Handicap


 

La rivendicazione dei diritti civili e sociali per chi ne era privo, è stata la costante preoccupazione delle sue azioni. Ha cominciato negli anni ‘60, rivendicando i diritti delle persone disabili. Erano tempi in cui la Costituzione non esisteva per le persone colpite da handicap grave: niente scuola; niente insegnanti di sostegno, niente libertà di movimento, niente assistenza personale per la vita indipendente. C’erano, al posto delle istituzioni pubbliche, le associazioni di volontari e qualche anima buona. Bruno cominciò a frequentare l’AIAS, una delle prime associazioni di tetraplegici. In poco tempo la sua casa nella parrocchia di Quintole si riempì di disabili gravi e di carrozzine. L’aria di Quintole in quegli anni non era quella di un luogo di intrattenimento o di svago; si discuteva dell’esercizio dei diritti fondamentali, si elaboravano le forme di lotta più opportune, si respingeva ogni tentazione di ricorrere alle raccomandazioni o alla condiscendenza di chi aveva il potere. Per quanto si trattasse di cose per me del tutto nuove, Bruno trovava naturale che io mi occupassi degli aspetti giuridici delle varie questioni sulla disabilità. Non ero un giurista? E dunque che dicessi come si fa a rivendicare i diritti essenziali delle persone e come si fa ad avere ragione dopo avere subito un sopruso o un’ingiustizia.
Ma vicino all’educazione instancabile alla consapevolezza dei propri diritti e alla lotta per affermarli, Bruno svolgeva anche un’attività di sostegno e di solidarietà piena di partecipazione e delicatezza. Arrivò perfino ad attrezzare la sua casa con uno speciale ascensore perché potesse abitarci un disabile in carrozzella con la sua famiglia. E ricordo ancora la lotta con la Curia per assicurare quella casa ai disabili, anche dopo la sua partenza da Quintole. Pretendeva che la Curia s’impegnasse (con atto scritto, naturalmente) a destinare la casa ai disabili che lui avrebbe indicato. E per quanto, come si può immaginare, non godesse di molte simpatie in Curia, riuscì a strappare l’impegno.
Proprio questa capacità di dedicarsi ai bisogni apparentemente materiali del prossimo, quest’ansia di lottare con i più sfortunati per liberarli dall’oppressione e dallo sfruttamento lo rendeva molto diverso da altri preti della sua generazione. Bruno non è mai stato quello che si definisce un “pastore d’anime”. Non che non gli importasse dell’anima, ma pensava che l’anima degli uomini si ritrova solo se si liberano dalla tortura, dalla fame, dal carcere e dal bisogno. E che non si potesse parlare dell’anima e del cielo a chi è oppresso e prigioniero dei bisogni fondamentali su questa terra.

 

Beniamino Deidda


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