Letture
Quando circa 30 anni fa, come gruppo di Preti Operai della Lombardia, si è deciso di darci un coordinamento per i nostri incontri regionali, l’impegno che ci eravamo assunti era quello di intervallare il nostro cammino di ricerca sia con tematiche di fede/religione sia con tematiche politico/culturali. La fedeltà a questa scelta iniziale, dopo il biennio precedente che ha avuto come contenuto della nostra ricerca tematiche riguardanti il polo fede/religione, ci ha portato nella tappa del 2002-03 ad interrogarci sul polo della politica: volevamo capire più approfonditamente ciò che si stava delineando sul fronte internazionale.
A livello individuale ognuno si era già fatto un’idea, aveva già percepito che nella storia degli uomini si stava delineando un “Nuovo Disordine Mondiale”. Quello che ancora non avevamo fatto e di cui percepivamo l’urgenza era un confronto collettivo.
In un primo momento alcuni di noi si sono responsabilizzati nella ricerca di materiale per uno studio più approfondito.
Poi questo materiale è stato condiviso con gli altri del gruppo. Ed infine si è giunti ad un confronto/scontro su quello di cui man mano si veniva a conoscenza.
Con questo scritto non si vuole dire tutto quello che noi PO della Lombardia siamo venuti a conoscenza, ma soltanto quello che pensiamo sia opportuno tener presente per non offuscare il nostro sguardo sulle condizioni di vita di miliardi di Uomini e di donne che, dal modo con cui si sta delineando la cosiddetta “globalizzazione”, non hanno nulla da sperare, anzi hanno tutto da perdere.
Due sono gli studi che maggiormente hanno attirato la nostra attenzione: uno ha come autore Bauman: “Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone”. L’altro ha come autore Noam Chomsky: “Il controllo dei media”.
La prima cosa sottolineata da Bauman è che oggi si sta aprendo una frattura tra politica ed economia. Cioè, mentre per una generazione precedente politica sociale voleva dire che le nazioni e, all’interno delle nazioni, le città erano in grado di controllare le proprie risorse, oggi col delinearsi di questa frattura, l’economia, il capitale, cioè il denaro e le altre risorse necessarie a fare le cose, si sta muovendo tanto rapidamente da tenersi sempre un passo avanti rispetto a qualsiasi entità politica (come sempre, territoriale) che voglia contenerne il moto e farne mutare la direzione.
Conseguenze di questo affrancamento dell’economia dal controllo della “polis”: in soli 10 giorni tre imprese europee hanno trasferito complessivamente più di un centinaio di migliaia di posti di lavoro dall’Europa Occidentale ad altre parti del pianeta terra, impoverendo così le popolazioni di partenza, ma non arricchendo le popolazioni di arrivo.
Ed è questa spiacevole percezione del fatto che “le cose non sono più sotto controllo territoriale” che oggi pesa di più. Ci eravamo abituati all’idea che “ordine” volesse dire “tenere le cose sotto controllo”. Improvvisamente invece ci accorgiamo di questa ampia distesa di caos che l’uomo stesso ha creato. Se le cose stanno sfuggendo al controllo della polis, chi le sta controllando? Forze di carattere transnazionale, afferma Bauman, in gran parte anonime e quindi difficili da identificare; forze che si presentano come una agglomerazione di sistemi manipolati da attori in larga parte invisibili, dove il “mercato” appare come qualcosa che viene determinato da spinte e dagli strappi di una domanda manipolata, da bisogni creati artificialmente, dal desiderio di rapidi profitti.
Commentando uno degli ultimi studi fatti dalle Nazioni Unite, secondo cui le ricchezze complessive dei primi 358 “miliardari globali” equivalgono al reddito complessivo dei 2,3 miliardi di persone più povere, un economista americano ha chiamato questa ridistribuzione delle risorse mondiali “una nuova forma di banditismo di strada”.
E questo non è il limite, perché attualmente l’85% della popolazione mondiale ottiene solo il 15% del reddito e la ricchezza globale posseduta dai paesi più poveri tocca attualmente l’1,4%.
Secondo il folklore della nuova generazione delle cosiddette “classi illuminate” aprire le chiuse e far saltare tutte le dighe create dallo Stato renderebbe il mondo un luogo di maggior libertà per tutti. Secondo tali tesi folkloristiche, la libertà (di commercio e di capitali, prima di tutto) sarebbe la serra nella quale la ricchezza crescerebbe come non è mai cresciuta prima; e una volta moltiplicata, essa sarebbe a disposizione di tutti. I poveri del mondo difficilmente potrebbero riconoscere la propria condizione in questa favola. Del resto che le promesse degli effetti della libertà dei traffici siano menzogne lo si tiene ben nascosto. E si riesce a nascondere la realtà mediante tre espedienti:
In primo luogo: la notizia di una carestia viene presentata di norma insieme ad un’altra: quegli stessi paesi lontani in cui la gente “vista in televisione” muore di fame e di malattie – raccontano i notiziari – sono il luogo di nascita delle “tigri asiatiche’, presentate come gli esemplari beneficiari dei nuovi sistemi, innovativi e coraggiosi, di fare le cose. Non si dice che tutte le tigri messe insieme comprendono non più dell’1% della popolazione della sola Asia. Il messaggio implicito che passa è che la disastrosa situazione degli affamati deriva da una loro scelta particolare: responsabili del loro destino sono i poveri stessi.
In secondo luogo: le notizie sono organizzate e presentate in maniera tale da ridurre il problema della povertà al semplice problema della fame. Questo stratagemma raggiunge due risultati con un colpo solo: si minimizza l’effettiva portata della povertà e si circoscrive il compito da affrontare alla ricerca delle risorse alimentari per gli affamati.
(Mentre sono 800 milioni le persone permanentemente nutrite in maniera insufficiente, sono invece 4 miliardi, cioè 2/3 della popolazione mondiale, le persone che vivono in povertà).
Ad esempio, viene accuratamente evitato qualsiasi collegamento tra le orrende fotografie della carestia, presentata dai mezzi di comunicazione, e la distruzione del lavoro e dei posti di lavoro (ossia le cause globali della povertà locale).
In terzo luogo quando le informazioni che provengono da questi paesi lontani sono rappresentazioni di guerre, delitti, saccheggi, droghe, ecc, solo raramente e possibilmente in tono sommesso, ci viene detto delle armi omicide usate in quelle zone. Meno spesso, se non per nulla, ci viene ricordato quanto sappiamo, ma che preferiamo non ci venga detto che queste armi, usate per trasformare quelle zone in campi di battaglia, sono state fornite dalle nostre fabbriche, gelose dei loro ordini accumulati e orgogliose della loro produttività e competenza.
Questo nuovo ordine mondiale, che troppo spesso appare piuttosto come un nuovo disordine mondiale, per di più ha bisogno proprio di stati deboli per conservarsi e riprodursi. Nel cabaret della “globalizzazione” alla fine dello spettacolo lo stato resta con il minimo indispensabile: i suoi poteri di oppressione. Una volta annullata la sua funzione originaria, annullata la sua sovranità e la sua indipendenza, lo stato nazione diviene un semplice servizio di sicurezza per le grandi imprese transnazionali, ridotto cioè al ruolo di commissariato locale di polizia che assicura quel minimo di ordine necessario a mandare avanti gli affari.
I nuovi padroni del mondo non hanno bisogno di governare direttamente. A loro bastano i governi incaricati di amministrare gli affari per loro.
Chomsky con il suo studio ci ha aiutato ad approfondire il ruolo dei mezzi di comunicazione nella politica contemporanea. Due sono i modi di intendere “società democratica”.
Uno definisce democratica la società in cui il “popolo” ha i mezzi per partecipare in modo significativo alla gestione dei propri interessi e in cui i media sono accessibili e liberi.
L’altro è quello che prevede una società in cui al popolo è proibito gestire i propri interessi e i mezzi di comunicazione sono strettamente e rigidamente controllati. Si tratta, afferma l’autore, della concezione oggi prevalente, e lo è da lungo tempo, non solo nella prassi, ma anche nella teoria.
Una lunga storia, risalente alle prime rivoluzioni democratiche moderne nell’Inghilterra del XVII secolo, riflette questa ideologia.
La prima operazione propagandistica di un governo moderno accadde durante l’amministrazione di Wilson, eletto presidente degli americani nel 1916. La prima guerra mondiale infuriava e la popolazione americana era decisamente pacifista: riteneva che non ci fosse alcun motivo per farsi coinvolgere in un conflitto europeo.
L’amministrazione Wilson invece era favorevole alla guerra, perciò doveva trovare un modo per ottenere il consenso popolare al proprio interventismo. Fu dunque istituita una commissione governativa per la propaganda che nel giro di sei mesi riuscì a trasformare una popolazione pacifista in un popolo fanatico e guerrafondaio.
Fu un grande risultato, il primo di una lunga serie. Fra quelli che parteciparono attivamente e con entusiasmo alla propaganda voluta da Wilson c’erano gli intellettuali progressisti, i quali, come testimoniano i loro stessi scritti dell’epoca, erano orgogliosi di poter dimostrare che “i più intelligenti membri della comunità”, cioè loro stessi, erano stati capaci di indurre alla guerra una popolazione riluttante, terrorizzandola e suscitando un fanatismo oltranzista.
Il dispiegamento di mezzi fu ingente: per esempio furono divulgate terribili storie sulle atrocità commesse dai tedeschi. Molte di quelle invenzioni erano frutto del ministero della Propaganda britannico, il cui impegno a quel tempo era finalizzato come venne precisato nelle delibere segrete, a “indirizzare il pensiero della maggioranza del mondo”.
Ma soprattutto miravano a controllare il pensiero dei membri più intelligenti della comunità statunitense, che avrebbero poi diffuso la propaganda da loro escogitata e convertito un paese pacifista all’isteria di guerra. Funzionò tutto perfettamente e fu una lezione: la propaganda di Stato, quando è appoggiata dalle classi colte e non lascia spazio al dissenso, può avere un effetto dirompente.
Una lezione, afferma Chomsky, che Hitler e molti altri appresero a fondo e di cui si tiene conto ancora oggi.
Un gruppo che rimase colpito da tanto successo fu quello dei teorici della democrazia liberale e delle figure di spicco dei media. Il decano dei giornalisti di allora, che aveva partecipato alle commissioni di propaganda, ne riconobbe i risultati. Sostenne che quella che lui definiva “una rivoluzione nell’arte della democrazia” poteva essere usata per “fabbricare consenso”; cioè ottenere mediante le nuove tecniche di propaganda l’appoggio della popolazione, rovesciandone l’opinione: la riteneva un’idea non solo buona, ma in alcuni casi, addirittura necessaria, perché – come spiegò con i suoi scritti – “gli interessi comuni sfuggono completamente all’opinione pubblica” e possono essere compresi e amministrati soltanto da una “classe specializzata” di “uomini responsabili” abbastanza intelligenti da capire come vanno le cose.
Questo tale, di nome Lippmann, ha supportato questa idea con una elaborata teoria della “democrazia progressista”.
A suo parere, in una democrazia sana ci sono cittadini di diverse classi.
La prima, che deve avere un ruolo attivo nella conduzione degli affari generali, è la classe specializzata, costituita da persone che analizzano, eseguono, prendono decisioni e gestiscono il sistema politico, economico e ideologico. Si tratta di una minoranza esigua.
Poi c’è la maggioranza che lui chiama “il gregge smarrito”, la cui funzione è quella di semplice spettatore. Le è concesso di tanto in tanto di dare appoggio a uno o all’altro dei membri della classe specializzata (le cosiddette elezioni). Ma una volta che ha dato appoggio all’uno o all’altro, la maggioranza deve farsi da parte e diventare spettatrice dell’azione, rinunciando alla partecipazione. Questo è, secondo il pensiero di questo decano dei giornalisti, ciò che deve accadere in una democrazia che vuole funzionare a dovere.
Dietro a tutto ciò, continua Chomsky, ci sta una logica, addirittura un assunto morale imprescindibile: il popolo è troppo stupido per capire; se cerca di partecipare alla gestione dei propri interessi, combinerà senz’altro guai; di conseguenza sarebbe immorale e ingiusto consentirgli di farlo. Dobbiamo ammansire il gregge smarrito, impedirgli di aggirarsi scalpitante e selvaggio, e di distruggere tutto.
Per riuscire ad ottenere questo, il sistema è la costruzione del consenso: una rivoluzione nell’arte della democrazia. E allora i media, la scuola, la cultura popolare devono essere tenuti separati: alla classe politica e a chi gestisce il potere devono garantire un certo senso della realtà (non eccessivo), ma anche trasmettere le giuste convinzioni. C’è qualcosa di più che occorre fare: siccome di solito la popolazione non vede ragioni per lasciarsi coinvolgere in massacri e torture, occorre spronarla e per spronarla occorre spaventarla. Bisogna incitarla ad avere paura dei nemici. La popolazione, finché viene costretta al ruolo di semplice spettatore, non ha modo di organizzarsi o di esprimere ciò che pensa, né di venire in contatto con altri che condividono la sua stessa opinione.
Quando i media sono sotto controllo, il sistema scolastico e il mondo della cultura sono allineati, il consenso è assicurato.
È necessario inoltre falsare radicalmente la storia. Questa è un’altra strategia per sconfiggere le assurde inibizioni. Pertanto l’immagine del mondo che viene presentata al popolo ha solo una remotissima relazione con la realtà. Spesso la verità resta sepolta sotto un enorme castello di bugie.
E allora, come non spaventarci di fronte al fatto di vivere in un paese che riesce a far accettare una guerra ingiustificata, una guerra che ha il semplice scopo di accaparrare risorse, sempre più risorse al fine di arrivare a condizionare le scelte politiche di altri popoli?
Ci auguriamo che queste informazioni che abbiamo ricavato dalla nostra ricerca diventino ancor di più stimolo per tutti noi che riconosciamo l’urgente necessità di contrapporci a tutti quei tentativi che soprattutto oggi vengono fatti al fine di erodere i fondamentali diritti umani e la vera democrazia, e di impegnarsi a costruire un ordine sociale in cui ogni essere umano integro vorrebbe vivere.
“Si tratta di capire, conclude Chomsky, se vogliamo vivere in una società libera veramente, oppure in un regime che corrisponde di fatto a un totalitarismo autoimposto, con il “gregge smarrito” ridotto ai margini, sviato, terrorizzato, che urla slogans patriottici, teme inutilmente per la propria vita e ha timore reverenziale del leader di turno. Finiremo per diventare uno stato gendarme mercenario, sempre in attesa che qualcuno ci assoldi per distruggere il mondo.
Questi sono i possibili sviluppi che ci troviamo di fronte. La risposta è nelle mani di persone come voi e come me”.