Nord – Sud (in Italia e nel mondo)


 

Un problema complesso che si tinge di razzismo

 

Rieccoci di nuovo ad un tema sempre rimosso e sempre ricorrente nella nostra coscienza collettiva. E’ un tema che investe i più svariati campi del vivere sociale: il politico-economico, quello storico-geografico, quello nazionale e, non ultimo, quello ecclesiale. Un tema che suscita talora reazioni convulse, se non grossolane e offensive, come dimostrano le varie leghe a stampo geografico razzista che sono nate al Nord e che ora hanno, per reazione, prodotto qualche lega uguale e contraria anche nel Sud d’italia. Non sono offensive e inqualificabili solamente le frasi che si leggono, questa volta, ahimé, in maniera prevalente, al Nord – soprattutto sui mari delle città piemontesi, lombarde e venete – ma è oscena la stessa idea di costruire raggruppamenti, movimenti d’opinione, partiti politici contro una parte della popolazione, sia essa del Nord che del Sud, contro la gente d’oltralpe o contro i terzomondiali.
Non tutti arrivano a questi livelli. Anzi la maggior parte condanna simili eccessi, come condanna i facinorosi e i violenti dei nostri stadi nazionali. Il mondo – viva Dio! – è pieno di persone assennate, che sanno condannare gli eccessi. Eppure – strano a dirsi – sono proprio queste persone equilibrate e serene che giustificano con i loro argomenti l’immodificabilità di situazioni, di visioni, di un mondo che si vuole e si deve ritenere immutabile, allo scopo di assicurare l’immutabilità del proprio benessere e di quello del proprio gruppo, della propria area storico-culturale e geografico-ambientale.
Ma contro la virulenza del razzismo può bastare il discorrere salottiero delle persone perbene? Certamente no. Di fatto gli argomenti tradiscono una visione statica e rassegnata della vita. Le conclusioni non lasciano adito a dubbio e soprattutto non aprono alcuno spiraglio. Suonano così: “non ci si può far nulla!”; “tutto il mondo è stato sempre diviso tra ricchi e poveri!”; “il sud di oggi è la perpetuazione dell’eterna divisione tra ricchi e poveri”; i più pii arrivano a dire: “l’aveva affermato anche Gesù nel Vangelo: i poveri li avrete sempre con voi”. Il Sud, o i tanti Sud – si afferma in sostanza – fanno parte della natura delle cose. Cose immodificabili, contro le quali è pura velleità anche il solo voler lottare.
Quando non ci si rassegna al fatalismo, il problema del Sud diventa per altri – spesso in maniera del tutto strumentale – solo una disfunzione storicamente pesante, ma tutto sommato momentanea, di uno sviluppo economico, che si ritiene prima o dopo arriverà a beneficiare anche il Sud. Se nei Sud del mondo non
c’è benessere, ciò è da imputare – si pensa – a fattori climatici, ambientali, temperamentali. Il razzismo, espressamente rifiutato per la sua grossolanità, fa di nuovo capolino, anche se molto sottilmente. La gente del Sud non sa lavorare – si afferma – perché non vuole lavorare. E’ indolente per natura, manca di grandi motivazioni economiche e sociali, manca di ambizioni.
Il pregiudizio si ammanta allora di rispettabilità scientifica. Un economista come Galbraith scriveva dieci anni fa che “la natura della povertà di massa” si deve cercare nell’adattamento dei poveri allo loro situazione. In meccanismi dunque più di psicologia sociale che di iniqua ripartizione economica. La prova è – udite, udite! – il fatto che i poveri, quando sono in terra straniera, sono non solo laboriosi e produttivi, ma di gran lunga più diligenti e creativi degli autoctoni. Tutto ciò suona pur sempre come un inno all’emigrazione, salutata come una benedizione: “Nùtriti onestamente, non restare nella tua terra!”; ma è una benedizione, osserviamo umilmente, che ha fatto più che la fortuna degli immigrati, quella dei paesi “ospitanti”. Questi hanno avuto mano d’opera a buon prezzo, centinaia e centinaia di migliaia di operai per i quali non avevano speso un soldo, mentre la madrepatria se li vedeva sottratti e si immiseriva ulteriormente, avendo dovuto pagare, dalla loro nascita fino al momento dell’espatrio, quanto occorre per le pur minimali strutture ed infrastrutture indispensabili al vivere associato (scuola, sanità ecc.).
Si resta veramente sorpresi a non leggere simili considerazioni in professori di economia, le argomentazioni dei quali spaziano invece in tutt’altro orizzonte. E’ quello, in ultima analisi, della pregiudiziale di fondo sulla “natura” dei poveri, considerata, se non di seconda serie, almeno immatura, e quindi del pregiudizio sui Sud del mondo, e sul carattere volontario della povertà e del disagio.

 

E’ responsabile la religione?

 

Galbraith non si fermava qui. Riprendendo e revisionando argomentazioni care ad un altro pensatore interessante, anch’egli del Nord, M. Weber, riproponeva la grande responsabilità rivestita dalle “religioni mondiali” nel processo di adattamento alla povertà, provocando una sua perpetuazione. Le religioni, in primo luogo quella cristiana, hanno demotivato gli uomini e hanno idealizzato la povertà rendendola strumento, anzi, condizione di salvezza eterna. “I poveri vanno in paradiso, passando attraverso la cruna dell’ago, mentre i ricchi ne restano fuori con tutti i loro cammelli”. Quest’idea, sentenziano oggi i nuovi sacerdoti dell’imprenditorialità vista fonte di felicità per tutti, è all’origine dell’impoverimento di massa e dell’insuperabile divisione del mondo in ricchi e poveri, in Nord e Sud.
Vengono ad essere qui chiamati in causa il Vangelo, la spiritualità cristiana e la stessa interpretazione teologica della povertà. La cosa singolare – sia notato solo di sfuggita – è che quando i sociologi e gli economisti tirano in ballo la religione non sono convincenti già per il semplice fatto che sono del tutto in contraddizione tra loro. Mentre per alcuni proprio la religione, come quella cristiano-calvinista per Weber, costituisce, a causa del suo affIato trascendente e delle sue indomabili speranze, la molla dell’imprenditorialità e dell’accumulo del capitale, per altri, dell’indirizzo di Galbraith, è fonte invece di assuefazione alla miseria, senza che ci sia una via di scampo.
E’ ancora più singolare notare, in questo caso, che sono gli stessi economisti a preoccuparsi del valore “sovversivo” della religione, fino al punto di elaborare strategie di contenimento, epurazione e liquidazione della stessa religione cristiana, quando questa viene storicamente a caratterizzarsi (vedi Terzo Mondo) come teologia e prassi di liberazione. Non è leggenda che un gruppo di studiosi e di fidati consiglieri del presidente degli Stati Uniti R. Reagan, elaborava, circa un decennio fa, un preciso piano di eliminazione della teologia della liberazione per il suo potenziale destabilizzante ed eversivo.
Più triste è il fatto che al piano del Presidente si accompagnavano strategie simili, in circoli (per fortuna ristretti e ben identificabili) di natura ecclesiale, ma con ampie simpatie per ambiti imprenditoriali e non di rado militari. Il resto è storia dei nostri giorni.
Dinnanzi ad una situazione siffatta, che aggroviglia e semplifica nello stesso tempo il problema del crescente divario tra Nord e Sud, ci chiediamo quale sia l’atteggiamento cristianamente coerente a fronte dei pregiudizi di cui sopra e in vista di una scelta di campo ben precisa, ma che diventa, ogni giorno di più, improrogabile.

 

Dal pregiudizio al giudizio sulla realtà
nella prospettiva di Dio

Ci dobbiamo limitare solo ad alcune indicazioni generali, ma non per questo generiche. La prima riguarda la penetrazione e l’estensione dei pregiudizi e dei luoghi comuni sul Nord-Sud anche tra i cristiani. Né giova a risolvere il problema una reazione di tipo pietistico-assistenziale. Se è vero che non mancano documenti ecclesiali anche molto impegnati sulla problematica, alla pastorale dei documenti deve però corrispondere una pastorale di una prassi che sia comunicativa e solidale. Giacché il problema non si risolve in modo pragmatistico, occorre sempre fondare, giustificare e motivare una simile prassi in un contesto
teologico complessivo, ma anche chiaro ed univoco. Si tratta di un contesto che metta l’agire solidale e preferenziale verso i “più poveri” (ad esempio della stessa gente del Sud nei confronti di quanti sono più svantaggiati proprio al Sud) in rapporto diretto ed immediato con la fede. Non c’é fede senza l’amore; ma non c’è amore senza effettiva solidarietà e reale condivisione.
Guardando la realtà con gli occhi di Dio, occorre rovesciare i nostri criteri di giudizio e di scelta. Accettando la logica (illogica) delle Beatitudini evangeliche, dobbiamo tutti imparare che se il Regno è primariamente per i poveri e gli oppressi, per quelli che piangono ed hanno fame, Dio sta oggi al Sud del mondo. La battuta che da noi si sente su Cristo che si è fermato ad Eboli (emblema di arretratezza e di miseria) perché proveniva dal Sud e si è fermato tra i suoi poveri, contiene una sua verità sulla quale sarà bene che tutti meditiamo. Rimane purtroppo attuale nella Chiesa di oggi il richiamo di Paolo ai Corinzi sulla inconciliabilità tra mancanza di condivisione dei beni ed eucaristia (1 Cor 11, l8ss; cfr anche 2 Cor 8,14 ed Atti 2,44-45; 4,32).
La divisione tra Nord e Sud percorre oggi trasversalmente l’intero popolo di Dio e si accentua, per quel che ne sappiamo e vediamo sotto i nostri occhi, ogni giorno di più. Cresce a livello mondiale, così come cresce a livello nazionale e permea le stesse aree del Sud. Tutto ciò ci induce a dire che non si tratta solo di un divario, che i “responsabili” dovranno colmare, prima o dopo. Al punto in cui siamo, considerando gli effetti nefasti di una situazione che è alimentata da un effettiva mancanza di solidarietà, lo squilibrio Nord-Sud appare per i credenti come peccato e struttura di peccato. E’ frutto di un dinamismo che gerarchizza la distribuzione dei beni (siano essi di natura economica, che di natura culturale e per giunta di natura religiosa) in base a quei criteri che non corrispondono alla logica di Dio, né a quella evangelica. Se la terra è di Dio (Lev 25,23; SaI 24,1; Ger 2,7; Es 3,5), l’uomo deve amministrarla con fedeltà e giustizia, rispettando le consegne del Creatore e prendendo a modello di solidarietà Colui che si è fatto solidale con noi in tutto, non disdegnando di chiamarci fratelli (Eb 2,11; 2,17).
Siamo convinti che lo squilibrio Nord-Sud è diventato ormai una struttura dove più chiaramente che altrove, si manifesta la mancanza di solidarietà e di rispetto dei diritti umani, della natura e della vita stessa, perciò effetto ed espressione di un peccato del quale dobbiamo tutti convertirci. Ciò sarà possibile nella misura in cui la nostra omiletica, la nostra pastorale e il nostro impegno, a qualunque livello, saranno indirizzati a combattere e vincere un tale stato peccaminoso e a realizzare segni nuovi di aggregazione e di collaborazione, scegliendo, se sarà necessario, sempre i più a Sud dello stesso Sud.

 

Giovanni Mazzillo


 

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