Ricordiamo Beppe Giordano (3)


C’è uno strano silenzio nel carcere da qualche giorno, ormai tutti lo hanno saputo, don Beppe non c’è più, la nostra «roccia» non ce l’ha fatta. Nessuno parla, nessuno vuole spartire il proprio dolore con gli altri. Gli occhi sono bassi, la voce di più.
Don Peppe, come lo chiamavo io alla siciliana, con la «P», non era solo il cappellano del carcere, era il compagno di tutti, il collega di ogni operatore, il fratello di ogni detenuto, anche se valdese, musulmano, testimone di Geova o di ogni altra confessione. Quando lo incontravi, per un attimo (…ma solo per un attimo) restavi interdetto e timoroso, per l’imponenza fisica, per il vocione, bastava poco però per far aprire il suo sorriso, che illuminava il volto dietro la barba, ed eri già conquistato, la sua cultura profonda e l’ironia facevano il resto.
Peppe è riuscito a instaurare con tutti un rapporto unico, diverso ed esclusivo, riuscendo a far sentire ogni interlocutore speciale. La capacità di ascolto, l’immensa umanità, l’incondizionato donarsi al prossimo lo rendevano sinceramente partecipe delle ansie e delle aspettative di tutti. Era chiaro, diretto, leale così che ognuno dialogasse con lui fosse altrettanto chiaro, onesto, leale.
Se ci penso, mi ha sempre fatto l’impressione di una grande montagna, la più alta che domina un panorama: sai che è lì, il punto di riferimento, quando la vedi devi alzare lo sguardo, non può mentire, non puoi barare.
Nella nostra amicizia, mi ha sempre affascinato la sua complessa semplicità. Parlavi con lui come davanti ad un caffè e ti accorgevi alla fine di aver discusso di filosofia, storia delle religioni, tradizioni popolari, sociologia e ti alzavi più leggero, e contento, di prima.
Aveva il dono celeste di essere se stesso e di mostrare agli altri come essere veri, anche di fronte a verità scomode e nascoste, da affrontare, sempre.
So che inizieremo a parlarne, più in là, che riusciremo a piangere, INSIEME, come ci ha insegnato, ora no, è ancora presto, ora l’assenza è troppa, nel paesaggio manca una montagna.

Francesco Ruello

direttore del Carcere di Lucca

 


 

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