Quando Roma condanna


Appunti

 

Guardare a distanza la vicenda dei PO è come fissare lo sguardo in un caleidoscopio. Diverse figure si possono comporre. Esse non appartengono semplicemente al passato, e non riguardano solo la storia dei PO, ma in qualche modo vivono in ricombinazioni di estrema attualità. Quello che si è giocato 50 anni fa ha molto da rivelare anche nel nostro oggi.
Alcune domande a titolo di esempio: quale è il rapporto tra Congregazioni vaticane ed episcopati nazionali? Quale il ruolo reale delle Nunziature apostoliche? Di quali fonti di informazione si avvalgono questi soggetti visto che, nel caso specifico voci autorevoli dell’episcopato francese sono state snobbate? Non è ora di finirla con il metodo assolutistico delle condanne senza appello? Che cosa viene deciso all’ombra del successore di Pietro? Su Le Figaro del 23 febbraio 1954 nell’editoriale dal titolo In assenza del Padre, Mauriac scriveva: “ Un colpo così grave (la soppressione dei PO) , che avrà una ripercussione nei destini particolari, nelle anime sacerdotali, nella storia spirituale della Francia, e del mondo, può essere dato nell’ora in cui Pietro non è più al timone, se non come il Signore, prostrato ed addormentato in piena burrasca”.
Se “il lavoro in fabbrica o nel cantiere è incompatibile con la vita e gli obblighi sacerdotali” quale compatibilità si verifica nei preti e vescovi integrati nelle gerarchie militari, con tutti i crismi dell’autorità, nei preti-amministratori che gestiscono per conto delle diocesi o di enti religiosi, spesso al di fuori di ogni controllo, quote di beni e di denaro importanti? Gli interrogativi potrebbero continuare sui vari fronti, ma veniamo ad alcune brevi riflessioni più specifiche.

 
1. Il 22 febbraio 1954 il corrispondente da Roma di Le Figaro osserva: “a Roma la questione dei PO non esiste più. C’è solo una questione di obbedienza e disobbedienza”. Nel 1993 i PO censiti in Europa erano almeno 810 circa. Possiamo stimare che dalle prime esperienze ben oltre 1000 preti hanno saltato il muro per far coesistere nella propria vita, il prete e l’operaio, una combinazione giudicata incompatibile. Quello che per Roma era già finito, in realtà era appena iniziato! A proposito dell’obbedienza i PO francesi si sono divisi di fronte al diktat del ‘54: soumis e insoumis , obbedienti e disobbedienti, sottomessi nella notte della fede, non sottomessi accettando nella fede le sanzioni minacciate. Nel 1993, a 50 anni di distanza dalla pubblicazione di France, pays de mission?, la Commissione episcopale francese del mondo operaio (CEMO) rivisitava la questione e dichiarava: “la maggior parte dei PO sceglie dolorosamente di interrompere il lavoro… Gli altri in coscienza hanno creduto doveroso continuare la loro presenza a prezzo della loro rottura. Noi vogliamo che proprio costoro sappiano che noi riconosciamo che essi hanno cercato nel cuore di questo dramma di essere fedeli alla loro missione… La legittimità del ministero dei preti ‘che lavorano manualmente e condividono la condizione operaia’ è ufficialmente riconosciuta”. Per quasi 40 anni gli insoumis sono stati i “ dimenticati della storia”. Qualcuno di loro morì di dolore per la scelta impossibile e per le pressioni anche dei familiari a cui è stato sottoposto. A qualcun altro, prossimo all’ordinazione, è stata rifiutata l’ordinazione perché “ voleva dire riconoscere i PO condannati”. Quando in Francia ai PO fu di nuovo consentito varcare i cancelli di fabbriche e cantieri venne loro imposto come condizione di mantenere la dissociazione dagli insubordinati. Soltanto nel 1991 i pochi insoumis ancora in vita vennero invitati per la prima volta all’incontro nazionale dei PO francesi. In quell’occasione presero la parola e così si presentarono: Insoumis , mais pas infidèles (insubordinati, ma non infedeli). Due anni dopo i vescovi del CEMO li riconobbero “fedeli alla loro missione ”. Dunque, per questi vescovi la fedeltà passa anche attraverso la disobbedienza. Nel caso degli insoumis , fedeltà al Vangelo ed alla classe operaia. Per la maggior parte di loro questa parola è arrivata quando non potevano più udirla!
 
2. L’impianto teologico che sta alla base della condanna del Sant’Uffizio è quello dominante nell’ambiente romano, lo stesso che innervava i primi schemi dottrinali predisposti nella fase preparatoria del Concilio e che furono rifiutati dall’episcopato mondiale. A proposito della dottrina sulla Chiesa G. Dossetti sottolinea una pericolosissima impostazione: “l’identificazione pura e semplice del mistero con l’ordine giuridico della Chiesa Romana”. Nella Lumen Gentium viene attuata una grande svolta della ecclesiologia. Qualcuno l’ha definita rivoluzione copernicana; si può comunque dire che si sono aperte delle brecce di grande portata che infrangono la identificazione tra i due aspetti, liberando prospettive di vita inedite e assunzioni di responsabilità nelle quali l’obbedienza viene giocata su traiettorie che oltrepassano l’aspetto giuridico-formale. È una prospettiva utile per leggere quanto è avvenuto nel nostro paese.
 
3. La presenza dei PO in Italia, anticipata da don Borghi e don Politi, è esplosa dopo il Vaticano II. A differenza di quella francese non è sorta per iniziativa o almeno con il sostegno dei vescovi. I vertici della Chiesa italiana, con l’eccezione del card. Pellegrino di Torino e di qualche raro vescovo, non hanno mai fatto propria questa opzione, nonostante “l’esperienza dei PO abbia rappresentato in Italia uno dei momenti più significativi della stagione postconciliare in Italia ” (G. Piana, Il significato di un’esperienza, in Servitium 41[1985] 7). Gran parte dei PO ha scelto personalmente la propria strada, trovando nel Vangelo la motivazione fondamentale alla quale obbedire e dovendo operare una forzatura nei confronti del proprio ambiente che spesso ha reagito con diffidenza, se non ostilità. Infatti il divieto del Sant’Uffizio aleggiava ancora dopo il Concilio ed era rimasto nella memoria di preti e ambienti cattolici. Tutto questo nonostante Paolo VI nella enciclica Octogesimo Adveniens avesse speso una parola importante a favore della missione dei PO3. Ma tali figure di preti non potevano essere organici al modello di cristianità che in Italia si è continuato a perseguire anche dopo il momento conciliare.
 
4. L’ingresso nella condizione operaia, la sua esigente quotidianità, la percezione diretta della fatica propria e dei compagni, lo spessore di umanità condivisa, come pure l’esposizione e l’opposizione organizzata a situazioni di lavoro inique, l’impiego di tante energie per riuscire, qualche volta, ad ottenere piccole liberazioni, la piena secolarizzazione vissuta nella organizzazione del lavoro, nei rapporti di produzione e nel contesto operaio… ha portato ad una spogliazione e ad una ricostruzione del proprio modo di pensare e vivere, credere e pregare. In qualche modo ha cominciato a prendere corpo un cristianesimo vissuto nella vita profana, mentre quella fatica di vivere condivisa con gli altri diveniva una cattedra dalla quale quotidianamente si imparava. Nel concreto la nostra permanenza di PO, durata gli anni di una vita lavorativa, ha apertamente smentito la profezia di sventura sanzionata dal Sant’Ufficio. Si è messa a nudo la miseria di quella condanna ed anche un costume ecclesiastico che alimenta e produce condanne. Il fenomeno dei PO sotto il profilo sociologico è ora divenuto pressoché irrilevante. La maggioranza ha varcato il traguardo della pensione. Personalmente ritengo che questa storia, non breve, di cui siamo protagonisti e testimoni continui a portare in sé la forza di una parabola nel senso evangelico che conserva il suo valore “ per chi ha orecchi per intendere” . Rappresenta un modo di essere Chiesa nel mondo e per il mondo da parte di ministri ordinati: nel senso della condivisione paritaria delle condizioni di vita e delle lotte per renderle un pochino migliori ed anche nel tentativo di dare corpo al Vangelo dentro la storia di uomini e donne che conoscono la fatica del lavoro e le condizioni di umiliazione e di precarietà alle quali sono sottoposti. La nostra storia annuncia che “la fine della cristianità non era un tragico evento da subire, era un progetto da abbracciare senza riserve e opportunismi, come normale risposta evangelica ad una situazione dell’uomo totalmente inedita” (E. Balducci, L’uomo planetario , 35).

Roberto Fiorini

 

PS – In altri quaderni della Rivista Pretioperai (17-18/1991; 20-21/1992; 22/1992; 30-31/1995) l’argomento della condanna è stato trattato riportando testimonianze dei protagonisti, non reperibili nel contesto italiano.



una citazione

MUTAZIONE DEL CRISTIANESIMO
di Ernesto Balducci

 

La mutazione del cristianesimo ebbe inizio durante la Resistenza. Voglio spiegarmi rievocando due episodi nei quali prese forma un processo che solo dopo cinquant’anni ha la consistenza e la fecondità di un’alternativa per il futuro.
Nel 1941, a Parigi occupata dalle truppe naziste, il cardinal Suhard autorizza una singolare esperienza: i preti vestono la tuta da operai e scendono nell’inferno della classe «senza Dio». L’esperienza era stata preceduta da una sconvolgente presa di coscienza dovuta alla diagnosi condotta da un sacerdote, don Henri Godin: la Francia, «la figlia prediletta della chiesa», era in realtà un «paese di missione». Può anche darsi che, secondo i promotori della «discesa all’inferno», i PO dovessero semplicemente portare Cristo in una fascia sociale ormai remota dalla chiesa come una tribù della Nigeria. E invece molti di essi scoprirono, e ne dettero pubblica testimonianza, che c’era più vangelo vissuto tra gli operai atei che non nei seminari. Che il regno di Dio, ci si cominciò a chiedere, non sia fuori del regno di Dio?
Quattro anni dopo, nella prigione nazista dove verrà impiccato, un pastore evangelico, Dietrich Bonhöeffer si pose una domanda che ancora oggi suona paradossale: «Come Cristo può diventare Signore degli uomini non religiosi? Si danno dei cristiani non religiosi?» La sua risposta era positiva: il cristianesimo non è una religione; il mistero di Gesù fu nel suo esistere totalmente per gli altri; seguirlo vorrà dire esistere per gli altri,
etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse; vorrà dire vivere «dinanzi a Dio senza Dio». In lui, come nei PO, la fine della cristianità non era un tragico evento da subire, era un progetto da abbracciare senza riserve né opportunismi, come normale risposta evangelica ad una situazione dell’uomo totalmente inedita.
La storia del cristianesimo in questi ultimi decenni è andata nel senso di queste intuizioni.
Negli Anni Sessanta la chiesa cattolica e le chiese evangeliche hanno fatto dei passi coraggiosi per uscire dal regime di cristianità. Il concilio, voluto da papa Giovanni XXIII, e le assemblee mondiali, organizzate dal Consiglio ecumenico delle chiese, hanno legittimato la svolta antropologica del cristianesimo, una svolta che, ad esempio, lo ha portato ad accogliere come un momento di crescita la stagione della secolarizzazione. Proprio in quegli anni, una dopo l’altra si andarono smantellando le vecchie forme organizzative e culturali del cristianesimo, sia quelle nate al suo interno, non di rado secondo un programma di contrapposizione reciproca tra le chiese, sia quelle nate dall’intento di resistere alla presunzione del mondo di gestire da se stesso il proprio destino. Sono sempre più numerosi i cristiani che accettano di vivere come pellegrini dentro gli spazi della città comune, senza più la nostalgia della cristianità.

(da L’uomo planetario)


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