Presentazione


 

Questo quaderno è in grandissima parte costituito da contributi dei partecipanti all’incontro tenuto nella primavera scorsa a Bergamo. “Operare giustizia in un mondo ingiusto” è un titolo intrigante e inquietante per noi stessi. Nonostante per tutta la vita, anche materialmente, ci siamo impigliati e scontrati in concrete situazioni di ingiustizia e quindi confrontati col “fare giustizia”, tuttavia ci rispecchiamo in una confessione che abbiamo sentito da Piero Montecucco: “Vi confesso che questa parola “giustizia” mi spaventa un po’, perché chiama in causa il mio credere e il mio vivere”.
È un tema in gran parte assente, possiamo dire desaparecido.
Tempo fa, conversando con un medico, al termine di una periodica visita di controllo, mi riferiva di un suo rimprovero indirizzato al parroco, verso il quale peraltro nutre molta stima: “Voi preti avete una grave responsabilità. Nella predicazione della domenica non parlate mai della giustizia e dei doveri ad essa connessi”.
Questa scomparsa viene sottolineata anche da Mario Signorelli nel suo intervento riportato in questo quaderno:

“Ho voluto in queste settimane cercare la parola giustizia, uno studio sulla giustizia, sulle riviste cristiane, ecumeniche, di un certo spessore, spaziando nei titoli di questi quindici anni, e sinceramente ne sono rimasto deluso. Non se ne parla. Ho avuto l’impressione che fosse un qualcosa che non è più di moda, che non ci riguarda, relegato ad altri ambiti”.

La condizione di lavoro nella quale abbiamo trascorso gran parte della vita e… le compagnie frequentate non ci hanno mai consentito di dimenticare; anche la parola biblica, ascoltata nella concretezza quotidiana, ci è servita a mantenere viva l’attenzione su questo punto.
A Bergamo abbiamo ricordato il nostro Convegno di Viareggio del 1979: “credere e operare la giustizia”. Esso ha segnato per noi un lucido orientamento di fondo, in un periodo drammatico e confuso delle vicende italiane, che ha fatto tesoro delle parole pesanti che troviamo nell’epistolario clandestino di Bonhoeffer, rinchiuso nel carcere nazista mentre si consumava la terribile spirale distruttiva della guerra moderna:

“Il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nell’operare ciò che è giusto tra gli uomini. Il pensare, il parlare, e l’organizzare, per ciò che riguarda il cristianesimo, devono nascere da questo pregare e da questo operare”.

 Il tema della giustizia mantiene intatta la sua attualità. Anzi, l’assordante silenzio che la riduce in clandestinità, nella politica e nella chiesa, impone l’obbligo di nominarla, di chiamarla per nome, di farla risuonare. Per noi è un dovere.
Lo scorso anno abbiamo evocato la chiesa dei poveri e la chiesa povera. Luisito Bianchi nel suo intervento si chiedeva e ci chiedeva: man-hu? Che cos’è? Già, che cos’è?
In certe altre parti del mondo lo sanno bene cosa vuol dire essere chiesa povera e dei poveri. Ma non in Italia, non in occidente. Non a Roma. Ma questa è una storia lunga. Per questo non c’è da stupirsi che da noi, in tutta fretta, si siano abbandonate le parole sulla povertà della chiesa uscite in libertà nella primavera conciliare.

“Alla fine della controversia medioevale la chiesa espunge la povertà dal proprio ideale e… a partire dagli anni ‘30 del secolo XIV… non canonizza santi a motivo della loro povertà… La povertà continuerà invece a vivere nella storia della chiesa in quanto virtù privata, non come connotazione della chiesa in quanto tale”. In ambito conciliare si è parlato della povertà anche in riferimento alla chiesa come istituzione. Una sorta di tabù è stato violato. Un sasso nello stagno è stato gettato, ma in 40 anni le increspature alla superficie si sono ricomposte (G. Ruggieri, Dalla proprietà all’uso e alla proprietà dei beni, in Cristianesimo nella storia, 1/84, 143).

La giustizia è l’altra parola messa in sordina. Un vizio antico, tanto diffuso nel comune modo di pensare ed anche praticato, come dice Sergio Quinzio: “la carità nella comune accezione è stata ed è intesa quasi come un’alternativa alla giustizia dovuta”. È terribile che le parole “amore” e “carità”, che tanto risuonano negli ambienti ecclesiali, forse anche abusate, possano servire per occultare i doveri della giustizia.
È nostro compito tener viva la traditio di queste grandi parole, consanguinee al Vangelo e vittime della congiura del silenzio.
Anche per questo abbiamo speso la vita dentro il lavoro, in mezzo agli altri ed alla pari degli altri.
Ci fa piacere riportare la parola di Mauro che, dopo essere stato a Nairobi al VII Forum Sociale Mondiale e al II Forum Mondiale su “Teologia e Liberazione”, ha partecipato al nostro incontro trasmettendoci la sua testimonianza e condividendo i nostri lavori. Al termine dei giorni di Bergamo così ci ha salutato:

“Questo incontro mi ha molto impressionato e confermato in un’idea di fondo: c’è bisogno di voi nella Chiesa! Le parole che avete detto qui rispetto alle esperienze di lavoro, ai problemi legati alla fabbrica o al precariato, sono sconosciute, o almeno del tutto trascurate, nei nostri ambienti ecclesiali; il che rende assai più facile poi fare discorsi distantissimi dalla realtà della maggioranza delle persone, anche credenti. Perciò credo sia davvero importante che non vi stanchiate di farvi sentire. Tramite la rivista, ma anche cercando altri ambiti, come quelli delle Chiese locali in cui siete inseriti: la vostra voce, il vostro sguardo incarnato serve, forse anche al mondo, di certo alla Chiesa.
È questo un po’ il mio messaggio: “Non mollate!” Non pensiate che quanto avete da dire non sia importante o sia scontato, risaputo… Non è così, non è così!”.

Di queste parole faremo tesoro.

Roberto Fiorini


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