Sguardi e voci dalla stiva (3)
Sandro, mio amico prete-operaio milanese, morto lo scorso anno, i cui genitori erano emigrati da Bagnolo S. Vito, ci raccontava questa parabola moderna a cui aveva assistito in presa diretta:
“È un episodio avvenuto nella fabbrica in cui io lavoro. Tre fabbri stanno lavorando al premontaggio di un grosso componente per centrale a carbone. Un lavoro che impone condizioni di lavoro particolarmente penose. Arrivano alcuni dirigenti aziendali con una équipe di fotografi. I lavoratori, sporchi e sudati, vengono fatti uscire dal pezzo: si chiede loro di ripulire il posto da tutti gli elementi di disturbo: via scale, tiranti, mole, saldatrici, mazze, cannelli…Da ultimo vengono fatti spostare anche loro e vengono sostituiti da tre giovani indossatori, freschi e contenti, con tute nuove fiammanti. Si accendono i fari… e si fotografa la menzogna. In qualche parte del mondo qualcuno sta guardando i patinati dépliants dell’Ansaldo che reclamizzano il prodotto e ingannano il mondo sul modo di produrre”.
Come succede nelle narrazioni evangeliche, le parabole hanno la funzione di far aprire gli occhi sulla realtà mascherata e/o falsificata. Quello che qui viene occultato è il lavoro reale e duro degli operai, necessario per arrivare a confezionare il prodotto. I tre giovani indossatori aitanti offrono un’immagine dei produttori assolutamente falsa e inesistente. Il racconto possiede una forte capacità simbolica: rappresenta la sparizione dalla scena culturale e sociale della quotidianità del lavoro, della sua durezza, delle oppressioni in esso presenti e del suo contributo reale ed essenziale per il vivere comune. “Quello che sta accadendo in occidente da un quarto di secolo a questa parte è che il valore del lavoro diminuisce costantemente. Si potrebbe dire che nello scontro secolare tra lavoro e capitale in questa fase ha vinto il capitale” (Panara). Secondo questo autore la perdita di valore del lavoro è la malattia dell’occidente.
I dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro dicono che nel 1976 in Italia i redditi da lavoro ammontavano al 66,1% sul PIL per discendere nel 2016 al 53%. Contestualmente si è incrementata la quota profitti sul totale dei redditi, erodendo la parte dei redditi da lavoro. Inoltre la quota attribuita al lavoro ha subito uno spostamento interno rilevante: sono molto cresciuti quelli delle posizioni apicali e medio alte nelle grandi e medie imprese, banche e professioni, mentre si sono appiattiti quelli dei quadri e dei ruoli più bassi. Tanto che ormai la figura del working poor, del povero al lavoro, appartiene stabilmente al nostro panorama sociale. Va sottolineato che alla perdita del valore economico si accompagna l’eclissi del valore sociale, culturale e morale del lavoro, che la nostra Costituzione colloca a fondamento della Repubblica.
Sta avvenendo il contrario di quanto auspicava Dossetti, padre della Costituzione, quando affermava la necessità di una rigenerazione del lavoro, quale elemento essenziale della vita democratica. Nel pensiero di Dossetti e di altri costituenti, il lavoro va inteso non solo nel suo apparire oggettivo dell’opera e delle realizzazioni, ma nella fatica esigita, nel costo umano richiesto, nella dimensione antropologica che necessariamente il lavoro include. Quando si afferma che la Repubblica è “fondata sul lavoro”, non si parla del lavoro in astratto, ma in riferimento – è ancora Dossetti – al “principio personalistico garantito a tutti i cittadini. In ognuno la Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana e prima di tutto il diritto al lavoro“. Il prof. Mario Dogliani, riferendosi alla odierna situazione, così commenta: “queste norme costituzionali ci ricordino sempre che il lavoro è tra le attività umane quella che ha sempre bisogno di essere rigenerata, perché è quella oggetto di violenza, perché è quella di cui gli esseri umani vengono deprivati, perché è quella più facilmente calpestata, perché è quella che ha più bisogno di essere difesa”.
Occorre dire chiaro che non ci sarà mai per l’Italia una fuoruscita dal declino se non si porrà al centro la rigenerazione del lavoro. Senza questa tensione, si allargherà come conseguenza la devastazione umana e verrà a mancare un argine decisivo alla nostra comune convivenza sociale e politica nello Stato democratico.
ROBERTO FIORINI