Sguardi e voci dalla stiva:
il popolo delle carceri
Alcuni s’innalzano con il peccato
altri precipitano con la virtù
(W. Shakespeare)
Art. 27 della Costituzione Italiana:
“La responsabilità è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.”
Ho potuto incontrare la Cappellania del carcere di Montorio – Verona che è formata dal Cappellano attuale don Maurizio, Don Paolo e don Luciano ex cappellani ed ora parroci; fra Beppe Prioli che segue i carcerati in tante parti d’Italia da più di 40 anni ed ha fondato l’Associazione di volontari “La Fraternità” presente in vari carceri accompagnando i detenuti anche nell’inserimento alla fine pena. Il Diacono Carlo di Quinzano.
La Cappellania può contare anche sulla collaborazione esterna della “Comunità dei Giovani” di Sergio Pighi (Salesiano) e di “Exodus” di don Mazzi (del don Calabria) associazioni presenti nel disagio giovanile e tossicodipendenze.
Inoltre la Caritas diocesana gestisce un centro “ il Samaritano “ per accompagnare una sessantina di persone in proggetti di recupero ed inserimento sociale.
Esiste anche una casa ricovero per anziani ex detenuti, creata da una associazione degli anni 1950, “Sesta Opera” per le Missioni nelle carceri.
Ci siamo posti alcune domande che ci aiutassero nello scambio:- Quali condizionamenti “costringono” le persone carcerate. Come i detenuti percepiscono se stessi. Quale rapporto si instaura tra loro, con la famiglia, con la struttura e con i volontari. Si accenna anche alle vittime. Il grido che arriva, cosa provoca nella nostra umanità, nella fede, negli atteggiamenti e nelle risposte.
La fotografia del carcere è quella desolata di un luogo di non appartenenza , ma di presenza forzata; un luogo che non sa difendere la dignità umana dei suoi “ospiti” fino a diventare un cimitero della speranza. Si presenta come una discarica di umanità non recuperabile nell’identificazione delitto e persona; e dalla discarica teniamo la distanza per pericolo di inquinamento. Eppure non è possibile tenere un’analisi così catastrofica. Dentro il luogo c’è un ribollio di umanità. Come in un tino da cui far uscire anche dell’ottimo vino, grazie a persone che (come additivi) vi stanno lavorando, spendendo le loro migliori energie perché una struttura pesante venga alleggerita con un humus di umanità che renda possibile la relazione, che forgia la persona e dia forza a giustizia e speranza.
Un non luogo che racchiude in se anche storie di “lupi”, certamente. Ma a condizione di sapere che nessuno è mai solo carnefice ma anche e assieme, tante volte e ancor prima, vittima.
Vittima di violazioni subite in casa, o in riformatori, manicomi, prigioni o comunque in ambienti violenti e marginalizzanti…
La prima provocazione non viene dal carcere, ma dai rapporti umani e sociali giocati sul territorio. Fuori dal carcere esistono tanti luoghi e situazioni in cui viene negata l’umanità delle persone, magari più deboli.
“ Che ci fa un giovane di 19 anni in carcere?” domanda uno sprovveduto volontario a un ragazzo… l’ingenuità della domanda apre il ragazzo a tirar fuori il suo malessere di omicida. Il padre sempre ubriaco e violento, la madre depressa che gli grida di continuo “maledetto il giorno in cui sei nato”. L’aggressione alla vita è stata prima della strage.
Il cad. Martini nel suo libro “Sulla Giustizia” si domanda: ”le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere…?”
Non si tratta di esser buonisti o permissivi: gli errori vanno riconosciuti. Chi sbaglia deve esser inchiodato alle sue responsabilità e messo in grado di riparare il danno causato ma dentro la chiarezza che non neghi la possibilità di ripresa e che non spenga la voglia di cambiare.
Identificare il reato con la persona è un meccanismo che può scattare nei benpensanti, quando definiscono Bonazzi “la belva di viale Zara”. Anche il carcerato, però, può rimanere prigioniero dal suo gesto. “Tu vali di più di quello che hai fatto” ripeteva di continuo un altro operatore per evitare il pericolo di suicidio. Aiutare a prendere la giusta distanza dal delitto compiuto libera energie di responsabilizzazione e riscatto. Il grido che sale dalle carceri prende corpo nei molti suicidi che ogni anno avvengono numerosi.
L’area del disagio sociale è presente in carcere in maniera massiccia quando altre potrebbero essere le strutture di accompagnamento.
* Le persone con problemi psichiatrici sono una componente non piccola e rischiano una ulteriore emarginazione e violenza dentro il carcere. Mentre fuori mancano risorse di accoglienza.
* I tossicodipendenti. Rappresentano più di un terzo dei carcerati. Possono accedere alle misure alternative, ma tanti hanno pene pesanti.
* Gli Immigrati sono il 30% dei carcerati e sono il segno che il loro sogno della terra promessa si è infranto per la poca accoglienza e prevenzione, caduti nelle mani di bande criminali, a volte formate dai loro stessi connazionali.
Fino al 1975 il carcere era una struttura rigida incentrata esclusivamente sulla sola detenzione e coazione. Da quell’anno inizia la riforma penitenziaria portata a compimento nel 1986 con la legge Gozzini, che prevede un sistema di premi di comportamento per i detenuti e permette l’ingresso di “esterni” come operatori volontari per attività ed impegni in favore dei reclusi per renderli partecipi di uno scambio di umanità e di processi di riabilitazione.
Nel 2005 con la legge ex Cirielli vengono ristretti i benefici nei casi di recidiva, con la riduzione dei piccoli spazi di libertà o la semilibertà. E’ il clima che si respira ora: un’atmosfera intrisa di paura, d’insicurezza, di chiusura nel privato, d’individualismo sfrenato. La sicurezza reale dei cittadini non si crea con la “tolleranza zero”, la vita diventa intollerante per tutti, soprattutto per chi è messo all’angolo.
La rivista del carcere di Padova “Ristretti Orizzonti” riporta una statistica che demolisce questi luoghi comuni: “I detenuti che scontano la loro pena dietro le sbarre, cioè senza accedere alle misure alternative, una volta liberi, ricadono nel crimine nel 70% dei casi. Per quelli invece che hanno goduto del lavoro esterno o della semilibertà, inserendosi di nuovo e gradualmente nel tessuto sociale normale, la recidiva si abbassa drasticamente al 19%. Non è infierendo sul criminale che lo si aiuta a cambiare, ma credendo che possa cambiare nell’offerta educativa graduale dei percorsi di riabilitazione. Questo serve anche a noi perché, ci restituisce uomini meno pericolosi; ed avremo maggiore sicurezza”.
Quando i dati di fatto sono sostituiti dalle percezioni, allora dobbiamo diffondere non solo retta informazione ma anche cultura e senso civico.
Esiste un sovraffollamento delle carceri. In certi luoghi i reclusi sono il doppio di quelli che la struttura può contenere. Il disagio è enorme sia per l’uso dei servizi e sia per le relazioni messe a dura prova. La risposta dello Stato sembra sia quella di costruire nuove carceri senza la capacità di ripensare una soluzione alternativa per reati minori, per categorie speciali. Basterebbe applicare le leggi che già esistono. Da una parte la legge Gozzini, agendo sulla durata della pena in positivo con varie forme d’inserimento graduale, ha di fatto eliminato nelle carceri gli scioperi della fame, le tensioni e le rivolte violente di chi si sentiva senza motivazioni e speranze. Al contempo, illudendo i detenuti sulla possibile variazione di pena, ha finito per bloccare qualsiasi lamentela da parte dei carcerati sul mancato rispetto dei loro diritti nel timore di incorrere in qualche azione disciplinare che bloccherebbe le loro attese. Ma fino a quando?
“Occorre ripensare la cultura della pena, per non restare imprigionati in logiche vendicative. Riformare e umanizzare le nostre strutture detentive, prendersi cura della specificità delle singole persone con servizi di accompagnamento, formare personale sensibile e specializzato sia tra gli operatori che tra i volontari; ma anche velocizzare i tempi dei processi perché il carcere non è un parcheggio.”(Ciotti)
Altro problema è l’inserimento delle persone all’uscita dal carcere. Se non si riesce ad accompagnare una persona nel reinserimento tutto il lavoro fatto precedentemente va perso. Occorre continuare nelle nuove condizioni di vita, creando supporti perché non si ripetano gli errori compiuti precedentemente. Giustizia e solidarietà camminano insieme, allora avremo la pace delle persone e del tessuto sociale. “Non è incoraggiante scontare una condanna con la consapevolezza che a fine pena ti ritrovi in mezzo ad una strada ed a quel punto dovrai ritornare a rubare o spacciare. E se questo diventa una certezza, succede spesso che il condannato si rassegni e viva come se lo status da delinquente fosse una condizione permanente” (Giovanni S.).
La pena di morte non è stata abolita dalla Costituzione Italiana, il suo corrispondente è l’ergastolo. Gli operatori della Cappellania sono concordi nel lanciare il grido: “nessuno tocchi Caino” a fronte di questa struttura punitiva che impedisce ogni speranza ed ogni possibile recupero di vita..
“La mia detenzione è stata la fase della mia vita più impegnativa, pericolosa e rischiosa. I primi giorni dentro sono stati pesanti, perché stavo lontano dai miei cari, privato non tanto della libertà ma degli affetti. A poco a poco ho capito che dovevo farmi la galera e non pensare a coloro a cui volevo bene ( e ne voglio tutt’ora) perché se pensi, stai male. Grazie al mio carattere ho trovato abbastanza presto il mio equilibrio, sia quello interiore che quello con gli altri detenuti…Respiravo, dormivo, bevevo, sognavo, insomma vivevo; ma quando pensavo alla mia condanna “fine pena mai” sarebbe stato meglio dire che morivo vivendo. Mentre gli altri detenuti vivono nella speranza della libertà, noi ergastolani viviamo solo per morire.”
Le Vittime hanno spazio nel vissuto dei carcerati?
Si è constatato tra operatori volontari la crescita del senso di solidarietà non solo tra detenuti, ma anche con situazioni esterne di cui vengono a conoscenza; sono capaci non solo di comunicare ma anche di porre gesti concreti privandosi magari dei pochi denari che ricevono dai loro cari.
La coscienza delle vittime dei loro gesti avviene molto lentamente allentando la durezza della pena e in prospettiva di spazi di libertà. “Solo il risveglio della coscienza di sé e del significato degli atti compiuti a danno degli altri permette al detenuto di capire le ragioni della propria rabbia, dell’odio e della violenza commessa. Il primo passo dell’opera di giustizia dipende dalla presa di coscienza di se” (Gianni S.). Non è un percorso semplice fare verità sul proprio vissuto e maturare responsabilità. Il crinale passa tra il non buttarsi via e il ritrovare la propria dignità accettando la colpa commessa.
“Un pubblico ministero, chiedendo l’ergastolo e, in più, da uno e tre anni d’isolamento, ci diceva «Non c’è niente da salvare di voi, la vostra vita è solo una striscia di sangue». E io pensavo ai concorsi di poesia, alla voglia di giustizia, alle amicizie, ai romanzi, alle montagne, alla malattia di mia madre, alla musica e no, non potevo riconoscermi. Io ero anche quello. Non si poteva salvare, recuperare qualcosa? Non c’era un’esperienza, un desiderio al quale agganciarmi per continuare?” (Arrigo Cavallina).
Queste domande sono l’humus da cui può nascere un percorso di risalita con la possibilità di accogliere una Parola di gratuità “Alzati e d’ora in poi…” I vincoli esterni non impediscono la possibilità di prendere delle decisioni a partire dalle piccole scelte quotidiane.
“Anche se hai preso le distanze dal tuo passato tanto da rimpicciolire le conseguenze dei tuoi gesti, quando , improvvisamente, torna per essere lo spigolo dove sbatti la testa, ed al dolore associ il nodo di continuità, di necessità, con i reati ed il dolore che hai sparso su altre persone, quando addirittura alcune di queste le vedi in faccia come testimoni in aula, e sai che non c’è rimedio, quel che è fatto è fatto, allora non solo emerge la responsabilità, ma ti sembra subito senza misura, senza confine, un calco negativo del valore della vita. Mi chiedevo inorridito: ero io quello? Certo che sì. Ma io non sono quello! Eppure sono schiacciato dalle sue conseguenze. Me stesso e un estraneo nemico…è durata anni questa ricerca di senso.
“E’ più facile gridare contro l’ingiustizia e le privazioni, ma poi servirsene come alibi per non avvertire la propria responsabilità, per non fare la fatica di cercare strade o fessure che dipendono dalle nostre scelte, per non reagire. Anche lo scaricare e il condannare e vendicare “alcuni delitti” di altri carcerati secondo un “codice d’onore” interno al carcere diventa un evadere dalla propria responsabilità. Resta solo il prendersi cura dell’altro che è con te , per quello che è; non a senso unico, perché ogni volta ci si accorge che per la stessa apertura è entrato nella nostra vita qualcosa della vita dell’altro, qualcosa di storia, di emozione, di idee, di speranze. Allora la mia responsabilità coincide con la mia identità” (Arrigo Cavallina).
Luigi Forigo
SCHEDA
Morire di carcere: dossier 2000 – 2011
Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose:
in 10 anni nelle carceri italiane sono morti oltre 1.700 detenuti, di cui 1/3 per suicidio
ANNI | SUICIDI | TOT. MORTI |
2000 | 61 | 165 |
2001 | 69 | 177 |
2002 | 52 | 160 |
2003 | 56 | 157 |
2004 | 52 | 156 |
2005 | 57 | 172 |
2006 | 50 | 134 |
2007 | 45 | 123 |
2008 | 46 | 142 |
2009 | 72 | 177 |
2010 | 66 | 173 |
(da www.ristrettiorizzonti.it)
SCHEDA1
Morire di carcere: dossier 2000 – 2011
Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose
In 10 anni nelle carceri italiane sono morti oltre 1.700 detenuti, di cui 1/3 per suicidio
-
Anni
Suicidi
Totale morti
2000
61
165
2001
69
177
52
160
56
157
52
156
57
172
50
134
45
123
46
142
72
177
66
173
Totale
628
1.742
1 La scheda è tratta da WWW.ristrettiorizzonti.it