Sirio Politi / Scritti del periodo 1956-1959 (3)


 

Sono oggi otto giorni che sono uscito l’ultima volta. Ho timbrato il cartellino d’operaio con sopra il mio nome e cognome senza il “don”, all’orologio di portineria e sono venuto via con una tristezza infinita nel cuore. Sapevo di abbandonarli.

Li lasciavo. Dopo tre anni.
No, è chiaro, non sono più di loro. Anche se facessi miracoli non apparterrò a loro. Non sono più uno di loro e quindi non sono loro nemmeno davanti a Dio.
E questo è terribile.
E questo la Chiesa non lo doveva volere. Perché è giusto che questo povero mondo operaio abbia qualcuno che sia lui veramente e sinceramente davanti a Dio. Che lo rappresenti con diritto.
L’Amore cristiano esige questa “Incarnazione”.
Il sacerdozio ha questo dovere di mediazione.
Rimangono soli anche se io ero spaventosamente nulla. Anche se incredibilmente indegno, ero il loro sacerdote.
Ogni mattina alla Messa. In tutta la preghiera. In tutta la mia ricerca di Dio. Nel mio povero sforzo di libertà e di presenza. Nella mia situazione umana e sociale. Nel mio morire a tutto il resto. Nella sofferenza a cuore aperto di tutto il dramma operaio in tutto il mondo e particolarmente in Italia. Nell’umiliazione di essere povero e nulla come loro. E di essere perfino incapace di un buon mestiere. Nella fatica di ogni giorno. Nella schiavitù della sirena. Nella sfinitezza di tante sere dopo giornate tanto dure e penose. Nella povertà di quella povera busta presa dopo aver fatto una lunga coda: e l’amara sorpresa di quel poco, e sapevo bene, e glielo leggevo in faccia, che per loro con moglie e figli e affitto di casa e tutto il resto era ancora più poco.
Il loro prete. Anche di quelli che non credono in Dio, che non vanno mai in chiesa, che nemmeno vogliono sentir parlare dell’anima… tutti ugualmente, senza la minima differenza, ma anzi preferendoli, ho raccolto nell’anima mia e nel mio sacerdozio. Senza nemmeno dir loro una parola, non pretendendo mai assolutamente nulla, nemmeno che sapessero del mio Amore e tanto meno che lo capissero e meno ancora che lo corrispondessero.
Ma li ho raccolti così come sono, in blocco e uno per uno anche se dispersi su tutta la terra, chiedendo a Dio che li amasse così com’erano e trovasse Lui il modo perché niente di loro andasse perduto. No, non ho potuto sopportare che tutta la loro vita si esaurisse sotto quel torchio di lavoro e di schiavitù alla fatica per avere l’indispensabile per non morire. Che tutto il valore umano — è in Dio che ho conosciuto quanto valga questa povera realtà umana, è in Gesù che ne ho scoperto la misura di valore — finisse in una materialità soffocante e avvilente, in una miseria morale incredibile, dentro limiti che non vanno al di là del mangiare e del bere e di dormire con una donna. E che tutto il travaglio di avere una famiglia e di mantenerla con tutti quei calcoli che vanno dall’usar della propria moglie col terrore di un figlio dopo il primo o al massimo dopo il secondo, fino ai conti della spesa e dell’affitto e delle cambiali e delle medicine e tutto il tormento della vita d’ogni giorno… che tutto insomma li uccidesse spiritualmente riducendoli a povere macchine come quelle dell’attrezzatura del cantiere.
No, questo è insopportabile e volevo che un prete vivesse interamente questo terribile problema di materialismo e vi portasse per mezzo del suo Sacerdozio – Redenzione di Cristo, un po’ di salvezza. Ma non discorsi o lamenti, ma caricarsi di tutto, come se tutto fosse proprio tentando di portar tutto questo carico enorme a Dio per mezzo di Gesù.
E non ho potuto sopportare che tutto il problema sociale che è solo sofferenza che dura da oltre un secolo e che gronda così tanto di sangue, di carcere e di dolore, lo dovessero affrontare e risolvere da soli.

Ho desiderato entrarvi dentro e parteciparne tutta la tragedia. Viverne tutta l’impostura e il tradimento. Soffrire questo spaventoso sfruttamento. Offrire anche il mio sudore, il mio tempo, le mie forze e la mia libertà perduta per arricchire uno qualsiasi, chi mi ha usato la grande generosità di prendermi a lavorare e mi tiene con sua condiscendenza ad ogni mattina che rientro. E rigare diritto sempre col timore di essere buttato fuori perché migliaia di sciagurati più di me stanno alle porte pronti a entrare a qualsiasi condizione, anche a baciare dove “il principale” mette i piedi.
E i sindacati?
Questa protezione ridotta ad un’ombra, buona soltanto a mantenere illusioni. Divisi e suddivisi fino a renderli vuoti, quasi una irrisione.
E la politica e il governo e i partiti? Tutto è così spaventosamente senza Amore, senza nemmeno l’apparenza di giustizia ormai, perché si può agire impunemente e fare del fascismo molto scopertamente.
E la Chiesa?
Ho tanto desiderato, direi l’unico desiderio fino a farne una finalità, ho tanto desiderato far riacquistare la stima della Chiesa agli operai. E speravo che un giorno non sarei più stato solo in Italia, ma molti e quindi una voce — una Voce di Amore, di Verità, veramente sincera — dentro il mondo operaio. E gli operai avrebbero guardato a questo gruppo di preti, i soli forse rimasti a parlare con diritto di giustizia sociale, a portarne il peso, a soffrirne le conseguenze.
Un gruppo di preti fra questa mezza moltitudine di preti che vivono assai al margine della concretezza bruciante della vita umana nei suoi rapporti sociali e umani.
La Chiesa vivamente dentro il mondo operaio. Caricata del peso di lavoro, di fatica, di povertà, di miseria, d’ingiustizia per mezzo dei suoi preti.
La Chiesa finalmente che si addossa pagando di persona, con carne viva e forse anche con l’anima dei suoi preti, che si addossa e ne fa cosa Sua per Amore — per l’Amore raccolto nel Mistero di Gesù — la sofferenza attuale, di questo momento, di questa gente. Dei poveri che vivono come gli uccelli dell’aria e i gigli dei campi, dei figli di Dio, di quelli di cui è il Regno dei Cieli.
Quanto ho amato la Chiesa vivendo nel mondo operaio e che sofferenza dovendo ascoltare sempre risentimenti e disapprovazioni e penosa sorpresa e dolorosa delusione da parte degli operai verso di lei. E non era comunismo, ma forse strano ma anche vero dolore, per non trovare Amore dove logicamente l’aspettano.
Un’amarezza indicibile. Per una lontananza. Per una incomprensione. Forse per una paura impossibile e assurda, quasi per un disprezzo o peggio ancora per troppi scoperti palliativi buoni solo a girare l’ostacolo, a darla ad intendere, a imbrogliare le idee, a dividerli fra loro quasi mettendoli in dissidio e in odio, per un parlare e parlare formalistico e solo in certe particolari occasioni e sempre con i soliti discorsi ormai retorici fino all’incredibile. Per un conservatorismo spaventoso a costo di tutto. Per conservare cosa, poi, non so, se non quelle posizioni di privilegio più o meno giustificate da intenzioni per opere buone. Per un voler fermare la storia, per un ostinarsi ad aspettare soltanto la maniera forte che spazza via tutto per gridare poi al martirio. Non so perché cosa ancora… ma un’amarezza spaventosa perché la Chiesa sta facendo di tutto per non farsi amare, per non essere lei almeno socialmente la testimone vivente del Mistero di Gesù, della Verità del Vangelo, di quello che il Cristianesimo è per sua caratteristica essenziale.
Quanta amarezza in questi tre anni e l’Amore per la Chiesa mi è cresciuto ogni giorno e non mi sarebbe stato niente morire per lei perché ogni giorno andavo a morire dentro questo povero mondo operaio per lei, perché pensavo e credevo di rappresentarla, di esser lei a lavorare, a vivere con una pazienza incredibile, a sopportare tutto a cuore aperto e serenamente, a condividere e partecipare più a fondo che mi era possibile il dramma di milioni e milioni di povera gente.
Era per esser la Chiesa. Unicamente per questo.
Perché se non altro in me, povero prete-operaio, s’incontrassero e si comprendessero vivendo insieme gli operai e la Chiesa. Anche la Chiesa fatta di Papa, di Cardinali, di Vescovi, di preti, di frati e di suore… la Chiesa visibile gerarchica.
Volevo essere anche quello che dovrebbe essere il loro Amore verso i poveri. Lo facevo anche per loro. Perché loro potessero continuare a vivere quello che pensavano che era il loro dovere nei confronti del Regno di Dio. Forse anche perché potessero conservare quelle loro posizioni di privilegio giudicate tanto essenziali e fondamentali nella convivenza sociale.
Ormai per me un mondo era finito e non avevo più alcun desiderio che mi riguardasse personalmente all’infuori di quello di poter andare a lavorare in un grande complesso industriale di migliaia e migliaia di operai. Null’altro. Anche le vecchie velleità di cultura erano svanite, come mangiate. Finito il problema della salute. Quasi ormai spariti i tentativi di difesa di me e dei miei diritti di qualsiasi genere.
Non m’importava più nulla di me. Nemmeno della mia salvezza eterna. Non era più un problema che riguardava me e basta, il mio conoscere Dio e amarLo. Mi sarei vergognato a pretendere che Dio si occupasse di me per me. Dicevo che se non fosse perché il mio corpo e l’anima mia erano loro, non avrei avuto il coraggio di far la Comunione ogni mattina. Ma tutto il mio essere di Dio era per loro. Veramente tutto. Tutto.
Ripensandoci ora, ora che ormai ne sono fuori, ho perfino paura a pensare queste cose: sono stato indegnissimo, di una miseria, di un egoismo, di una superficialità e incostanza terribili, non ho fatto il mio dovere, ho tradito a più non posso, però tutto questo è stato vero. E molto altro ancora che mi ha preso e posseduto, a cui mi sono abbandonato e che ho sentito come chiarezza e misura massima di Amore e di Verità. Ho avuto l’esperienza di quello che è il Cristianesimo. Forse ne ho vissuto molto anche se miseramente e indegnamente.
Tanta gioia e tanta amarezza. Tanta apertura di cuore e tanta paura. Tanta vastità di Verità da non saperla e poterla contenere, da morirne quasi e insieme tanta stupida miseria da vergognarsi miseramente… ma non importa. Ho conosciuto cos’è l’Amore di Dio per gli uomini… l’Amore di Dio per noi, per tutti, tutti ugualmente bisognosi di Lui. E ho conosciuto come quest’Amore arriva, deve arrivare a tutti. Ne ho scoperto le vie nascoste e ne sono rimasto rapito e disorientato e atterrito. Credo di avere conosciuto Gesù. E’ il mondo operaio che mi ha dato di conoscere Gesù spingendomi, costringendomi a scoprirne la Verità, quella Verità che è la giustizia e l’Amore di Dio. Perché il mondo operaio pone problemi violenti e non rimandabili e è impossibile girarvi d’intorno e dire storie inutili o pensare discorsetti da anime pie…
Diventano piaghe scoperte e forse malattie mortali: occorrono i mira- coli della Verità di Dio, altrimenti è inutile. Occorre morire e subito e non come eroismo ma per serena logica, come cosa normale e giusta perché l’Amore vero non può essere che così.
E poi ho conosciuto gli uomini. E fino in fondo. Forse perché ho sofferto molto per loro. Ho cercato di scoprirne tutto il mistero. E non mi sono nascosto i limiti anche i più sconcertanti. Non ho guardato mai da un’altra parte per non vedere o per non ascoltare. Né mi sono distratto per non capire. Non ho avuto paura di me, né dei rischi che me ne venivano. Forse mi sono rifatto perfino un sistema di morale non esattamente conformista e molto facile come quella studiata a scuola.
Li ho amati profondamente e tutto ciò che era di loro, tutto assoluta- mente, è stato mio.
E in modo particolare i loro rapporti con Dio.
Questa misteriosa e tremenda realtà dei rapporti con Dio. E non sulla base del peccato mortale, o no. Del Paradiso o dell’Inferno. Del tu sei dei nostri o no. Del buono o del cattivo ecc., ma tutto su un piano di Amore, di un loro diritto all’Amore, di un mio dovere assoluto a costo di tutto senza limite e misura, di un mio dovere assoluto di Amore. Soltanto Amore. A cuore aperto così come credo che Dio ami. L’Amore che ci ha rivelato Gesù. Tutto il resto non mi ha appartenuto e non me ne è importato niente anche se era sempre enorme motivo di sofferenza perché non ho perduto il senso del peccato e del male, ma è cresciuto ogni giorno, ad ogni Messa celebrata, ad ogni pagina di Vangelo letta, ad ogni stretta di mano, ad ogni “buon giorno”, sempre più, sempre più… fino al punto che non so. Ma è stata una cosa terribile. Gesù lo sa.
E molto altro ancora in quelle lunghe ore di lavoro, di fatica, silenzioso su quei poveri pezzi di lamiera a battere martellate senza fine, a tirare la lima per delle ore, intorno ad una macchina settimane e mesi, sempre lo stesso lavoro senza interesse particolare, senza soddisfazione, nulla di umano, nulla di umano, di mio, che mi interessasse. Cosa vuol dire questo vuoto, questa inutilità, questo morire, essere morti. E nessuno che ti dà la minima attenzione all’infuori di quelli che sono poveri e legati alla stessa situazione e che non contano nulla neppure loro, poveretti… ma gli altri al massimo mi hanno considerato un povero esaltato.
Ora tutto è finito.
Per questo quella sera quando mi fu detto dell’abolizione dell’esperienza dei preti operai, mi si scavò nell’anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito finito, morto.
La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio lei.
E piansi tanto.
Poi la pubblicità dei giornali. E tutto il chiacchierare inutile e vuoto, capace di sciupare una infinita sofferenza.
E ho continuato a lavorare come una macchina ormai in movimento, senza anima e senza Amore, finché non ho finito il mio ultimo blocco di lavoro.
Poi ho preso le ferie e questa volta erano ferie che non sarebbero finite più.


 

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