La prima relazione



CON QUALE CRISTIANESIMO

Convegno nazionale / 18 sett. 2021 / Bergamo

Le parole di E. Balducci tratte da L’uomo planetario, che hanno introdotto la convocazione di questo convegno, per quanto siano il frutto di una stagione diversa dalla nostra, ma dalla quale sappiamo bene di provenire, ci aiutano a focalizzare meglio la questione inaggirabile: che ne sarà del cristianesimo (e del cattolicesimo) nel nostro futuro comune? Dopo la II guerra mondiale nulla poteva essere come prima. Questa coscienza non fu immediata: nei primi anni dopo la guerra; la Chiesa si illuse anche di poter tornare “agli anni trenta”. Ma la migliore riflessione ecclesiale – la stessa che portò nel 59-62 alla concezione, progettazione e apertura del Concilio Vaticano II – doveva necessariamente essere una lettura radicale. Una forma di questa radicalità evangelica fu la scelta di “mutare sistema di sostentamento, di formazione e di vita del clero”. Il fenomeno del “prete operaio” costituisce, nella sua immediatezza, una delle prove più lampanti di un “cambio di paradigma” rispetto all’ancien régime. Proprio su questo io vorrei soffermarmi oggi, qui con voi: su come la spinta che i “preti operai” dettero alla Chiesa, fin dagli anni ‘40 del ‘900, ripresa poi dal Concilio in forma ecumenica e pastorale, sia rimasta – spesso sottotraccia – come una delle scintille più luminose in cui si è espresso il “cambio di paradigma” di cui oggi parla apertamente anche (o forse solo) papa Francesco. Ma che cosa sta in mezzo a tutto ciò? Proviamo ad individuare le linee fondamentali di una trasformazione di cui i preti operai sono stati e sono ancora, sebbene in modo più defilato, traccia di provocazione, forma visibile e profezia.

0. Premessa: le azioni e le autorizzazioni di una visione distorta

Quanto a ciò che viene chiamato cattolicesimo, vocabolo apparso se non erro nel 16 secolo, con esso si intende il sistema artificiale, creato dalla Controriforma, indurito dalla repressione brutale del Modernismo, esso può anche morire. Vi sono persino forti probabilità che esso sia già morto, benché ancora non ce ne accorgiamo. (L. Bouyer) Una emergenza drammatica viene oggi assunta persino a livello di magistero papale: Evangelii Gaudium (2013) è una sorta di assunzione formale e solenne di questa prospettiva. “Chiesa in uscita” ne è la traduzione più facile, “uscita dalla autoreferenzialità” è la versione più compiuta. Perché, dobbiamo dirlo apertamente, una chiesa autoreferenziale è una contraddizione in termini: una Chiesa che non dice Cristo come vero Dio e come vero uomo, ma solo se stessa, è una chiesa falsa o forse solo una Chiesa morta e che non sa di esserlo. La prima avvertenza da maturare, nel cristianesimo del futuro, riguarda esattamente questo punto: mentre “Chiesa in uscita” può essere lo slogan di una nuova retorica ecclesiale, che non cambia nulla di ciò che ha ricevuto dall’ultimo secolo, la formula “uscita dalla autoreferenzialità”, ossia una Chiesa che non è protagonista della “propria uscita”, ma che permette a Cristo di uscire, che non lo tiene segregato in sacrestia, questo è il vero centro del papato di Francesco e della sua profezia. Ma questo richiede non slogan, ma un duro lavoro di ripensamento e di riforma, mentale e strutturale, dei cuori e delle forme di vita. Su questo vorrei brevemente soffermarmi con alcune osservazioni che ritengo di qualche importanza.

1. Il travaglio ecclesiale in una rappresentazione icastica

Il P. H. Legrand ha di recente proposto una bella sintesi [1] di “ripensamenti” delle forme di servizio e di vita ecclesiali, come possibile contenuto di un prossimo sinodo. Come è evidente, si tratta di un ripensamento ambizioso del ministero ordinato, che va in un certo senso, nella linea aperta, 80 anni fa, dalla esperienza dei preti operai. In una sintesi veloce la sua lettura può essere riassunta in 4 proposizioni significative:

  • che il clero non abbia in sé tutto il potere
  • che la chiamata al ministero non debba seguire una sola via
  • che il potere del prete sia solo servizio all’unico sacerdozio di Cristo
  • che la fraternità cristiana debba superare la subordinazione della donna all’uomo.

Provo a svolgere brevemente ognuno di questi punti: a) La reazione della Chiesa alla esplosione della libertà nel mondo tardo-moderno ha determinato una teoria della concentrazione del potere nelle mani del papa e del clero. Ma questo non è affatto tradizionale. E’ uno sviluppo tardo-moderno che legittimamente può essere modificato senza perciò cadere in una “discontinuità”. Leggere in parallelo ciò che diceva Leone XIII a fine 1800 e le parole del Vaticano II, a poco più di 60 anni dopo mostra bene il cambio di paradigma in gioco. Il raffronto tra “prima” e “poi”, condotto nella trama del XX secolo, permette una considerazione che risveglia la coscienza e rimotiva la azione. b) Nel campo della chiamata al ministero una indagine accurata della storia permette di notare come, anche qui, la accelerazione degli ultimi decenni tende ad imporre un immaginario capovolto: al primato della “ordinazione per costrizione” subentra la nullità della costrizione nella ordinazione. Al primato della Chiesa si sostituisce il primato del soggetto. Con conseguenze non piccole sul modo di concepire il potere della Chiesa in rapporto a quello del prete. c) La comprensione del potere sacro sta in un delicatissimo equilibrio tra “rappresentanza di Cristo” e “perdita di potere”. Ad una Chiesa delle “tre cose bianche” (Beata Semprevergine Maria, Santo Padre e Santissimo Sacramento) subentra una comunità in cui essere ministri è compiere un servizio a Cristo e alla Chiesa: ci si concentra meno sulla “identità sacerdotale” del singolo soggetto incaricato e di più sul “sacerdozio di Cristo e della Chiesa” che il ministro deve servire. d) Infine, la faticosa uscita dalla strutturale subordinazione della donna e il recupero della fondamentale eguaglianza costituisce una acquisizione preziosa della “fraternità/sororità” operata dal Vangelo nella vita degli umani: questo vale non solo per il mondo, ma anche per la istituzione ecclesiale3. Restituire alle donne la parola e riconoscere la loro autorità è un percorso di trasformazione culturale ed istituzionale in cui non è il Vangelo a cambiare, ma siamo noi ad iniziare a comprenderlo meglio, secondo la nota espressione attribuita a Giovanni XXIII in punto di morte.

2. Una profezia realizzata: riforma liturgica e l’esercizio della autorità

Questi orizzonti di profondo aggiornamento dello stile ecclesiale riposano su un progetto conciliare di riforma che ha già avuto il suo versante effettivo: ossia, non dobbiamo iniziazione noi a riformare la Chiesa, visto che già da 60 anni il lavoro di riforma sul piano liturgico è stato inaugurato con grande respiro e profonda competenza. Se osserviamo bene, infatti, scopriamo che oggi, di fronte alle prospettive di un Sinodo, siamo di fronte al rinnovarsi di una esperienza che nel Concilio Vaticano II ha avuto, sul piano liturgico, la sua realizzazione più diretta e immediata. Con la riforma liturgica la Chiesa si è riconosciuta la autorità di quella “indole pastorale” con cui il Concilio aveva distinto la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e la formulazione del suo rivestimento. Una nuova formulazione della tradizione rituale non era “contro” la tradizione, ma anzi permetteva alla sostanza della antica dottrina di tornare ad essere “nutriente”. Questo è avvenuto subito, nella seconda metà degli anni 60 e lungo gli anni 70. Alla fine dei quali è accaduto qualcosa che dobbiamo cercare di comprendere meglio. Perché abbiamo disimparato a riconoscerci la autorità – ecclesialmente – di fare diversamente dai nostri precedessori del XIX secolo?

3. Il “dispositivo di blocco” e la paura dell’avvenire

Lo sviluppo di una reazione allo spirito conciliare di riforma della Chiesa è avvenuto alla fine degli anni 70. Con la chiamata di Joseph Ratzinger a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, da parte di Giovanni Paolo II, inizia una fase in cui ogni tentativo di “tradurre la tradizione” viene percepito come pericoloso: ma insieme alla paura si sviluppa la arroganza. E inizia una lunga campagna di discredito del Concilio, fino al suo congelamento (1980-2013). Nasce quello che si può chiamare “dispositivo di blocco” [2], che opera in modo assolutamente drastico all’interno della Chiesa, mentre conosce qualche eccezione all’esterno (ad es. sui temi della pace e del dialogo interreligioso). E’ interessante analizzare come funzione il dispositivo, perché ha una caratteristica “ironica” non trascurabile. Si presenta, infatti, come una “perdita di potere”, che non si riconosce la autorità per intervenire nella modificazione di ciò che è stato stabilito dalla tradizione: così il sesso degli ordinandi, il ministro della unzione dei malati, la autorità del diacono o la lingua della liturgia risultano tutti temi su cui il blocco è assicurato, perché allo “status quo” non solo non può, ma non deve essere prevista alcuna alternativa. Si conserva tutto il potere argomentando di non avere alcun potere. Lo schema della argomentazione è un sillogismo tipico delle forme argomentative di J. Ratzinger, che hanno costellato gli ultimi 40 anni di formule logiche sempre modellato su questo paradigma [3]. L’ultima, forse la più deleteria, è stata usata nel modo più sguaiato contro la “riforma liturgica”, sostenendo che la riforma, per quanto fosse legittima, non poteva sostituirsi ai riti precedenti, che restavano – come straordinari – accanto ai nuovi riti ordinari. E la argomentazione portante era: “ciò che per le generazioni precedenti è stato sacro, non può essere né abrogato né ritenuto dannoso dalle generazioni successive”. Che è un modo di squalificare all’infinito ogni possibile riforma della Chiesa, facendo passare un “luogo comune” come argomentazione teologica.

4. Nuove evidenze e mancanza di mediazioni dottrinali e disciplinari

Vorrei ora offrire tre esempi semplici di questa modalità di argomentazione fallace, che contrasta con la esigenza di un cammino della tradizione. E’ confortante che su questo piano il pontificato di Francesco abbia iniziato, in modo differenziato e non uniforme, ma comunque con una certa efficacia, una azione di “sblocco”. Che risulta molto forte e determinata sul primo punto, più cauta ed sfumata sul secondo e sul terzo. 4.1. La lingua e la riforma liturgica (liturgia, cultura e vita) Il “blocco”, disposto a partire dagli anni ‘80, ha voluto e dovuto fermare l’unica riforma che si sia veramente compiuta dopo il Concilio: ossia la riforma liturgica. Questo è diventato sempre più evidente, anzitutto con Liturgiam autenticam (2001), che come Istruzione per la attuazione della riforma liturgica è suonata subito del tutto paradossale: confidare soltanto sulla lingua latina e considerare le lingue parlate dal popolo solo come “lingue di traduzione” è un modo di riportare indietro di 50 anni la storia ecclesiale, di cui gli inglesi hanno fatto esperienza in inglese, i francesi in francese, i tedeschi in tedesco, non in latino [4]! Ancora più grave è stato il tentativo di rendere “opzionale” la Riforma, restituendo una parvenza di “vigenza” ai riti che la Riforma aveva intenzionalmente modificato, emendato e sostituito. Per fortuna, proprio su questo piano delicatissimo della evidenza simbolica della fede, papa Francesco è intervenuto con molta chiarezza prima con il MP Magnum Principium (2017) e poi con il MP Traditionis custodes (2021). E’ stato molto triste vedere grandi teologi e grandi pastori difendere le logiche distorte dei due documenti precedenti, senza coraggio e senza passione, addirittura auspicando irresponsabilmente che la formazione dei seminaristi potesse avvenire su entrambe sul rito riformato e su quello precedente. 4.2. L’autorità femminile (le questioni di genere nel ministero) Più difficile è uscire dal blocco che Ordinatio sacerdotalis ha posto alla possibilità di una qualsiasi ordinazione delle donne. Lo spiraglio che si è aperto, con la costituzione di una Commissione che studiasse sul piano storico la prassi della chiesa primitiva in materia di “ordinazione diaconale femminile” è stato gestito, finora, in modo poco lungimirante, sia per la scelta degli esperti, sia per il tenore della consultazione e per la incapacità di suscitare una riflessione ampia, strutturale, sistematica e non solo filologico-storica. Non sono certo il IV o il V o il VI secolo che possano rispondere alle domande che si sono aperte solo nel XIX e XX secolo! Il “segno dei tempi” della donna che è entrata con autorità nello spazio pubblico è un fatto che si è realizzato negli ultimi due secoli e che papa Giovanni XXIII ha riconosciuto lucidamente nel 1963, nella sua ultima enciclica Pacem in terris. Nulla impedisce l’ingresso anche delle donne nel ministero ordinato. Un piccolo segno di progresso formale è stata la caduta della riserva maschile per i “ministeri istituiti” che papa Francesco ha realizzato mediante il MP Spiritus Domini (2021). Sarebbe stato facile dire: non abbiamo l’autorità di modificare ciò che per molti secoli la Chiesa ha vissuto pacificamente. Il fatto che si sia rimossa la riserva per lettorato e accolitato – e non la si sia introdotta per il nuovo ministero del catechista – rende possibile che questo superamento della riserva maschile possa avvenire, per analogia a quanto accaduto per i ministeri istituiti, anche per il diaconato. 4.3. La comprensione del sesso/sessualità (la ricomprensione del matrimonio) Un terzo ambito, altrettanto significativo e delicato, è la evoluzione della comprensione del passaggio tra “sesso” e “sessualità”, avvenuto nella società liberale a partire dagli inizi del XIX secolo, e recepito nella Chiesa cattolica con molta fatica, a causa di una questione di “esercizio della autorità su unione e generazione” che ha bloccato l’azione pastorale per molti decenni. Una comprensione solo istituzionale e funzionale del sesso, tipica della cultura e della dottrina classica, ha esercitato un forte influenza sul modo con cui il cattolicesimo ha parlato di matrimonio e di famiglia, di relazione sessuale e di forme di vita comune. Di fatto il sistema è rimasto bloccato anche dopo il Concilio Vaticano II e dopo Familiaris Consortio. Il principio dello “scandalo” – con il primato indiscusso della “legge oggettiva” – ha monopolizzato i discorsi e ha rischiato di ridurre la pastorale alla applicazione del Codice di diritto canonico. La “personalizzazione” del matrimonio e della famiglia, che lo stato liberale ha obiettivamente favorito, si è progressivamente fatta spazio, fino alla rilettura che Amoris Laetitia offre della realtà familiare, in una pluralità di forme che supera il modello unico che per un secolo – tra 1880 e 1981 – aveva dominato le affermazioni dottrinali e le disposizioni disciplinari. La realtà dell’amore, dell’esercizio della sessualità, della soggettivazione delle coscienze e delle storie, fino al riconoscimento della “storicità del vincolo” apre oggi ambiti di riflessione e di prassi nuovi, che esigono categorie aggiornate e sensibilità differenziate.

5. La logica complessa della istituzione: corpo, anima, legge e dono.

Proviamo a rileggere, in conclusione, la storia di cui ha fatto parte la profezia dei “preti operai”, per valutarne l’impatto sul profilo della Chiesa e dei singoli cristiani e cattolici nei prossimi decenni. 5.1. La degenerazione ottocentesca e il sogno visionario di un “blocco giuridico” La crisi che il XIX ha vissuto nel rapporto tra forme antiche e forme nuove di esercizio della autorità ha indotto la chiesa cattolica a spostarsi quasi integralmente sul modello dell’ancien régime, rifiutando progressivamente tutto ciò che scaturiva dal mondo “liberale”. Questo ha generato la convinzione di poter controllare solo normativamente lo sviluppo culturale e religioso. Dopo il rifiuto radicale della modernità espressi dal Sillabo (Pio IX) e da Lamentabili (Pio X), la svolta del Codex nel 1917 ha spostato sul diritto canonico codificato la resistenza ecclesiale, almeno in forma strutturale. Questa soluzione rimane sotto traccia, come speranza e pretesa di “controllo legislativo” della modernità, anche nel nostro tempo. Così il citato “dispositivo di blocco”, che è una argomentazione di carattere dogmatico e sistematico, viene in qualche modo rafforzata e anticipata da questa inclinazione strutturale del codice (prima nel 1917 e poi nel 1983) nel considerarsi come “definitivo”. Il venire meno di uno studio dello “ius condendum” e la positivizzazione della giurisprudenza canonica è il riflesso più forte e più preoccupante di questo atteggiamento difensivo. La pretesa di definitività delle disposizioni normative del codice è l’ultima forma, la più insidiosa, di blocco del sistema. 5.2. La trasgressione rituale come campo aperto, luogo di attuazione della riforma A fronte di queste resistenze di carattere istituzionale, che hanno provato ad estendersi anche al campo simbolico-rituale della liturgia, invece il recupero del “linguaggio comune” della liturgia appare un fatto obiettivamente capace di assicurare una “apertura”, sia pure nella forma peculiare della azione di culto. Che tuttavia è capace di impostare l’intero delle relazioni ecclesiali anzitutto come “comune appartenenza alla comunità sacerdotale”. Questo fatto, senza alcun dubbio ancora da sviluppare e da recepire, implica una grande novità, che da sole 3 generazioni viviamo appieno. Sul piano teorico e sul piano pratico abbiamo bisogno di passaggi ancora difficili, ma il clima attuale potrebbe favorire una vera recezione. Le linee fondamentali di questa apertura potrebbero essere così pensate: a) La reazione ecclesiale al mondo moderno, che ha spesso assunto la forma di una “lotta dell’anima contro il corpo”, trova nella liturgia un luogo paradossale, in cui la valorizzazione del corpo integrale, con tutti i suoi linguaggi, diventa condizione per recuperare una mediazione piena tra il Signore e la sua Chiesa. b) Queste “mediazioni corporee”, che danno forma all’essere Chiesa di Cristo, aiutano a ricostruire in modo più ricco una serie di “antitesi”, che il mondo tardo-moderno ha imposto e rispetto alle quali la Chiesa spesso si trova costretta a restare al loro interno: – libertà/autorità: la Chiesa non è costretta a scegliere la autorità contro la libertà. Così vorrebbero tutte le letture autoritarie. Né la libertà contro la autorità, come vorrebbero le letture “neoliberiste”. Deve piuttosto ritornare a quella evidenza, così bene espressa in una duplice proposizione da Armido Rizzi: l’amore può solo essere comandato e solo l’amore può essere comandato. Una genealogia della libertà è la sfida che la azione rituale mette sempre in scena, con i suoi linguaggi simbolici. – diritto/dovere: la chiesa non è costretta a contestare i diritti mediante i doveri, ma deve lasciare aperta la dialettica storica tra diritti e doveri, mostrando l’orizzonte iniziale e finale che è quello del dono. La azione rituale permette di ricomporre, sul piano del dono, le antiche e nuove evidenze dei diritti e dei doveri. Senza rigidità e senza ingenuità. – privato/pubblico: la chiesa non è costretta a rincorrere la dignità pubblica del privato e la dignità privata del pubblico, ma a ricostituire, con fatica, luoghi “altri”, che sono appunto trasgressioni e interruzioni, perché l’uomo che lavoro e l’uomo in vacanza ritrovi ancora se stesso, nel riconoscimento altrui e nel riconoscere l’altro. La liturgia, restituita a questa funzione fondamentale, è il linguaggio non di alcuni, ma di tutta l’assemblea, di tutto il popolo di Dio. Tutti celebrano l’azione rituale, partecipando al rito, non soltanto ricevendone i frutti. Questo modello di liturgia è, come aveva capito Giuseppe Dossetti già nel 1965, una “ecclesiologia eucaristica” compiuta e singolarmente profetica, anche per l’oggi e per il domani. 5.3. La riforma istituzionale mancata e il ruolo dei canonisti: attingere alla “divisione dei poteri” Le forme istituzionali del cattolicesimo sono però ancora appesantite dall’antimodernismo che le ha forgiate nell’ultimo secolo e mezzo. Le dinamiche conciliari e sinodali sono facilmente soffocate da una impostazione dell’esercizio della autorità che resta sostanzialmente monocratica, per il papa, per i vescovi e per i preti. Qui un deficit di cultura e risorse strutturali vecchie creano imbarazzi non piccoli e portano a soluzioni infelici. La recente pretesa “riforma” del libro VI del Codice, dedicato al diritto penale, è del tutto inadeguata alle nuove sfide. Pretende di pensare le questioni con categorie che sono collocate – giuridicamente – prima di Cesare Beccaria. Si fa esperienza di una grande ingenuità, mescolata a una buona dose di arroganza. I canonisti dovrebbe sentire il dovere di immaginare un sistema nuovo, non la urgenza di bloccare il dibattito all’interno delle norme inadeguate vigenti. 5.4. La riforma del linguaggio: forme di vita da discernere e da assumere. Entrare nella logica dei “segni dei tempi” e assumere la correlazione tra espressione ed esperienza ecclesiale diventano una priorità decisiva. Non si deve dimenticare, infatti, che la terminologia sui “segni” non è esercizio retorico di considerazione di alcune novità, ma la identificazione di “nuovi luoghi teologici”, dai quali la Chiesa può imparare a scoprire il mistero di Dio e a farne esperienza mediante espressioni nuove della sua inesauribile vitalità. La sensibilità con cui papa Francesco ha ripreso lo slancio di apertura, in cui la “uscita” è anzitutto dalla “trasgressione decisa della autoreferenzialità”, costituisce un elemento significativo per connotare lo sviluppo di una presenza cristiana e cattolica che faccia della profezia una caratteristica decisiva del proprio profilo. Di molte delle provocazioni che abbiamo individuato nel breve percorso compiuto, abbiamo potuto riconoscere la traccia significativa di alcune tra le intuizioni più limpide che portarono ministri della chiesa ad abbracciare la via che li portò ad essere e a vivere come “preti operai”. Se papa Francesco ha potuto definire il modo più fedele per dar conto della tradizione ecclesiale con queste tre parole: inquietudine, incompletezza e immaginazione, non si può negare che il contributo che i preti operai hanno dato, in anteprima, a questo grande “cambio di paradigma” ha avuto il merito di dare una forma inquieta, incompiuta e piena di immaginazione al ruolo di un ministro pensato con nuove categorie e perciò capace di mettersi al servizio più radicale di Cristo e della Chiesa.

ANDREA GRILLO


1 Cfr. H. Legrand – M. Camdessus, Una Chiesa trasformata dal popolo. Alcune proposte alla luce di Fratelli tutti, Milano, Paoline, 2021.

2 Ho provato a definire i tratti essenziali di questo “dispositivo” in A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Assisi, Cittadella, 2019.

3 Se ne possono rilevare moltissime nei più diversi campi: su morale sessuale e ecclesiologia, novissimi e protologia, liturgia e sacramentaria, ministeri e diritto canonico. Sempre la tradizione si impone semplicemente perché non è dato poter fare altrimenti, per mancanza di autorità. In questo modo, indirettamente, viene messa in discussione la autorità del Concilio Vaticano II, per il fatto stesso di essersi “arrogato” la autorità. Una “ermeneutica della continuità” – con cui si confonde facilmente una ermeneutica della riforma – provvede perciò a squalificare ogni ermeneutica della discontinuità. Manca però ogni seria tematizzazione del fatto per cui, se si vuole un minimo di riforma, occorre garantire un minimo di discontinuità. Un riforma senza discontinuità è una formula retorica. Appunto un sillogismo erroneo.

4 Accanto a questo testo del 2001 non si può dimenticare Redemptionis sacramentum (2004) che ha rispolverato il primato della “lotta all’abuso” sulla “riscoperta dell’uso”. Arrivando a mettere in guardia dall’uso della locuzione “assemblea celebrante”!

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