto ha colpito la città di Bam con intensità pari a 6,8 gradi della scala Richter provocando oltre 30.000 morti. Esattamente tre mesi prima una scossa più violenta – 8 gradi – si è abbattuta sull’isola di Hokkaido, in Giappone, causando qualche ferito e nessun morto.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. La sostanza comunque è che di fronte a questi eventi non è vero che gli esseri umani sono tutti uguali. Negli ultimi 10 anni il 95% dei morti per disastri viveva nei paesi in via di sviluppo: questi eventi mietono molte più vittime dove c’è la povertà, dove ci sono abitazioni fatiscenti, dove mancano sistemi di protezione. Un altro elemento va, inoltre, considerato: l’aumento della densità di popolazione in molte zone a rischio fa sì che un medesimo evento oggi produca molte più vittime di vent’anni fa. Quello che vale per i terremoti accade anche per gli altri disastri “naturali”.

Il degrado dell’ecosistema

“Oggi non è più possibile distinguere nettamente tra catastrofi naturali e quelle industriali, cioè causate dal progresso tecnologico” (P. Virilio). E’ vero che terremoti, inondazioni, siccità, ondate di caldo, tornado… ci sono sempre stati. Tuttavia essi sono in continuo aumento. Secondo il Cred – centro per la ricerca epidemiologica dell’università di Lovaina dipendente dall’organizzazione mondiale della sanità (OMS) – dagli anni ’70, cioè da quando la registrazione degli eventi è diventata davvero affidabile, la loro numerosità conosce una escalation impressionante. Nel 1975 l’ONU ha registrato 75 disastri “naturali”, 150 nel 1982; 225 nel 1994 e 546 nel 2000. Nel 2004 ne sono stati registrati 570.
Il dominio tecnologico sulla “natura”, sempre più intenso e pervasivo, sta provocando delle modificazioni gravide di conseguenze negative nel presente e ancor più per il futuro del pianeta con il rischio della irreversibilità, del punto di non ritorno. L’equilibrio dell’ecosistema è sempre più precario. Se immaginiamo la natura come un organismo vivente possiamo dire che le sue condizioni di salute stanno peggiorando ad un ritmo inquietante. Quello che emerge come dato assolutamente allarmante è l’assenza di pensiero e di cura per le generazioni future che abiteranno la terra. L’irresponsabilità verso il futuro, che si accompagna ad una visione cinica ed ottusa dei problemi del presente, rappresenta la perdita della bussola e del senso stesso della vita che deve abitare il nostro pianeta.
Il «Primo mondo», quello “in cui viviamo, che esalta, a parole, il messaggio evangelico, un messaggio di vita e di armonia con tutto il Creato, è in realtà una società lontana anni luce da quel messaggio. Quasi senza accorgerci ci siamo lasciati corrompere dal sistema del nostro «Primo mondo»”.
Chi detta veramente l’agenda della globalizzazione sono le grandi multinazionali, che concentrano nelle loro mani poderose un enorme potere su tutte le risorse della terra, imponendo i loro obiettivi privati tesi al massimo dei profitti e scaricando sui popoli, cioè sul pubblico, i costi ed il degrado dell’ecosistema.
A questo livello non esiste democrazia, nonostante tutte le chiacchiere che si fanno nei paesi “democratici”. A conclusione di questo punto riporto uno stralcio di un bell’articolo di Vandana Shiva con il titolo significativo: “avviso alla terra”:

Lo tsunami è un campanello d’allarme per l’umanità: non possiamo continuare a dormire a occhi aperti nella folle privatizzazione dei beni pubblici. Se tutto il cibo e tutta l’acqua saranno ridotte a merci controllate e soggette al libero mercato delle corporations globali a fini di profitto, come farà la società a nutrire gli affamati, come farà a dare acqua agli assetati?…
Con lo tsunami, non solo le onde del mare sono entrate in collisione con la costa. Sono entrate in collisione due visioni del mondo: quella del libero mercato e della globalizzazione delle corporations, impotente e inutile ad affrontare i disastri ambientali a cui ha contribuito; e quella di una democrazia della terra in cui le persone di mondi diversi si incontrano a formare una sola umanità, per costruire la propria vita e prepararsi per un futuro incerto vivendo nella piena consapevolezza delle nostre vulnerabilità…La resistenza ecologica e non la crescita ecologica, saranno la vera misura della capacità umana di sopravvivenza in questi tempi incerti
(Vandana Shiva sul Manifesto del 7 gennaio 2005).

 

Lo tsunami continuo

Il grande evento mediatico, passato un mese, è stato derubricato dalle pagine dei media. I soliti noti sono tornati ad occuparle. Anche qui funziona la logica delle corporations. Ma le conseguenze dell’evento sono più che mai attive nei loro effetti ora passati sotto silenzio. Come è sotto silenzio lo tsunami quotidiano, quello al rallentatore già presente negli stessi paesi prima che il maremoto sconvolgesse le coste. Basti pensare che negli stati prospicienti il golfo del Bengala milioni di persone, soprattutto bambini, muoiono semplicemente perché non dispongono di acqua potabile e si dissetano con acqua contaminata.
“Quest’altro tsunami è globale e provoca 24 mila morti al giorno a causa di povertà, debito e conflitti, prodotti dal superculto chiamato neoliberismo…Secondo il World Resources Institute le vittime di questo tsunami creato dall’uomo sono tra i 13 e i 18 milioni di bambini all’anno: 12 milioni di loro hanno meno di cinque anni, secondo un rapporto sullo sviluppo delle Nazioni Unite” (John Pilger su Internazionale 573/2005).
La globalizzazione, cioè l’inglobamento di tutto il mondo in un unico sistema economico, non solo non affronta i problemi, ma li aggrava producendo ulteriori squilibri tra la popolazione mondiale: “Le Nazioni Unite ci informano che …a livello mondiale le cose vanno sempre peggio, perché negli ultimi 30 anni la quota di ricchezza del 20% più povero della popolazione mondiale è passata dal 2,3 all’1,4%. Per contro la quota del 20% più ricco è salita dal 70 all’85%. In altre parole, se nel 1973 il gruppo più ricco guadagnava 30 volte di più del gruppo più povero, nel 1993 guadagnava 61 volte di più. Le Nazioni Unite ci informano anche che i primi 358 miliardari del mondo hanno accumulato ricchezze pari a quanto guadagna in un anno il 45% degli abitanti della terra” (Geografia del supermercato mondiale, EMI).
Oggi i paesi ricchi che ospitano appena il 23% della popolazione mondiale, si appropriano dell’80% delle risorse della Terra, negando di fatto all’altro 77% della popolazione le risorse necessarie al proprio sviluppo. Tutto questo viene accuratamente occultato sotto le insegne della libertà e della guerra del bene contro il male, per citare l’asse ideologico di Bush e della sua simia ridens nostrana, i grandi venditori di illusioni.
A fronte della tragedia del sud est asiatico è nato spontaneamente dai semplici cittadini del mondo un fiume di aiuti a favore delle vittime. I campioni della lotta per la libertà e del bene contro il male hanno offerto briciole, e pure costretti dall’opinione pubblica: gli USA danno l’equivalente di un giorno e mezzo delle spese sostenute in Iraq, mentre la Gran Bretagna mette a disposizione l’equivalente del costo di cinque giorni e mezzo. Naturalmente il debito estero di questi paesi viene mantenuto intatto, invece di cancellarlo allo stesso modo in cui gli USA hanno imposto ai loro partner del Club di Parigi la cancellazione del debito dell’Iraq, paese che occupano militarmente. “L’enormità dei bisogni , in termini di paragone, mostra che la generosità umanitaria, per quanto ammirevole e necessaria, non è una soluzione a lungo termine. L’emozione non può sostituire la politica. Ogni catastrofe rivela, come una sorta di lente di ingrandimento, l’angoscia strutturale dei più poveri, di quanti sono vittime ordinarie dell’ineguale e ingiusta ripartizione delle ricchezze del mondo” (Ignazio Ramonet sul Manifesto del 6 gennaio 2005).

Perché il dolore degli innocenti?

E’ l’eterna domanda che si affaccia sempre quando la sofferenza degli umani raggiunge dimensioni inimmaginabili. La violenza scatenata dagli abissi marini evoca antiche narrazioni mitiche, le cui tracce sono presenti anche nella bibbia, che tentavano di dare forma e spiegazione a qualcosa di incomprensibile. Le nostre misurazioni nell’attuale linguaggio scientifico e militare che usano uno dei simboli della nostra epoca storica – la bomba atomica – per dare un’idea dell’energia sprigionata nell’evento ci annunciano tutta la piccolezza ed il limite nel quale è racchiusa la nostra vita umana sulla terra. E appare l’enorme stupidità e la malvagità di domini costruiti sulla sabbia, eppure capaci di generare lucidamente sofferenze estreme.
Vi è qualcosa di non misurabile in termini cartesiani: è l’immensità di un grido di angoscia, disperazione e morte che si alza al cielo, quasi simultaneo, nel grande anfiteatro che circonda l’oceano Indiano. E il cielo rimane chiuso. E le stelle stanno a guardare. Per un momento il mondo intero rimane senza parole e le grandezze umane appaiono come un niente. Tutto è costretto al silenzio.
Questo grido che, anche se per brevi attimi, si impone costringendo all’attenzione è rivelazione di quanto attraversa il mondo: uno tsumani lento ed ininterrotto.
E ritorna la domanda. In tanti l’innalzano a Dio. Perché? E’ perfettamente legittima. La troviamo nei salmi, in Geremia, in Giobbe ed anche in Gesù, nella recitazione del salmo 21, ad Auschwitz… per riferirci soltanto alla tradizione ebraico cristiana. E’ la domanda che in maniera anonima è presente in tanti cuori, in ogni latitudine del mondo, alle prese con la sofferenza estrema e incomprensibile.
Vorrei riferirmi ad alcuni interventi sui giornali che nei giorni successivi all’evento hanno tentato di dire qualcosa sull’argomento.
Il card. Martino, presidente del consiglio vaticano per la Giustizia e la pace, sul Corriere della Sera del 2 gennaio, rispondendo alla domanda proposta da Luigi Accattoli: “Da questo cataclisma può venire un insegnamento nell’ordine della solidarietà?” risponde: “Dio forse ha voluto mettere alla prova la nostra capacità di essere solidali…”. Personalmente non mi sentirei di rispondere in questo modo. Dicendo forse il cardinale afferma di non sapere con certezza. E allora perché ipotizzare un mettere alla prova noi, volendo o permettendo Dio una tale immane sofferenza? Credo che su ciò che non si sa sia meglio tacere: la fede è anche onesta confessione di non sapere.
Raniero La Valle su Liberazione del 5 gennaio riprende la risposta del cardinale sottoponendola a critica: “l’idea che Dio c’entri con i terremoti, gli tsumani e le stragi, di innocenti e non innocenti, sia pure per metterci alla prova, deriva da una incauta lettura provvidenzialistica della storia, che è stata veicolata anche dalla tradizione cristiana, fino a rispecchiarsi nel detto popolare: ‘non si muove foglia che Dio non voglia’…Una lettura che non solo fraintende il Dio di Gesù Cristo, che è il Dio della redenzione e non delle mazzate, ma anche il Dio della creazione, nella quale è incluso il Sabato, nel quale Dio ‘si riposò’; il giorno del riposo di Dio è il giorno della storia, nel quale si sprigiona l’opera della mente e delle mani dell’uomo (il lavoro), e la natura ha il suo corso… Dopo Auschwitz il provvidenzialismo, nel senso antico, è stato profondamente ripensato, e anche dopo lo tsunami lo deve essere: la questione «quale Dio?» è la vera questione irrisolta, non solo in Occidente”.
E continua: “tale questione va ben distinta dalle appropriazioni religiose che occupano la ribalta: quella di inventarsi una ‘religione civile’ per fornire una identità all’Europa nello scontro di civiltà con l’Islam o quella di Bush che si appella a Dio per la sua guerra perpetua o di Sharon che nega ai palestinesi una terra perché promessa agli ebrei e solo a loro ed anche quella che propugna la vittoria dell’Islam con lo stato coranico e la sharìa o addirittura quello sotteso allo scontro apocalittico del bene contro il male evocato dall’improbabile profeta di casa nostra per qualificare la sua contesa “casereccia” contro ‘il male’ impersonato dalle sinistre che getterebbero il paese nel caos diffondendo miseria, morte e terrore.
“Un dio tirato per la giacca da tutte le parti per incapsularlo nei piccoli o grandi progetti umani o religiosi, in visioni interessate, spesso meschine, ma che l’abissalità della tragedia ripropone nella sua alterità e unicità oltre e al di fuori queste mischie”.
In un articolo comparso su Il Manifesto, dal titolo significativo Gaia assassina, Dio non onnipotente, Enzo Mazzi, riferendosi al pensiero di Bonhoeffer, pastore e teologo luterano resistente al nazismo e impiccato nel 1945 pochi giorni prima della resa della Germania, scrive: “durante la guerra contestualizza con forza l’interrogativo cruciale: dov’è Dio nell’orrore dei campi di sterminio? Giunge così a negare l’onnipotenza divina e a immaginare una società umana che vive e si organizza nella piena laicità «come se Dio non ci fosse». Ma che Dio è un essere impotente? Non è come negare l’esistenza di Dio? O forse no?”.
In realtà Mazzi, a mio avviso, cita Bonhoeffer accentuando un aspetto, quello dell’orrore dei campi di sterminio, più presente in autori ebrei tipo Wiesel, che nel pastore luterano. Il contesto dei suoi pensieri è il mondo “diventato adulto”, quello che organizza la vita e suoi orizzonti in piena autonomia, senza ricorrere all’ipotesi di Dio. Dal carcere scrive all’amico e manifesta quello che muove la sua ricerca: “Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte ed alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile…E’ al centro della nostra vita che Dio è aldilà” (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa).
Ora non è con l’onnipotenza giocata secondo i criteri dell’efficienza mondana, sia rispetto agli eventi ‘naturali’, sia rispetto ai poteri umani che agiscono nella storia, che Dio si propone, si manifesta e si comunica, ma nel suo contrario, come appare in Cristo che dona la sua vita, il quale “non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione” (ibidem).
E’ il paradosso della teologia crucis mediante il quale si “fa piazza pulita di una falsa immagine di Dio”: quella che rappresenta Dio secondo i canoni del potere mondano, allineato ai troni dei potenti, partecipe e benedicente i loro trionfalismi. Gesù che «esiste per altri» esclusivamente, manifesta la verità di Dio: quello che si pone a fianco degli uomini e donne accompagnandoli nel duro cammino in vista della liberazione. Gesù indica questo cammino che vale anche per noi: “Solo nella libertà da se stessi, solo nell’«esserci-per-altri» fino alla morte nasce l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza… Fede è partecipare a questo essere di Gesù… Il nostro rapporto con Dio… è una nuova vita nell’«esserci-per-altri», nel partecipare all’essere di Gesù” (ibidem).
Tutto viene alla fine rimandato alla nostra esistenza. Un Dio del genere può apparire facilmente deludente, non all’altezza delle situazioni e, tutto sommato, inutile di fronte ai tanti orrori di cui siamo testimoni. In realtà noi dalla speculazione veniamo rimandati alla vita, al nostro vivere quotidiano con due orientamenti precisi: la compassione verso l’altro e la conseguente assunzione di responsabilità. Se un mondo nuovo è possibile, questi due elementi ne rappresentano la trama. Non si tratta di cercare o dare un senso all’orrore ed alla sofferenza di proporzioni che vanno aldilà di ogni immaginazione, ma di agire secondo questi due mandati che in fondo sono esplicitazione dell’«esserci-per-altri».
La domanda comunque rimane, attraversa tutta la bibbia e si ripropone sempre nel corso della storia, anche oggi dinanzi allo tsunami. Per procedere oltre ascoltiamo la parola di altri due testimoni del secolo scorso: raccontando di sé forse possono dare luce anche a noi.
Sono andato a rileggere una pagina di Karl Rahner. Riporta una testimonianza su Romano Guardini, teologo italo-tedesco (1885-1968), sul letto di morte: essa rappresenta bene il dramma che attanaglia tutta la dottrina cristiana:
“Chi lo viene a conoscere, non dimenticherà mai quel che il vecchio gli confidò dal letto su cui giaceva infermo. Nell’ultimo giudizio egli non si sarebbe solo lasciato interrogare, ma avrebbe posto a sua volta delle domande; egli sperava ed era fiducioso che allora l’angelo non gli avrebbe rifiutato la vera risposta alla questione che nessun libro, neppure la Scrittura, nessun dogma e nessun magistero, nessuna ‘teodicea’ e nessuna teologia, neppure la sua, erano mai riusciti a risolvere: perché, o Dio, queste vie traverse spaventose per raggiungere la salvezza, perché il dolore degli innocenti, perché la colpa?”.
Chi pronuncia queste parole è un filosofo/teologo cattolico che per 34 anni ha insegnato nelle università laiche e protestanti della Germania. Rahner commenta: “Guardini a ragione non aveva potuto scoprire alcuna risposta a questa domanda; cioè la convinzione che essa riceverà una risposta solo dall’angelo del giudizio e che anche allora la vera risposta sarà necessariamente ancora una volta Dio incomprensibile nella sua libertà e nient’altro”.
Dinanzi a questo vi sono due possibili alternative: affidarsi “in un amore incondizionatamente adorante a quel Dio che fa se stesso risposta”, oppure “rimane solo una nuda disperazione per l’assurdità della nostra sofferenza, che è propriamente l’unica forma di ateismo da prendere sul serio. Non esiste alcuna luce beata che illumini l’abisso oscuro del dolore se non Dio stesso. E noi lo troviamo solo se diciamo «sì» alla sua incomprensibilità, senza di cui egli non sarebbe Dio” (Karl Rahner, Perché Dio ci lascia soffrire?, in Sollecitudine per la Chiesa).
In tutti i casi la risposta è rimandata ad un “incontro”. Un po’ come avviene nel libro di Giobbe, colui che incarna la protesta contro il dolore innocente. Non la discussione teologica con gli amici-avversari e non l’ordine cosmico del creato e neppure l’ostentazione della potenza di Dio riescono a produrre la minima scintilla di luce. Questa comincia ad accendersi quando avviene un incontro. Giobbe dice: “io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb. 42,5).
L’altra testimone è Simone Weil, per la quale è essenziale “concepire chiaramente i problemi insolubili nella loro insolubilità, contemplandoli senza fine, fissamente, instancabilmente, per degli anni, senza speranza, nell’attesa” (Simone Weil, Abitare la contraddizione).
Questo non è solo un invito a pensare, ma è un modo per affrontare la realtà e la vita tout-court, con le sue contraddizioni, senza rinunciare a nessuno dei termini che appaiono in contrasto e rifiutando sintesi immaginarie e false unioni dei contrari. Una sua confessione ci aiuterà a capire:
“Io provo una lacerazione che si aggrava senza pausa, insieme nell’intelligenza e al centro del cuore, per l’incapacità di pensare insieme nella verità la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra loro due” (ibidem).
Possiamo tradurre per noi concretamente: pensare lo tsunami, come espressione dell’immensità del dolore, correlandolo alla bontà di Dio. Non abbiamo né parole, né risposte. Non riusciamo a cogliere un legame possibile.
Eppure la Weil testimonia la fecondità nel mantenere la correlazione tra questi due termini, affermati in tutta la loro forza e verità, tra i quali per noi è impossibile far sintesi, se non a prezzo dell’indebolimento o eliminazione dell’uno o dell’altro.
Sostenere questo e la lacerazione che ne deriva, rifiutando facili compromessi, significa “abitare la contraddizione”. E’ però come essere dinanzi a un muro di fronte al quale bisogna “fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile” (ibidem). Potrebbe sembrare un esercizio vano, una perdita di tempo per noi che siamo prigionieri del “culto dell’utile”, per usare una espressione di W. Benjamin, mentre per Simone Weil è il metodo più certo di accesso alla verità.
Mi sembra che quella donna indiana prostrata sulla rena dinanzi ad un braccio inerte di un parente, vittima del maremoto, la cui foto ha fatto il giro del mondo, possa essere icona di una realtà complessa e vera che chiede di essere accolta e pensata.

 

Roberto Fiorini


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