Editoriale
Lo ziqqurat era la mitica grande costruzione a gradoni della città in ebraico chiamata Babel. “Facciamo una torre alta fino al cielo” si narra nel libro della Genesi. Era il progetto grandioso di un’umanità che “parlava la stessa lingua e usava le stesse parole”. La torre di Babele rappresenta il titanico tentativo di unificare sotto un medesimo verbo, attivando la forza e le tecniche disponibili, per produrre una costruzione che si avvicinasse il più possibile all’infinito, rappresentato dal cielo.
Ogni impero nelle cangianti variazioni che si sono succedute nel tempo, dagli antichi Assiri e Babilonesi ad Alessandro Magno a Roma caput mundi, ai domini coloniali sino all’assolutizzazione dell’economia nell’era della globalizzazione, porta al suo interno un tale tipo di DNA che impone la pulsione irrefrenabile verso la crescita.
Babel è un simbolo che può essere utile a interpretare quanto sta succedendo.
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Immagino da lontano la grande torre. La chiamavano “casa della fondazione del cielo e della terra”. Sembra che essa rappresentasse la “montagna cosmica”, simbolo della terra stessa.
La linea (skyline) appiattita all’orizzonte, con rampe e gradoni che rallentano la continuità dell’ascensione, mi richiama vagamente quei tracciati che riassumono i movimenti delle piazze affari: da Tokio a Pechino, a Londra, a Wall Street… sempre in successione a rincorrere il sole. Le borse non hanno mai soste. Il silenzio della domenica non deve trarre in inganno. Nell’ombra continua a pulsare il cuore del mercato globale. Milioni di messaggi vengono comunicati contemporaneamente in tutte le parti del globo. Si compra e si vende dove conviene, cioè dove rende di più. Il mercato planetario è sotto l’imperio di un unico verbo: tutta la vita economica si basa sul principio della massimizzazione del profitto.
Nei periodi di vacche grasse si arrampicano senza sosta, i tracciati dei 4 diagrammi, insaziabili, sempre più su. Obbedienti al dogma della crescita inglobando tutto ciò che fa crescere. Non importa a quali costi, purché sia assicurata la crescita. Anche i fatturati della produzione di armi, per loro natura destinate alla distruzione di beni e di vite umane, anche loro garantiscono la crescita.
La torre diventa sempre più alta, sotto la spinta del pensiero unico dominato dall’immaginazione della crescita infinita. Ormai arriva a confondersi con le nuvole. La bulimia della crescita spinge addirittura a tentare profitti a partire dai debiti. Operazione rischiosissima, ma resa possibile perché, come ci diceva 11 anni fa Enrico Chiavacci a Camaldoli, al nostro seminario su Mondializzazione dell’economia: “Oggi il mondo della finanza è un mondo a sé stante, completamente staccato — e disinteressato — dal mondo della produzione”. Una terribile illusione che, respirata a pieni polmoni sotto l’effetto di una iperventilazione artificiale, ha covato l’attuale grande crisi.
Esistono delle cause profonde, che da anni stanno “lavorando” alla costruzione di questa crisi: innanzitutto la caduta del potere d’acquisto delle famiglie statunitensi, il principale motore dell’economia Usa, spinte ad indebitarsi a basso costo per sostenere i loro consumi. Il boom dell’indebitamento è stato amplificato dalla finanziarizzazione dell’economia, cioè la crescita smisurata delle attività finanziarie rispetto a quelle reali (alla fine di ottobre il totale dei derivati sottoscritti ammontava a 1.288 mila miliardi di dollari, pari a 24 volte il valore del Pil mondiale).
Cause “profonde” sono anche la mancanza di regole e l’insufficienza dei controlli che hanno accompagnato questa finanziarizzazione. Per cercare il massimo rendimento sono stati creati nuovi prodotti finanziari tanto complicati quanto rischiosi, costruiti con formule matematiche e senza nessun contatto con la produzione di beni, con il lavoro e con l’economia reale. Per anni i rendimenti alti ci sono stati, oggi però sono crollate le fragili basi su cui si appoggiava tutto il meccanismo. E banche, imprese e piccoli risparmiatori, che, sedotti dai guadagni della finanza, negli anni hanno sempre più basato i loro profitti su investimenti nei mercati finanziari (e sempre meno sull’economia reale), si ritrovano nel portafoglio questi prodotti “avariati” (Vedi sotto Banca Etica, La crisi, domande e risposte).
Scrive l’economista Jean-Paul Fitoussi, consigliere economico di Sarkozy: “La crisi finanziaria non è altro che il sintomo di una crisi latente che esisteva fin dagli anni ‘80, ossia di una crisi di distribuzione dei redditi. Per mantenere i livelli di consumo è stato necessario che famiglie e Stati s’indebitassero. L’indebitamento era una benedizione per il sistema finanziario, che ha concesso prestiti a chi non poteva consumare di più. A quel punto lo squilibrio finanziario si è rivelato: non si può prestare a quelli che non possono pagare” (Le Monde, 15 gennaio 2009).
Pezzi di torre cadono in rovina. Ora si guarda la skyline nella direzione discendente. I diagrammi si sono rovesciati. Ora assomigliano a fulmini che piovono dal cielo colpendo in maniera indifferenziata gente ignara che dall’oggi al domani si ritrova spiazzata e senza alternative. Una specie di peste da cui non puoi scappare perché non sai dove andare. Colpisce come quella che si è abbattuta sul Tonio dei Promessi Sposi che continuava a mormorare: “a chi la toca la toca”.
Chi ci perde? Riporto un giudizio sintetico di Rodrigo A. Rivas:
“David Ricardo e Karl Marx hanno dimostrato da oltre un secolo che ogni valore economico è tempo di lavoro umano: la crisi punisce i 6,5 miliardi di abitanti della terra che creano ogni ricchezza col loro lavoro. Di questi, 3 miliardi erano già poveri e 1,500 miserabili” (L’Altrapagina On Line: www.altrapagina.it).
In sintesi: diminuisce la produzione; s’incrementa la disoccupazione, peggiorano le condizioni di lavoro e di sfruttamento; diminuisce il salario reale; si aggravano le misure contro i lavoratori immigrati; aumentano i prezzi e le tasse indispensabili per pagare gli aiuti finanziari.
In Europa ci sono circa 17 milioni di disoccupati e, stando alle previsioni, nel 2009 si perderanno altri 3,5 milioni di posti di lavoro e il numero di disoccupati supererà i 20 milioni. Secondo una stima della Organizzazione Internazionale del Lavoro, la disoccupazione nel mondo potrebbe aumentare tra 18 e 30 milioni nel 2009; ma, se la situazione continua a deteriorarsi, può superare i 50 milioni e circa 200 milioni di lavoratori potrebbero finire nella povertà estrema (www.altrapagina.it).
Ma vi è anche chi ci guadagna. Chi?
La crisi intensifica la concentrazione del capitale, in soldoni in circa un migliaio di multinazionali e 250.000 multimiliardari che, con l’aiuto degli Stati e degli apparati politici e finanziari, comprano le aziende e scaricano le perdite sulla popolazione. In Italia basterà ricordare il recente caso Alitalia” (www.altrapagina.it).
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“È scoppiata la bolla” scriveva Giorgio Bocca nel 2001:
La festa è finita! Nei primi mesi del 2000 i titoli tecnologici sono calati nelle borse mondiali del 50%, si è temuta una depressione come quella del ventinove… Il capro espiatorio immediatamente trovato e il grido unanime è partito dalla banche e dalle borse: ‘È scoppiata la bolla!’: una bolla piena d’aria come una gravidanza isterica, una bolla speculativa senza precedenti, migliaia di miliardi andati in fumo. Una sbornia colossale.
La bolla sembra un gioco da ragazzi, quello dei palloncini di acqua saponata che al sole prendono il colore dell’arcobaleno. Bocca racconta in anticipo quello che sta avvenendo di questi tempi. Solo che ora la bolla è immensa, non se ne vedono i confini. È come se la terra intera ne fosse avvolta e racchiusa. E continua Bocca:
“I derubati piangono, ma che dicono a disastro avvenuto i gestori della grande truffa? Niente, tutti tranquilli ai loro posti, i banchieri… I più spudorati fanno ancora la morale al popolo bue… I soliti noti contano soprattutto sulla dabbenaggine della gente, sulle mode, sul ‘prato del vicino che è sempre più verde’, sugli status symbol, sulla noia che spinge alle avventure.
Intrinseco al capitalismo non è, come si dice il libero mercato, ma il controllo del mercato, il cliente prigioniero, il consumatore ingabbiato (G. Bocca, Il dio denaro, Mondadori 2001, 3-10).
L’umanità di Babele è quella che deve parlare una sola lingua, usare le stesse parole, credere nella crescita infinita, sviluppare l’area dei desideri trasformandoli in bisogni impellenti, assumere l’ideologia paneconomica in modo tale che non vi sia nessun aspetto della vita a cui non corrisponda un coefficiente economico. Non esiste nulla che non sia monetizzabile. Soprattutto il tempo, cioè quella dimensione che è intrinseca alla nostra vita, è diventato un elemento economico: “Il tempo è denaro”, si dice.
Impianto ideologico che vanta ascendenze nobili e ottimistiche, come quella che Frei Betto cita all’inizio del suo contributo riportato in questo numero.
Ogni individuo mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo (Adam Smith – 1776).
Ora è proprio questa impostazione che sta tra i fondamenti del pensiero unico che sembra destinata a perdere definitivamente quella plausibilità che sembrava incrollabile. Gli interessi privati sono partiti talmente per la tangente ed hanno a tal punto devastato lo stesso tessuto economico che nessuna “mano provvidenziale” è in grado di riparare. Soltanto le autorità statali possono e sono costrette ad intervenire con astronomiche masse di capitali per tentare di evitare la catastrofe della finanza privata.
Le ricette neoliberiste sono saltate e sono state messe da parte dinanzi al rischio incombente, e non ancora neutralizzato, dell’esplosione del sistema.
Con un titolo significativo: “Il giorno in cui Wall Street è diventato socialista”, Le Monde Diplomatique esprime bene il paradosso che sta avvenendo nella patria del capitalismo:
Precisiamo che in rischio sistemico c’è sistemico, che vuol dire che è questione di sistema… cioè della totalità delle istituzioni della finanza privata, potenzialmente coinvolte in un crollo globale. E, per essere veramente più espliciti, vuol dire che una volta che il sistema della finanza, quindi del credito, andasse in rovina, semplicemente non ci sarebbe più attività economica possibile… È sufficiente per fare intravedere l’enormità delle conseguenze?” (F. Lordon, Le jour où Wall Street est devenu socialiste, in Le monde diplomatique, ottobre 2009).
Un senatore non esita a denunciare un socialismo finanziario che egli giudica non americano e il Wall Street Journal annuncia: “Wall Street come l’abbiamo conosciuto ha cessato di esistere”.
Certamente il pensiero unico ha ricevuto un duro colpo. L’unico linguaggio che dopo la caduta del muro di Berlino poteva ostentare scientificità e soprattutto forza vincente ha perduto la propria unicità.
Il grande sociologo francese Edgar Morin afferma che un risultato importante dell’attuale crisi è la fine del pensiero unico. A Babele si sono moltiplicate le lingue. Un passaggio importante e necessario; ma sarà sufficiente? Potrebbe essere l’inizio di un cambio di prospettiva rispetto al nostro comune villaggio globale, riconoscendo i fallimenti storici di tutti i sistemi di dominio, costruiti sulla forza, che nella storia si sono avvicendati.
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Babilu nell’originale accadico significa “la porta degli dei”. Con acuta ironia l’autore biblico fa risalire Babel alla radice di un verbo che significa “confondere, mischiare”. In sostanza dunque Babilonia nella Bibbia significa “confusione”.
Essa tuttavia rimarrà come simbolo dell’orgoglio idolatrico, destinato a cadere. Nell’Apocalisse questo simbolo verrà applicato all’impero romano. Che rapporto ci può essere con i discorsi che sinora abbiamo fatto? Che può dirci ancora Babel?
Mi sembra utile dare la parola a due autori che all’inizio del secolo scorso sono stati testimoni della proiezione che il capitalismo stava imprimendo nel suo slancio verso il futuro. Le loro parole evocano in qualche modo l’affermarsi dello spirito di Babel.
Max Weber, alla fine della sua nota opera Il protestantesimo e lo spirito del capitalismo, scrive parole che certamente non suonano come un’apologia del capitalismo:
Quando l’ascesi fu trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a dominare l’eticità della via intra-mondana, essa cooperò [per la sua parte] all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determinano con strapotente forza coercitiva – e forse continuerà a determinare finché non sarà bruciato l’ultimo quintale di combustibile fossile – lo stile di vita di tutti gli individui nati in questo ingranaggio […]. Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come un «sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento». Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio […]. Sul terreno del suo massimo scatenamento, negli Stati Uniti, l’aspirazione al profitto – spogliata del suo senso metafisico – tende oggi ad associarsi con passioni puramente agonistiche, che non di rado imprimono a essa addirittura il carattere di uno sport. Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia. Forse «specialisti senza spirito, gaudenti senza cuore»: un nulla che «s’immagina di essere salito a un grado mai prima raggiunto di umanità» (cit. in M. Bianchi, Il cristianesimo e le rivoluzioni industriali, in Cristianesimo, a cura di Daniele Menozzi, Einaudi 2008, pag. 339).
Weber scriveva questo nel 1904: potremmo passare in rassegna i vari elementi indicati di quella possente costruzione che procede sino all’ultimo quintale di combustibile… l’aspirazione al profitto spinto sino all’ossessione agonistica, con l’illusione di esser saliti al massimo grado di umanità mai raggiunto prima. Non è difficile evocare l’antica Babel.
Il secondo testo è un frammento giovanile di Walter Benjamin, intitolato “Capitalismo e religione”, scritto nel 1921 (in W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi 1977, 284-287). L’ho conosciuto attraverso un saggio di Giancarlo Gaeta e mi è sempre rimasto fissato nella mente come un grande interrogativo che non può essere evitato, una provocazione radicale (Gaeta, Religione del nostro tempo, ediz. e/o, Roma 1998, pp. 39-52). Il frammento così esordisce:
Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni.
Pur restando questo fenomeno difficilmente afferrabile, perché “è la rete in cui tutti ci troviamo”, tuttavia vi sono dei tratti che ci rendono riconoscibile la sua struttura religiosa:
“Il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data”. Essa non ha alcuna “dogmatica” o “teologia” particolare. Essa si concretizza nel puro culto dell’utile: “l’utilitarismo assume la sua colorazione religiosa”. La sua forza di attrazione consiste nella sua capacità di presentarsi come “culto del possesso”.
“Il secondo tratto del capitalismo è la durata permanente del culto sans rêve e sans merci (senza sogni e senza pietà). Qui non c’è nessun giorno che non sia un giorno di festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali dell’impegno adorante. Il culto dell’utile occupa tutto il tempo, invade tutta la vita: è l’aria che si respira e l’atmosfera che avvolge”.
Quella di Benjamin è una constatazione di fatto che egli coglie osservando il processo storico che si è realizzato in occidente a partire dal medioevo: quello del connubio tra cristianesimo e capitalismo.
“Il capitalismo… in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo”.
Commenta Gaeta:
Tale è l’astuzia del capitalismo; esso, a differenza del comunismo, non si presenta come una religione sociale priva di trascendenza, ma mutua la veste di quella tradizionale svuotandola dal di dentro. È pertanto riconoscendo la natura religiosa del capitalismo che si svela il mistero del suo potere pervasivo, della sua forza di attrazione. Il suo procedere vittorioso sulla totalità del globo terrestre non è dovuto, come si vuol far credere, alla sua superiorità in quanto sistema socio economico, bensì alla capacità di risolversi in culto del possesso.
Sono soltanto pochi spunti che vengono offerti e che possono aiutare a pensare. Non è casuale che sia un autore radicato nella tradizione ebraica a far emergere il tema dell’idolatria, presentissimo nel Vecchio Testamento come nel Nuovo, ma del quale non si parla mai.
Nella Bibbia la denuncia dell’idolatria viene motivata dal processo degenerativo che si verifica a livello antropologico quando il culto si riferisce a prodotti creati dalla mano e dalla mente dell’uomo stesso. È negazione di trascendenza e ripiegamento sulle proprie opere e i propri bisogni. I profeti erano soliti mettere insieme la degenerazione idolatrica con l’ingiustizia che perverte tutti i rapporti umani.
In un capitolo dal titolo significativo “Sull’idolatria sempre possibile”, A. Gesché afferma che non è questione da confinare al passato. È invece “assolutamente attuale… Il rischio dell’idolatria infatti, ben lungi dall’essere cosa ormai passata, sarebbe invece sempre presente”.
L’autore sostiene inoltre che
“l’idolatria, sempre possibile […] non sia affatto tanto né innanzitutto un errore teologico, ma sia invece un errore antropologico. Un falso Dio sarebbe falso […] non tanto per il fatto di non esistere o di essere falso di fronte ad un unico e vero Dio. Sarebbe falso per il fatto di deformare l’uomo, perché lo perverte, gli fa imboccare un cammino in cui l’uomo si perde” (A. Gesché, Dio per pensare Dio, Ed. S. Paolo, 1996, p.166).
L’idolo è semplicemente una costruzione umana, come Babel. E come tale va svelata, denudata. È il lavoro che, già iniziato in questo quaderno, tenteremo di approfondire al nostro convegno e verrà riportato sul prossimo numero della rivista.
Roberto Fiorini
Anche se non riuscissimo ad abbandonare il sogno del sistema monolitico della Torre di Babele che è diventato il nostro incubo ricorrente, questo sogno di un’umanità unitaria non potrebbe essere soddisfatto costruendo semplicemente strade di comunicazione piuttosto che qualche gigantesco impero, vie di comunione invece che di coercizione, sentieri che possano condurci al superamento del nostro provincialismo, senza spingerci tutti nello stesso sacco, nello stesso culto, nella monotonia della stessa cultura?
Raimon Panikkar