E ancora ricordando…
Non è facile parlare di don Renato Pipino, per la ricchezza ma anche per la discrezione della sua vita. Tanto più non è facile per me, che gli sono stato così vicino a lungo e che so quanto non avrebbe voluto si parlasse di lui!
Quando arrivai ad Ivrea, nel gennaio del 1967, don Renato, era tornato di recente da Roma (alunno del Seminario Lombardo, dove certo l’avevo visto in qualche mio passaggio: ma allora uno studente di Ivrea non mi interessava!), dove s’era specializzato in teologia morale, che ora insegnava nel seminario teologico locale dopo la morte inaspettata dell’antico insegnante. Era vicerettore del seminario ma, secondo lo spirito del rinnovamento conciliare, si era inserito in una piccola comunità sacerdotale che il mio antecessore aveva sollecitamente aperto in una parrocchia del centro cittadino, con alcuni superiori del seminario diocesano. Lo scelsi come segretario al posto del vecchio Canonico, divenuto Sacrista della Cattedrale; ma il servizio durò poco perché nell’autunno si aprì a Vercelli il seminario interdiocesano programmato dall’Arcivescovo mons. Mensa (appena trasferitosi da Ivrea) per le Diocesi di Vercelli, Ivrea, Casale Monferrato.
A Ivrea c’era il liceo (dove per la partenza di don Giachetti, chiamato a Roma per l’Assistenza al mondo del lavoro, ripresi per qualche tempo l’insegnamento della filosofia e della storia della filosofia), mentre la teologia era a Vercelli, dove don Renato fu chiamato ad insegnare teologia morale: era molto competente, molto aggiornato, molto autorevole e molto amato. Intanto aveva preso alloggio a Ivrea, nella parrocchia periferica di Banchette, che era un po’ la parrocchia del rinnovamento e delle nuove esperienze, con la presenza di preti-operai. E quando nel 1972 si lasciò Vercelli per Torino, dove il corpo insegnante era già al completo, don Pipino ottenne di divenire anche lui prete-operaio. Se ben ricordo fece esperienza all’Alcan di Borgofranco, industria dell’alluminio, passando poi ad un mulino di Montalto Dora (dove veniva deriso e tiranneggiato per la sua condizione di prete), finendo poi alla Wierer, industria di tegole (anche lì contestato come prete).
La morte del Parroco di Banchette creò problemi nella comunità, e don Renato chiese ospitalità ad una nuova comunità che i Carmelitani della Provincia piemontese-lombarda-emiliana avevano aperto sulla collina (erano i tempi in cui, per tentare qualcosa di nuovo, ci si rifugiava a Ivrea). La comunità, formata da cinque Carmelitani – alcuni nel lavoro esterno, altri nel territorio agricolo circostante – era aperta anche all’accoglienza di persone a disagio, di carcerati in uscita o in sosta provvisoria, di ex-drogati, e comunque di persone a rischio, tanto che affidai al superiore anche l’assistenza nel carcere cittadino.
Don Renato curava l’orto e la falegnameria (proveniva da una famiglia di mobilieri) e faceva rare puntate nella vita diocesana (l’avevo inserito d’autorità nel Consiglio pastorale diocesano perché vi fosse almeno un operaio!). Questo lo portava a vivere concretamente la povertà, come stile di vita e come solidarietà alla parte dell’umanità più in difficoltà.
Aveva colto il senso della parola di Gesù che aveva dichiarato “beati” (cioè al centro di perfezione dell’umanità) i “poveri” proprio “nello spirito” (cioè nella convinzione profonda che orienta tutta la vita). Era quindi molto convinto che la vera evangelizzazione – quindi tanto più la cosiddetta nuova evangelizzazione – parte da un maggior amore, da parte della Chiesa e dei singoli cristiani, alla povertà; non alla miseria, ma alla semplicità, al rifiuto di uno stile di vita tutto teso alla ricchezza ed al potere, creando miseria ed emarginazione. Per questo aveva fatto la scelta del lavoro, come esperienza di vita e come solidarietà alla gente comune e si era inserito prima nella parrocchia più “popolare”, poi in una comunità religiosa di vita molto semplice ed impegnata nell’accoglienza dei più poveri e più disagiati.
Negli anni ’90 gli chiesi di darmi una mano in segreteria, data la sua esperienza locale (il primo segretario era un ex-missionario), e per aiutare la sua comunità con l’otto per mille (lui non voleva entrarvi, ma gli avevo spiegato che i soldi che gli davano provenivano dalla parte dei contributi volontari!), e quando arrivò il nuovo vescovo (di origine locale e don Renato era stato suo prefetto in seminario), non gli parve vero di lasciare all’ex-missionario la segreteria del nuovo vescovo per venire a fare il mio segretario, salvandosi così da qualunque altro incarico gli si volesse dare (il vescovo provò a nominarlo cappellano del carcere, incarico presto lasciato perché don Renato si alleava più con i carcerati che con la direzione o gli assistenti carcerari).
Recitava le Lodi con la sua comunità, poi scendeva dalla collina, passava dal vescovado per eventuale corrispondenza diretta a me, comprava i giornali, ed arrivava al Castello di Albiano (7 Km da Ivrea, 16 dalla sua comunità), antica residenza estiva del vescovo, dove da tempo avevo accolto una comunità di famiglie aperte al terzo mondo (per il lavoro e per l’accoglienza). Svolgeva accuratamente il suo lavoro (aveva imparato anche tutti i segreti del computer e di internet) e alle 11,45 ripartiva, per pranzare in fraternità (in quasi tredici anni s’è fermato a pranzo da me una sola volta).
È stato un segretario eccezionale: intelligente, efficiente, estremamente discreto. Ha scritto tutti i miei ultimi libri, ma non c’era verso di ricavarne un giudizio (forse anche perché sarebbe stato severo, ritenendomi un po’ troppo diplomatico). Ma quando gli chiedevo esplicitamente giudizi morali o valutazioni sulla Chiesa, allora era molto preciso e drastico, risalendo al Vangelo, ai principi fondamentali della dottrina e della vita della Chiesa, manifestando la sua fede profonda e sincera ed il suo amore all’umanità e ad una Chiesa al servizio dell’umanità.
A qualcuno faceva problema che non celebrasse l’Eucarestia ogni giorno; ma celebrava se c’era gente ed era disponibile a celebrare anche più di una Messa alla domenica quand’era richiesto, e alle sue Messe in periferia veniva anche gente di lontano per sentire le sue omelie così fedeli alla Parola di Dio e così inserite nel concreto della storia.
Si sapeva che soffriva per artrite, che avrebbe dovuto sottoporsi ad un’operazione. Noi insistevamo che, tra un intervento minore ed uno maggiore, preferisse questo, ormai che lo faceva. Lui invece ne temeva i rischi, temeva di dover finire in carrozzella; e aveva chiesto al Signore di chiamarlo a sé, ma nella sua comunità e senza dar fastidio agli altri. Aveva confidato alla signora delle pulizie, che aveva male all’esofago, e lo ripeté rientrando in comunità, rifiutandosi di mangiare e salendo in camera.
Andarono a vedere dopo un’ora, sembrava che dormisse, invece era morto, stroncato dall’infarto che si era portato dietro da alcuni giorni. Il funerale ha confermato chi era don Renato: accanto ai vescovi, ai sacerdoti, ai membri della Fraternità ed ai Carmelitani convenuti in massa, c’era tanta gente, di ogni tipo e di ogni categoria, che piangeva chi li aveva ascoltati, capiti, aiutati sempre fraternamente.
Ho il rimpianto di non averlo utilizzato di più, di non aver condiviso la sua sapienza, così profonda ed essenziale, e la sua spiritualità, così forte e sicura. Ma il ricordo della sua amicizia (qualcuno dice della sua venerazione nei miei confronti), del suo mettere la sua testa ed il suo cuore – così ricchi, così esemplari – sempre al servizio degli altri (di me e di tutti), con assoluta attenzione ed insieme con estrema discrezione, restano nel mio profondo e mi accompagneranno per sempre.
Luigi Bettazzi vescovo

La Fraternità di Lessolo con mons. Bettazzi