Scritti di Carlo Carlevaris (3)


 

Uno scritto pubblicato sulla nostra rivista nell’ottobre 1997.

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Analizzare i rapporti tra Padre Pellegrino e il mondo del lavoro nella diocesi di Torino negli anni della sua missione richiederebbe competenze e tempi assai superiori a quelli possibili in questa relazione.
Mi limiterò ad affermazioni e a suggestioni che vengono a voi da una persona che le ha vissute dall’interno come prete e come operaio: come prete corresponsabile con altri del cammino in quegli anni di quella chiesa nella ricerca di contatti e proposte che miravano alla evangelizzazione di questa classe, umile parte dell’insieme del popolo di Dio, e come operaio e membro nell’azione collettiva del movimento sindacale che rappresenta e sostiene i diritti dei lavoratori.
Coinvolto a questo doppio titolo esprimo valutazioni che hanno limiti soggettivi e personali e le oggettività che la partecipazione diretta ai fatti storici consente. Ho cercato l’oggettività dai miei ricordi e da testi che hanno analizzato e conservato quel rapporto tra un vescovo, che veniva dal mondo degli studi, e una larga porzione di società che ha vissuto in quegli anni un tempo di lotte e di utopia, proprio di chi trova, nella propria esperienza di vita personale e collettiva, quel tanto di sofferenza che lo porta alla ribellione e quel tanto di speranza che lo proietta nell’utopia.
Padre Pellegrino quel giorno ci disse: “Sono un uomo di scuola e mi trovo, mio malgrado, vescovo di una città operaia”, e chiese collaborazione di ricerca e di proposte a preti che da anni avevano scelto il mondo della fabbrica, che vi avevano penato un dialogo difficile con la base e un rapporto sofferto con i vertici dell’impresa e, qualcuno di loro, con i vertici della chiesa, tanto da essere estromessi dalla fabbrica e guardati con sospetto nella propria diocesi.
C’era infatti, prima della venuta di Padre Pellegrino, una storia di due decenni di presenza di preti nella fabbrica e di tentativi di chiesa, in particolare tra i giovani lavoratori, di una attenzione particolare alla vita, alle sofferenze, alle ingiustizie, alle discriminazioni subite da una parte di questa classe operaia, responsabile di volerle contrastare in nome di una ideologia frammista ad errori ma carica di speranza e, per altri, in fedeltà ad una visione evangelica della vita che chiede giustizia e amore.
Dagli anni ‘44 in poi, i cappellani del lavoro avevano tentato di gettare un ponte tra la chiesa e il mondo della fabbrica con una presenza che era fatta di lunghe giornate all’interno degli stabilimenti: il sostare con loro alle uscite, il mangiare insieme a loro col gavettino seduti accanto ad una macchina, il raccogliere le denunce dei più politicizzati, le sofferenze dei più deboli, le speranze dei non rassegnati, le accuse alla loro chiesa che sapevano di indottrinamento ma che avevano spesso l’amaro sapore della verità.
I cappellani del lavoro esprimevano una presenza asettica sul piano politico, condizionati dalla loro missione assistenziale-religiosa, ma anche dalla loro cultura apolitica e da preconcetti che rischiavano di impedire loro di distinguere l’ideologia dall’uomo che la vive in realtà personale carica di sofferenze ma anche di speranze, a volte illusioni.
I giovani lavoratori credenti, con qualche loro prete, erano riusciti a fare una analisi più attenta e concreta e, in nome della loro fede, si erano esposti prendendo posizione in talune circostanze, scandalizzando dirigenti delle aziende e alcuni responsabili della chiesa quando si sentirono in dovere di denunciare ingiustizie, soprusi subiti dai lavoratori militanti nel sindacato, tanto da diventare essi stessi vittime delle ritorsioni dei dirigenti aziendali.
Le loro motivazioni, più che ideologiche e politiche, erano di ordine etico ed erano rivendicate in nome del Vangelo, in quegli anni duri alla FIAT, gli anni della caccia agli attivisti e ai rossi e della reazione ad ogni attività sindacale non addomesticata; in quegli anni dei trasferimenti politici, dei licenziamenti, dei reparti confino, questi giovani pagarono duramente con gli altri in azienda; e, con i loro preti, sentirono su di sé l’incomprensione e, a volte, il sospetto o la condanna di una parte della Chiesa.
Padre Pellegrino si trovò dunque in un contesto di situazioni contraddittorie talora pubbliche e partecipate, più spesso ignorate per la complicità di una stampa schierata da una parte e con scarse possibilità di informazioni per il grosso pubblico e persino per il clero.
In un’intervista (riportata dalla “Voce del Popolo”) il vescovo espresse la sua preoccupazione per la conoscenza delle situazioni di questa porzione di chiesa dicendo:

“Si tratta in primo luogo da parte di tutti coloro che sono Chiesa, vescovi, preti, religiosi, laici cattolici di procurarsi una conoscenza adeguata del mondo operaio, della sua situazione reale, della sua mentalità, della sua sensibilità”.

Questa raccomandazione si tradusse in pratica anche in modo originale. Conservo nelle mie carte il carteggio, tra un militante sindacale della FIAT e Padre Pellegrino, cominciato nell’anno 1966 e diventato un suo costante canale di informazione.
Le risposte del Padre sono spesso brevi lettere, e a volte fogliettini con poche frasi dove egli mostra un forte interesse e una viva preoccupazione.
La lettura di un dossier di lettere tra i giovani militanti in azienda e un sacerdote lo colpiscono particolarmente; scrive a un lavoratore:

“La ringrazio delle informazioni che mi comunica sopra una vicenda che mi sta particolarmente a cuore; – e finisce – il Signore ci aiuti tutti a camminare sempre per le vie della giustizia e dell’amore” (6 maggio 1968).

Ad un’altra lettera risponde tra l’altro:

“È per me una necessità conoscere la situazione reale del mondo del lavoro e lei è in grado di informarmi nella maniera più diretta e più obiettiva; sarà per me un documento utile per orientare la mia azione pastorale” (24 luglio 1969).

Un’altra lettera recita:

“Vedo le difficoltà in cui si muove chi, come lei e altri lavoratori che sento particolarmente vicini, vuol dare una testimonianza cristiana in un campo agitato da crisi profonde. Eppure è necessario continuare, con molta fiducia e coraggio a rendere presente il Vangelo con la parola e con la vita nel mondo del lavoro operando, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, per la realizzazione della giustizia, della solidarietà, lottando con forza ispirata all’amore. Proprio la complessità della situazione che lei mi presenta rende estremamente difficile prese di posizione, perciò conto sempre sul vostro aiuto per vederci chiaro a intervenire quando la mia missione lo richiede” (1971).

Ho citato questa lettera perché, a mio parere, è illuminante su tutta la condotta di Padre Pellegrino nei suoi rapporti con le vicende della classe operaia torinese. La novità è nella iniziativa di un lavoratore che vuole informare il suo vescovo perché veda chiaro la situazione reale, anche da un angolo di visuale alternativa alle informazioni ufficiali. Ma mi sembra altrettanto non abituale questo rapporto di un vescovo che cerca questa informazione diretta dalla voce operaia. Così colpisce questa sincera partecipazione alle difficili situazioni di un credente che deve saldare fede e vita e trova nel suo vescovo questa comprensione e questo incoraggiamento a lottare (notate la parola del tutto inusuale nel linguaggio ecclesiastico) con tutti gli uomini di buona volontà per la realizzazione della giustizia e della solidarietà. E ancora, questo confessare la sua personale difficoltà a prendere posizioni nella complessità delle situazioni, non per sottrarsi al suo impegno, ma per vederci chiaro e intervenire quando la sua missione lo richiede. Atteggiamenti di questo tipo mi pare ci pongano il problema se, come chiesa, abbiamo solo lezioni da impartire o se non è più corretto confrontarsi seriamente con le situazioni, magari ascoltando anche le voci insolite.
Sono queste e altre informazioni dal basso che consentono al vescovo di conoscere una realtà che normalmente giunge filtrata da interessi o da fonti padronali attraverso i loro giornali.
Alcune vicende arrivavano allora al grosso pubblico e anche oggi vengono ricordate in una verità parziale e accompagnate da interpretazioni che ne alterano l’autenticità.

La storia di quelle vicende la si trova in alcune tesi di laurea e in pochi testi che hanno scavato nelle pieghe di un tempo difficile e hanno trovato pezzi di verità che le condizioni sociali di allora e pregiudizi di dopo non hanno consentito di conoscere (cfr. Paolo Pellegrini, Domenica Bovi – Università di Torino AA.VV., “Un vescovo che ha fatto strada ai poveri”, Vallecchi).
Vorrei toccarne qui alcune per la partecipazione diretta che mi consente di darne testimonianza.
È noto che Padre Pellegrino si sia trovato a reggere una diocesi che in tempi recenti aveva sofferto di una guida provvisoria e per certi versi incerta, che aveva creduto di trovare appoggio e sostegno negli ambienti politici e industriali.
La presenza di un’azienda che concedeva larghe beneficenze alle opere caritative e pastorali aveva rischiato di legare le mani ad una conduzione che in qualche caso aveva finito col sacrificare uomini, direttive e prese di posizione in ossequio agli interessi aziendali. L’azione di alcuni preti e laici impegnati nel campo del lavoro dovette subire pesanti e ingiustificati interventi persino amaramente riconosciuti da chi li metteva in atto. Non stupisce quindi che Padre Pellegrino esprimesse il disagio di trovarsi in tale condizione, che agli occhi della classe operaia dava credito ad una immagine di chiesa che si identificava con un partito politico e che era sottomessa al padronato. Ne fa fede l’espressione da lui usata nell’intervista già citata, quando disse:

“Se l’operaio vede nella chiesa un centro di potere politico ed economico, allora sarà necessario che la chiesa si liberi sempre di più da ogni compromissione di questo genere”.

Padre Pellegrino si era reso conto che se si voleva presentare la chiesa alla classe operaia nel suo rigore evangelico, occorreva liberarsi da compromessi economici e politici. Un’occasione gli venne offerta dalla constatazione che egli stesso fece in occasione del pellegrinaggio FIAT a Lourdes nel ‘66 al quale aveva accettato di partecipare. Taluni sacerdoti e laici gli avevano fatto notare il rischio di strumentalizzazioni, ma egli volle verificare di persona la eventuale fondatezza di tali rischi.
Al ritorno dal viaggio ebbe la sgradita occasione di constatare che tale strumentalizzazione era in atto, denunciò la cosa come violazione degli accordi presi dichiarando che le attività religiose sarebbero state di totale gestione diocesana e proibiva ai sacerdoti di partecipare ai pellegrinaggi aziendali.
I suoi intendimenti non erano di rottura con la FIAT, come venne sostenuto dalla stampa interessata o da un certo ambiente cattolico, ma la rivendicazione della libertà di iniziativa religiosa della chiesa e la denuncia delle strumentalizzazioni possibili.
Anche in presenza di un intervento di un parroco che con alcuni suoi fedeli insinuava che il vescovo avrebbe ben presto fatto marcia indietro perché “contro la FIAT non c’è niente da fare”, Padre Pellegrino scriveva a questi operai che gli avevano fatto conoscere l’episodio:

“Lei e le persone che hanno parlato sono autorizzate a riferire come stanno esattamente le cose. La mia posizione nei riguardi della FIAT non è cambiata per nulla. Alieno da qualsiasi preconcetto, ho inteso e intendo mantenere, per quanto dipende da me, la libertà e l’indipendenza in tutto ciò che si riferisce all’attività religiosa nell’azienda FIAT. Non potrei assolutamente accettare l’idea attribuita a quel parroco che l’arcivescovo “deve convincersi che abbiamo bisogno di loro e che bisogna adattarsi”. La norma del mio agire, come di qualsiasi vescovo, sacerdote o cristiano, è semplicemente quella del Vangelo: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e il resto vi sarà dato in sovrappiù”.

Ho voluto citare questa lettera (di cui ho l’originale) per mostrare come il vescovo abbia saputo confermare le esigenze e le analisi cresciute lentamente, e duramente pagate, negli anni precedenti da chi era nella classe operaia. Ma anche come così egli costringesse i potenti a rendersi conto che la chiesa non intendeva concedersi come appoggio ideologico, mentre offriva a molti in classe operaia l’opportunità di rendersi conto che era possibile una chiesa che testimoniava la libertà evangelica.
Gli anni ‘66-’68 hanno segnato una svolta nell’azione pastorale della diocesi preceduta, come abbiamo accennato, dalla vivacità di minoranze attive nel mondo operaio, dalle repressioni nelle aziende, e dalle difficoltà indotte da una conduzione assai discutibile che presentava collusioni con la grande azienda. La svolta fu determinata dall’attento ascolto da parte di Padre Pellegrino delle voci che venivano dalla grande contestazione in cui era coinvolta la società ma anche la Chiesa.
Le minoranze che vivevano in modo più diretto la situazione, alcuni cappellani del lavoro, e credenti militanti nelle organizzazioni sindacali, i giovani che erano stati costretti a lasciare l’Azione Cattolica in occasione dell’allontanamento del loro assistente accomunati dall’accusa di “fare politica” anziché apostolato, e alcune forze vive in poche parrocchie della città esprimevano una forte tensione di rinnovamento che Padre Pellegrino percepì: ad esse, da anni immerse nel mondo operaio, chiese informazioni e proposte.
La loro risposta fu espressa da noi in questi termini:

“La città di Torino, le cui radici sono legate alla cultura liberal-risorgimentale, ad esperienze operaie fortemente influenzate dal marxismo, ad istanze politiche che avevano dato vita a partiti dichiaratamente anticlericali, si presentava di fatto come terra di missione soprattutto nella classe operaia organizzata o almeno influenzata da queste realtà culturali ed organizzative.
La missione richiama la necessità dell’annuncio a non credenti o a non più credenti. Occorre allora mettere i credenti e la forza viva della chiesa a servizio di questo annuncio dando la priorità all’evangelizzazione rispetto alla pastorale. Evangelizzazione era una parola relativamente nuova (eravamo accusati di francesismo) ma a noi pareva da assumere per segnare la distinzione tra un lavoro ad extra rispetto ad un impegno tradizionale ad intra.

Evangelizzare chi? Il Vangelo era chiaro e Padre Pellegrino aveva assunto come motto: Evangelizare pauperibus. Chi erano i poveri negli anni ‘60 se non gli immigrati del Sud, ospiti in una città così diversa dalla loro cultura, in un’attività che chiudeva nelle fabbriche e nel lavoro tecnico contadini bruciati dal sole, in una chiesa fredda e razionale che non rispondeva alle esperienze devozioniste delle loro parrocchie?

Evangelizzare i poveri a Torino negli anni ‘60 significava entrare in contatto con la massa operaia immigrata e con i vecchi operai della sinistra storica che formavano il tessuto produttivo delle fabbriche e la vita difficile delle periferie. La nostra proposta alla chiesa era dunque non la semplice gestione interna della struttura delle comunità esistenti, ma priorità ad una proiezione esterna che prendesse in carico l’esigenza dell’annuncio del Vangelo ad una realtà insieme più povera e più lontana dalla chiesa. Lo strumento di tale impegno era la missione operaia, come struttura organizzativa che non proponeva un impegno settoriale, come la pastorale del lavoro, ma che invece incidesse sulla globalità del piano pastorale”.

Il 18 febbraio 1967 Padre Pellegrino, che aveva accolto, non senza dubbi e stimolanti critiche; la proposta, chiese la trasformazione del “Centro Cappellani del lavoro” in “Centro di evangelizzazione del mondo del lavoro”, che richiedeva uno sforzo di insieme della chiesa attraverso tutte le sue forze (sacerdoti, laici, religiosi…) per l’annuncio di Gesù Cristo al mondo dei poveri e prioritariamente al mondo operaio. All’interno di questo Centro la “Missione operaia” non doveva essere un gruppo di esperti a servizio della pastorale di un settore, ma un gruppo di persone che collabora all’orientamento di tutta la pastorale. La scelta prioritaria del mondo operaio era giustificata dal fatto che questo popolo era massivamente più presente, cristianamente più lontano, psicologicamente più difficile, storicamente più abbandonato dalla chiesa, sociologicamente più influente, ma evangelicamente privilegiato in ragione della sua povertà.
Durante un anno di intenso lavoro del Centro, la “Missione operaia” metteva le basi e faceva le prime sperimentazioni con undici chierici teologi al lavoro di fabbrica, un piccolo gruppo di suore operaie, il recupero di ex militanti della prima esperienza della Gioc, lo studio per una scuola di teologia particolare per operai che volevano essere preti e, attraverso i chierici-operai, l’avviamento della Gioc.
La proposta della “Missione operaia” si scontrò con la realtà solidificata di larga parte del clero e venne facilmente identificata come espressione di un’ideologia più che di una istanza evangelica. I quadri dirigenti della diocesi vi scorsero un attentato alla “pastorale di insieme” che era una delle espressioni o delle raccomandazioni del Concilio.
Padre Pellegrino l’8 marzo 1968 dovette prendere atto di questa resistenza e non volle forzare in una direzione che si era reso conto non essere condivisa dai suoi collaboratori. Ebbe parole di rincrescimento per l’abbandono di quel progetto a cui aveva dato fiducia e invitò tutti a tenere presenti le istanze, le esigenze e gli elementi sociali ed ecclesiali emersi in quel breve periodo riproponendosi di verificarne l’attuazione in tempi successivi. C’è qui la prudenza e la saggezza dell’uomo di governo che non pretende di imporre la sua linea ai collaboratori, anche se questa rinuncia assume i connotati di una sconfitta, anche se impone sofferenze e delusione in chi con lui aveva creduto ed elaborato il progetto. Ma è anche la fiducia che, se la scelta era in sé giusta, le situazioni lo verificheranno e torneranno a riproporla nel futuro.

Di fatto coloro che avevano iniziato quel cammino e credevano in quella strada, lo proseguirono con una denominazione diversa, “Progetto Comune”, al di fuori della istituzione ufficiale.
Se la chiesa torinese non aveva accettato di lasciarsi sedurre da quella impostazione programmatica, non mancava lo spazio nel mondo operaio e popolare per proporre quel cammino.
Da quel gruppo nacquero i preti-operai, si sviluppò la Gioc che si aprì a livello nazionale, alcune fraternità religiose si strutturarono in impegni di base e di quartiere. Alcuni di loro furono i promotori del documento da cui nacque la Camminare Insieme. ln tale documento infatti venivano riprese, dopo anni, le analisi e le proposte più significative della Missione operaia.
Nella genesi della Camminare lnsieme è ben evidente la linea programmatica della pastorale di Padre Pellegrino. La lettera non nasceva per iniziativa del vescovo ma era richiesta dalla base; non nasceva da preoccupazioni teologiche astratte, ma voleva essere risposta a tensioni e a situazioni concrete; non calava dall’alto ma era stata preceduta da oltre un anno di dibattito creativo e dialettico. Nel caso di questo documento magisteriale, un vescovo prima di essere “maestro” si era messo in paziente e serio ascolto della sua chiesa, senza che questo significasse rinuncia al suo ruolo, ma anche senza interpretarlo in modo notarile e autoritario.
L’azione istituzionale sul mondo del lavoro era proseguita con la denominazione “Pastorale del mondo del lavoro” che ha portato avanti per anni l’impegno della chiesa verso il mondo del lavoro con una impostazione di tipo settoriale ed interclassista ricalcando l’impostazione che aveva preceduto l’esperienza della Missione operaia.
L’atteggiamento di Padre Pellegrino non ebbe mai caratteristiche di neutralità, ma richiamò sempre una positiva capacità critica di discernimento dei valori che egli richiamava rifacendosi alle lettere paoline:

“Esaminate ogni cosa: tenete ciò che è buono, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, tutto quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri”.

Sarebbe molto interessante citare numerosi episodi, anche vissuti da me in prima persona, che dimostrano questo suo collocarsi all’interno delle situazioni o meglio all’interno delle sofferenze dei deboli.
Potrei citare l’episodio della sua presenza alla tenda a Porta Nuova che meritò a Padre Pellegrino la denominazione di vescovo rosso. Mi trovai allora ad essere io stesso a proporla all’Esecutivo provinciale della FLM in alternativa di una proposta che voleva una Messa come equivoco strumento di richiamo dell’opinione pubblica. Il mio rifiuto a votarla, che aveva destato un forte stupore, aveva dato luogo invece all’iniziativa di una presenza discreta, ma ugualmente autorevole, del vescovo, che non venne a compiere un atto di culto, ma a esprimere la sua solidarietà e l’invito alle parti di un franco e risolutivo colloquio. A questo titolo Padre Pellegrino aveva accettato di intervenire.
Così come, in occasione di un altro intervento televisivo, l’accettazione da parte sua della nostra proposta ad esprimere il rammarico dei ritardi della chiesa in merito ai problemi della classe operaia e la richiesta di perdono espressa da un vescovo, sull’esempio di un atteggiamento analogo assunto qualche mese prima da Paolo VI nei confronti dei fratelli separati.
E ancora la presenza nella soffitta di casa mia di Padre Pellegrino a cena con alcuni miei compagni di lavoro, attivisti del partito comunista membri della Commissione interna, che poi si chiedevano se quello era un vero vescovo, come di me, prima, si erano chiesti se ero un vero prete.

Quanto ho qui detto (e ringrazio chi mi ha dato occasione di poterlo fare come testimonianza di verità e di gratitudine) è solo un tratto del volto poliedrico di Padre Pellegrino.
Noi che abbiamo vissuto quel periodo nel quale siamo stati profondamente coinvolti, ringraziamo il Signore che ha posto sulla nostra strada un uomo come Padre Pellegrino, padre e fratello nella fede, nel coraggio e nella speranza, nel cammino della società e della chiesa.

CARLO CARLEVARIS

CFR. PRETIOPERAI N.39 / OTTOBRE 1997


 

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