Il Vangelo nel tempo (1)
Come lettori delle Scritture, siamo abituati al sipario che si apre sulla scena della miseria. La crisi caratterizza la fede d’Israele fin da subito. Del resto, l’idea stessa di salvezza non sarebbe nemmeno sorta, se non a fronte di una condizione negativa.
Ma questa lunga consuetudine con lo scenario della crisi rischia di farci perdere i tratti singolari del nostro presente, in cui è divenuta problematica la stessa sopravvivenza della vita sulla terra.
In realtà, anche un simile grido d’allarme non suona nuovo ai nostri orecchi, raggiunti dalle voci apocalittiche delle Scritture – che, per quanto contenute, non mancano di visioni della catastrofe. Anche i giudizi storici, che non si vogliono visionari ma critici, non disdegnano di pervenire a conclusioni catastrofiche, rispetto alle quali sorge il sospetto di un’enfasi generazionale, sulla bocca di chi ritiene che dopo di sé c’è solo il diluvio a mettere fine alla storia.
Come si giunge a discernere tra un catastrofismo incontrollato, a più riprese reiterato lungo i secoli, e la presa di consapevolezza di una differenza del momento presente, che ci vede veramente sull’orlo del baratro? E’ possibile distinguere un’apocalittica ideologica da un quadro della situazione, offerto dalle scienze? E se sì, perché i dati offerti non risultano decisivi, lasciando aperto il conflitto delle interpretazioni? E se quest’ultimo è inevitabile, come ci si muove in modo da non essere tacciati di allarmismo? (dove, naturalmente, non è il giudizio altrui su di noi ad essere preoccupante, ma il fatto che un simile giudizio esime chi lo formula dall’assumere il problema come urgente). Forse, non se ne esce da un simile intrico di domande. Forse, bisogna solo metterle in conto e, magari, anche usarle per guadagnare una maggior consapevolezza critica sul problema. Forse, si può solo provare a battere quella strada che ai nostri occhi appare obbligatoria, anche se per molti non lo è affatto. E da lì, provare a pensare quale possa essere il discorso più convincente, provando e riprovando, con l’astuzia dei serpenti e la semplicità delle colombe.
E dunque, come esprimere lo scenario attuale, in modo che non risulti l’ennesima variazione sul tema della crisi (al lupo, al lupo!), ma sia in grado di mostrare la sua differenza? Personalmente, proverei a dire così: oggi, noi siamo “nella” fine. L’uso di questa preposizione è ricco di molte implicazioni. Innanzitutto, dice l’essere dentro una situazione e non di fronte. La fine non è l’esito futuro di un agire irresponsabile. La fine è già ora, nel presente che viviamo. Una situazione paradossale: come può la fine giungere prima che tutto finisca? Forse, però, la percezione del paradosso sorge a motivo di una certa visione della fine, intesa come momento puntuale, quando si chiude il sipario e si spengono le luci. Una visione puntiforme che caratterizza il nostro pensare sia il negativo che il positivo, la catastrofe come la salvezza. Un paradigma dell’istante, che ci rende ciechi fino all’attimo prima. Si può problematizzare questo paradigma, in una società, di fatto, appiattita sull’immediato?
A fronte di questa difficoltà culturale, la preposizione usata indica una risorsa possibile: se siamo nella fine, essa mostra già i segni della sua presenza. I cambiamenti climatici sono già in atto. Ma, allo stesso tempo, quella preposizione dice anche che anche il nostro agire è un agire della fine, condizionato da ciò che è stato irrimediabilmente posto in essere. Che le grandi speranze devono lasciare il posto ad un pensiero della sopravvivenza, o se non altro alla rimodulazione degli obiettivi che faccia i conti con lo scenario critico già installato nel teatro cosmico. Il copione precedente non funziona. O lo riscriviamo o lo sostituiamo.
E vengo qui a quella sapienza delle Scritture, a cui abbiamo attinto fin’ora. Di quel grande racconto, in questo nostro essere nella fine, cosa muore, cosa resta e cosa nasce?
Vorrei avanzare delle intuizioni da discutere, rispondendo alle tre domande sopra accennate.
Cosa muore: se non lo sono state precedentemente, ora devono definitivamente morire quelle letture del racconto biblico della creazione di tipo “rassicurante”, per le quali il cosmo, nell’ordine stabilito da Dio, è posto una volta per tutte; ed è affidato al dominio dell’essere umano, senza porre limiti all’uso. Dicendo che questa lettura deve essere abbandonata, senza per questo scartare il racconto biblico, si dice che quella è una cattiva interpretazione, che non fa giustizia della narrazione. E nello stesso tempo, si dice che una tale lettura, di fatto, è stata e continua ad essere prodotta, che c’è stato un uso anti-cosmico delle Scritture ebraico-cristiane. Lo stesso discorso vale per una lettura “letteralista”, giocata in chiave anti-scientifica (creazionismo contro darwinismo). O per una lettura “da anime belle”, incapaci di coniugare lo stupore con il terrore (che, invece, è l’altra faccia della medaglia, correlativa ad un rapporto con il cosmo vissuto in termini di responsabilità). Deve venir meno anche quel tipo di lettura incapace di reggere l’urto di una storia mobile, differenziata. Cosa significa quel “crescete, moltiplicatevi e riempite la terra”, oggi, quando la terra è già piena? E gli inviti al dominio da parte dell’essere umano, ora che ne vediamo gli effetti devastanti?
Dire che queste letture devono morire, lascia impregiudicata la questione di come celebrarne il funerale. Sappiamo bene come la complessità favorisca, come reazione difensiva, un bisogno di certezze, un pensiero della semplificazione, che riedita vecchie letture, che ritenevamo rottamate. A volte, i morti ritornano!
Cosa resta: a mio giudizio, resta molto di quel racconto che, pure, è visto da alcuni come alla radice della catastrofe cosmica in cui siamo. Resta l’idea (Gen. 1,2) di un ordine precario, faticosamente conquistato a fronte di una terra informe e vuota, un abisso ricoperto di tenebra e spazzato da un vento impetuoso (che viene tradotto perlopiù come spirito di Dio!). Il linguaggio mitico con cui si descrive la scena originaria esprime bene quel caos iniziale in cui il cosmo può sempre ripiombare. E se non bastasse quell’indicazione da cui prende avvio il discorso, il seguito del racconto lo mostra cospicuamente, in particolare nel racconto del diluvio. Ma non intendo qui fare una lettura di Genesi 1-11. Piuttosto, può aiutare precisare il senso di quei capitoli, che non sono la narrazione della preistoria (la storia, poi, prenderà avvio con Abramo). Essi sono l’introduzione a tutte le Scritture ebraico-cristiane. Quasi l’indice (assente nei testi antichi), Lì sono fornite le chiavi di lettura necessarie per comprendere il seguito del racconto. Quanto il pensiero ebraico esprime con un’immagine temporale – “in principio” – andrà correttamente tradotto nelle nostre lingue con un’immagine spaziale: “in profondità”. Con linguaggio mitico-sapienziale, il narratore prova a dire cosa ci sia al fondo di tutto, dell’esperienza umana nel cosmo, in compagnia con tutti i viventi. Ed il lettore dovrà verificare, inoltrandosi nel racconto, quanto quelle chiavi di lettura fornite in sede di introduzione possano reggere all’urto delle vicende, nel gioco dei diversi punti di vista. Questo, sulla base di una precisa ermeneutica del Libro, ovvero quella che vede la Bibbia come una discussione: non una serie di affermazioni (dogmi) giustapposte ma un dialogo dialettico tra i diversi libri. Che osano riscrivere più volte lo “sta scritto”. Non solo l’evento fondatore del popolo d’Israele, ovvero l’esodo (riscritto da Isaia, dai salmisti, da Gesù…); persino quell’ “a parte”, costituito dall’introduzione generale al Libro (Gen 1-11), viene riscritto dai profeti e da Giobbe, dall’apostolo Paolo e dal libro dell’Apocalisse.
Di qui il senso della terza domanda: cosa nasce? Perché se il Libro è sigillato – il canone è chiuso – una volta finito il racconto, non finisce il lavoro del lettore. Chiamato, a sua volta, a discutere e riscrivere le Scritture. A rimodulare la sapienza antica per il proprio tempo. Come uno scriba/interprete, che va al Libro non per erudizione ma per attingervi l’arte del governo della casa: «Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie». (Mt 13,52).
Quale nascita dobbiamo favorire? Quella di una sapienza inclusiva, cosmica, di un’ecologia integrale. Riscrivendo, grazie alle acquisizioni scientifiche, il venire al mondo del mondo. Recuperando il senso di quei sei giorni che precedono la comparsa dell’essere umano. Evidenziando la logica del racconto di Genesi 1-11, ovvero quello sguardo critico e dialettico che coniuga stupore e allarme e scorge l’andamento della creazione, della de-creazione e della ri-creazione (J. Blenkinsopp).
Se la Bibbia è un testo plurale, che sorge dalla discussione e dalla riscrittura, allora, per fedeltà ad essa, dovremmo far nascere un linguaggio nuovo (come era quello di Gen 1-11, a fronte della lingua particolare della Torà); comprensibile in un orizzonte cosmico, più ampio rispetto a certe ristrettezze antropocentriche; in grado di discernere la sfida storica nella quale siamo (drammaticamente) posti.
Una seconda edizione delle Scritture? Se non altro, una traduzione in lingua corrente, per noi, che viviamo nella fine, e che necessitiamo di una sapienza che regga alla miseria cosmica di questo nostro tempo.