Una interpretazione della storia dei PO in Italia
La vicenda dei PO in Italia è simile nella sua ispirazione a quella di altri paesi europei. Però aspetti specifici la rendono anche diversa. La presenza di una Chiesa forte, coinvolta sul piano politico e con una multiforme ed articolata ramificazione a livello sociale, l’influsso del Vaticano non solo sulle Chiese locali, ma anche nella vita politica del paese, a fronte di una parallela e speculare organizzazione social-comunista egemone nel Movimento Operaio… sono alcuni degli elementi che costituiscono il contesto nel quale i PO italiani sono sorti ed hanno sviluppato riflessioni ed azione. A questo va aggiunta la forte connotazione regionalista, le cui radici sono lontane.
Vengono così indicati alcuni aspetti più salienti che hanno contribuito a rendere complesso, e con elementi di originalità, il cammino dei PO italiani. In questo intervento viene tentata una lettura, che si aggiunge ad altre ricorrenti in Italia. La compresenza di più voci in questo numero della Rivista pensiamo favorisca una maggiore adesione alla realtà e renda possibile una sua più ricca ed articolata comprensione.
1. Il buon giorno viene dal mattino
La comparsa dei PO in Italia e il loro rapido incremento numerico nel decennio 1965-75, sono strettamente connessi a due fattori, o processi, che hanno giocato un’influenza decisiva nello scenario ecclesiale, sociale e politico del nostro paese.
Il Concilio Vaticano II è stato un evento liberatorio che ha consentito la maturazione e l’espressione pubblica, a livello ecclesiale ed oltre i confini del religioso, di intuizioni, fermenti ed iniziative, spesso isolate o represse. L’esperienza internazionale del Concilio ha favorito l’allargamento e l’arricchimento dei circuiti di comunicazione, personali e letterari a livello teologico ed ecclesiale. In Italia, dove la riflessione teologica e religiosa viene da sempre controllata con cura particolare e dove le esperienze innovative devono fare i conti con una capillare presenza delle tradizionali strutture pastorali, questo processo di internazionalizzazione ha certamente rappresentato un fattore di dinamismo contro la stagnazione ed il provincialismo.
Una delle intuizioni conciliari, particolarmente feconda per le implicazioni ecclesiali ed internazionali, fu quella della Chiesa dei Poveri (cfr P. Gauthier, La Chiesa dei Poveri e il Concilio, Firenze 1965) . Per molti, in Italia e nel mondo, questa rappresentò una chiave di lettura che metteva a nudo collateralismi e simbiosi tra apparato ecclesiastico e centri di potere politico ed economico. Non è un caso che questa espressione, dopo la breve stagione conciliare, sia rapidamente scomparsa dai documenti ufficiali ed anche dal linguaggio corrente. Certamente per molti preti diventati operai questa categoria fu fonte di ispirazione per la propria vita spirituale e per le opzioni pratiche che portarono ad integrare il lavoro manuale nella propria esistenza. Non può inoltre sfuggire la potenziale valenza politica presente nella espressione Chiesa dei poveri oltre alla fecondità teologica e comunitaria, quali più tardi saranno testimoniate dalla teologia della liberazione.
L’altro elemento determinante per il decollo dell’esperienza dei PO in Italia va identificato nel Movimento Operaio e nelle sue lotte di liberazione in un momento storico fecondo. La centralità conquistata dalla Classe Operaia e dalle sue organizzazioni tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi dei ‘70, con importanti alleanze sul piano culturale e sociale, ha polarizzato attese, speranze ed energie che affondavano le radici in un diffuso bisogno di giustizia e di soggettività da esercitarsi nelle fabbriche e nella vita sociale. Pur tra i limiti e le illusioni, che gli anni successivi metteranno crudamente allo scoperto, venivano sperimentate modalità di relazioni umane non autoritarie e possibilità di esercizio critico dell’intelligenza applicata ai processi materiali della formazione della ricchezza e della organizzazione dei poteri.
I PO italiani sono nati e cresciuti in questo milieu. I precursori degli anni ‘50, don Borghi e don Sirio Politi, rappresentano le primizie, un anticipo di stagione. Anche don Mazzolari e don Milani, il cui impegno culturale e pastorale ha incontrato notevoli tensioni con l’autorità ecclesiastica, hanno esercitato un influsso dinamizzante sulle nuove generazioni di preti da cui provenivano quelli che “saltarono il muro”, radicandosi a pieno titolo in condizione operaia. Molti di questi erano passati attraverso l’esperienza delle ACLI o avevano rivestito il ruolo problematico ed ambiguo di cappellani di fabbrica, entrando comunque in rapporto diretto con gli operai, in momenti di alta conflittualità sociale per la conquista di condizioni di lavoro più vivibili e di garanzie sociali per le classi più deboli.
Anche i contatti con l’esperienza dei PO francesi, personali o mediati dai libri tradotti in italiano, certamente hanno rappresentato un’esemplarità importante e contagiosa. A questo proposito va sottolineata una differenza significativa tra l’esperienza italiana e quella dei PO francesi. La gran parte dei PO italiani non sono entrati in condizione operaia mandati dai loro vescovi, quindi con una missio canonica espressa. Salvo il caso di Torino e del Piemonte, dove la presenza del Card. Pellegrino rappresentò un dono felice ma isolato, nel resto dell’Italia la quasi totalità dei preti che abbracciarono il lavoro lo fecero operando uno …strappo, più o meno violento, nel quale l’opzione e il rischio personale rimasero dominanti. È vero: a monte vi era l’apertura conciliare, talune espressioni di Paolo VI nelle quali prometteva agli operai di mandare loro dei preti; soprattutto vi era il pronunciamento dell’enciclica Octogesimo adveniens nella quale il medesimo papa parla espressamente di “missione apostolica” dei preti che condividono integralmente la condizione operaia (“Non è forse per essere fedele a questa volontà che la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine e della ricerca della Chiesa medesima?” – Octogesimo adveniens, 48).
Concretamente questi testi funzionarono in molte coscienze come una missio implicita. Però nelle gerarchie ecclesiastiche e nella maggior parte del mondo cattolico rimase assolutamente dominante l’idea che non solo non c’era bisogno di PO, ma che la loro presenza era rischiosa, sia per le divisioni che ne potevano derivare in seno alle comunità cristiane, sia per la forte presenza comunista. L’Italia era sì un paese diviso tra due mondi culturali e politici, ma non era Pays de mission. In sostanza questo era il pensiero dominante: dato e non concesso che da altre parti, come in Francia, fosse necessario che dei preti andassero a lavorare per avvicinare gli operai, una tale necessità non si vedeva in Italia, dove peraltro era garantita una capillare presenza con le parrocchie e con le organizzazioni cattoliche impegnate sul fronte politico e sociale. Caso mai si trattava di rivitalizzare queste modalità organizzative che in quegli anni conoscevano dei sussulti, conseguenti alla liberazione di energie prodotta dall’evento conciliare e dall’aumento di conflittualità sociale.
In sostanza si può dire che gran parte dei PO italiani divennero tali senza che nessuno, a livello di Chiesa locale, chiedesse loro di diventarlo, con un travaglio spirituale costoso sul piano personale: una scelta raramente condivisa, spesso avversata. Mentre sul piano nazionale non ci fu uno sponsor autorevole e garante, come ad es. il Card. Suhard nella fase di decollo della prima esperienza francese. Riteniamo che questa caratteristica di autonomia dell’esperienza personale e collettiva dei PO italiani sia stata una condizione necessaria, senza la quale essa non avrebbe mai potuto decollare, eccetto, come si è detto, per la regione piemontese.
Un’altra caratteristica importante per comprendere le dinamiche che si svilupperanno all’interno del collettivo, è data dalla forte rilevanza della regione di appartenenza, intesa come entità geografica, storica, culturale, religiosa, economica e politica, nell’ambito della quale veniva attuata l’esperienza di lavoro. Mentre nel nord industrializzato l’inserimento era nella fabbrica, al centro Italia si concretizzava nell’artigianato. Così pure in regioni come il Veneto, caratterizzato dalla presenza della religione in ogni settore della vita e dalla pervasività di quella che è stata chiamata “sub-cultura cattolica”, profonda era l’estraneità tra chiesa e classe operaia, dove questa assumeva i caratteri dell’autonomia culturale ed organizzativa, con la consegueza di una vita particolarmente dura per i preti che optarono per il lavoro in fabbrica. Le diverse “anime regionali” fino al 1990, quando i PO piemontesi decisero di continuare il loro cammino autonomamente, trovarono una convivenza dinamica complessivamente positiva ed arricchente, in anni molto difficili, per quanti si riconoscevano nel cammino del collettivo.
2. La questione cattolica in Italia
Non è possibile ricostruire correttamente la storia ed il significato dei PO in Italia prescindendo dalla stretta saldatura tra la direzione della chiesa e la D.C., partito dei cattolici, che dal dopoguerra sino alla disfatta nelle elezioni del 1994, rappresentò la formazione politica di maggioranza ed il perno della gestione governativa nei decenni del dopoguerra. L’unità politica dei cattolici, con intensità maggiore o attenuata a seconda dei momenti storici e delle situazioni locali, è stata fatta valere come l’unica opzione politica ed elettorale legittima, sino al naufragio completo consumatosi in questi giorni. Una sorta di dogma pratico. A questa si correlavano tutta una serie di organizzazioni che assolvevano ad una funzione collaterale, non senza tensioni dialettiche, ma il cui approdo doveva comunque concludersi nel sostegno della D.C. Evidentemente questa obbedienza non avveniva da parte di tutti i credenti e neppure di tutti i praticanti. Tuttavia il destino dei dissidenti si concretizzava in varie forme di emarginazione dagli organismi di partecipazione e di gestione della pastorale e dai mass media cattolici.
Dall’altra parte vi era il mondo della sinistra, egemonizzato dal PCI, sul quale non era spenta la eco, sedimentata nella memoria popolare, della scomunica ecclesiastica comminata nel 1949 e mai dichiarata decaduta.
Nel 1974 avvenne il duro scontro sul referendum per l’abrogazione della legge che regolava il divorzio, mentre era in vigore la normativa del matrimonio concordatario del 1929. Sullo sfondo c’era la difesa di un regime di cristianità teso a tradurre nella legge civile, obbligante tutti i cittadini, i valori fatti derivare dalla fede, ma riproposti come necessari principi della legge naturale dotata di valenza universale. Anche se lo scontro non riguardava problemi del lavoro, in pratica, individualmente o in gruppo, i PO presero posizione nelle comunità locali per il mantenimento della legge civile. In maniera chiara i credenti si dividevano su un terreno di tale importanza. Per molti preti che favorirono il no all’abrogazione, le conseguenze furono pesanti. L’ingresso in condizione operaia dei PO e la graduale partecipazione alle organizzazioni sindacali, in gran parte a livello di Consigli di Fabbrica, in alcuni casi a responsabilità più generali, ebbe come conseguenza inevitabile una loro sovraesposizione politica orientata a sinistra. Anche se interiormente permanevano nel fondo le motivazioni spirituali ed evangeliche che avevano sostenuto una scelta tanto impegnativa, tuttavia era inevitabile partecipare direttamente ai conflitti in momenti nei quali al Movimento Operaio veniva imposto un arretramento rispetto alle posizioni raggiunte. Il clima era quello determinato dai lunghi anni delle stragi “di stato”, del terrorismo delle B.R. e dall’eversione neofascista.
Siamo convinti che il primo motivo delle difficoltà di rapporto tra i PO e la Gerarchia della Chiesa italiana risieda proprio nella “rottura” politica che essi hanno pubblicamente impersonato nel crogiolo della loro esistenza. Qualche anno fa un cardinale, che ha ricoperto un ruolo di prim’ordine nella direzione della C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana), si lasciava sfuggire una confessione molto significativa: “il vero problema per voi PO non si pone tanto a livello di fede, quanto sulle garanzie della vostra affidabilità politica”. Anche nei momenti in cui la Gerarchia ha esibito una disponibilità nei confronti dei PO italiani (nel 1976 con la proposta di un rapporto organico con rappresentanti dei PO italiani e successivamente, all’inizio degli anni ‘80, in alcuni dialoghi tra il Coordinamento Nazionale dei PO e la Commissione Episcopale per i problemi sociali e del lavoro, interrotti senza spiegazioni ufficiali da parte dei Vescovi in coincidenza dell’avvento alla Presidenza della C.E.I. del Card. Poletti), si hanno fondati motivi per credere che tali avances rientrassero nel programma pastorale orientato più ad ossigenare l’unità sindacale e politica dei cattolici che ad una piena accettazione del coinvolgimento dei PO nelle strutture di riferimento della classe operaia. Infatti, e questo episodio funziona da cartina di tornasole, nel 1980 tre PO furono sospesi a divinis per essersi candidati in liste di sinistra ed essere risultati eletti nelle consultazioni per il rinnovo delle amministrazioni locali.
[Raffaelli F., Esserci dentro: l’esperienza dei PO italiani (1973-1983). Tesi di laurea sostenuta all’Università di Pisa, p. 191: “La gerarchia si dimostra dunque più disponibile nei confronti dei PO proprio nel momento in cui essi stessi si rendono conto di aver mitizzato eccessivamente la classe operaia e assumono spesso posizione critica all’interno dei sindacati. Tale situazione, che permette alla Chiesa di reinserire l’esperienza dei PO all’interno del programma pastorale complessivo teso a salvaguardare l’unità politica e sindacale dei cattolici, è confermata dal fatto che questa nuova disponibilità non rappresenta assolutamente un’apertura nei confronti del completo coinvolgimento dei preti nella classe operaia visto che, nel luglio 1980 al termine di una tornata di elezioni amministrative, ben tre PO furono sospesi a divinis per essersi candidati, ed essere stati eletti, in liste di sinistra”].
Le aperture e la simpatia di singoli vescovi con cui si sono avuti rapporti, le articolazioni anche importanti presenti tra i dirigenti della Chiesa italiana, non hanno intaccato l’orientamento globale verso l’unità politica dei cattolici, che tale è rimasto sino al suo crollo, determinato non da ultimo dall’implosione di un sistema di corruzione politica che aveva tra gli assi portanti lo stesso partito della D.C.
Il problema di fondo è che il cristianesimo italiano presenta ancora forti caratteri di un cristianesimo politico, improntato da un’incrollabile nostalgia di cristianità.
La linea che i PO dall’interno della concreta esperienza di lavoro hanno portato avanti, anche se non sempre con lucidità e consapevolezza piene, è coincisa con l’abbandono, senza rimpianti e senza ritorni, del modello di cristianità “cioè di un complessivo progetto, pur variamente modulato, per l’intera società, nella persuasione che vi sono nel vangelo tutte le premesse per ricavarlo e che spetti alla Chiesa e ai cristiani dettare le linee e giudicare i limiti della sua attuazione. Tale impianto concettuale e operativo è espressione e frutto di una teologia politica, ma anche di un’ecclesiologia, di un’antropologia, di una visione del mondo e della storia, di una concezione e di una prassi della vita individuale e collettiva”.
[Miccoli G., Figure del cristianesimo storico nella transizione al postmoderno: una lettura storica”, in PO n°28-29, p.l5-26 “Divenendo un’idea forza la cristianità offrì e rappresentò il modello di salvezza da presentare alla società del proprio tempo, che il pensiero e le ideologie moderne avevano avviato verso una rovinosa strada di catastrofi e di perdizione. La dottrina sociale cattolica e i partiti e i movimenti cattolici costituirono, l’una la piattaforma ideologica, gli altri il braccio armato mediante i quali operare per la realizzazione di tale modello. Tutta la storia religiosa ed ecclesiastica del secondo Ottocento e della prima metà del Novecento è dominata da tale prospettiva, che in linea di principio non ammette oppositori o critici che possano continuare a fregiarsi del nome di cattolici (…). Più tormentata, rovinosa e tragica, più coperta di rovine e sangue appariva la storia della società secolarizzata, e più la Chiesa sembra ritenere di poter trovare in tali vicende la ragione e la giustificazione di una restaurazione che la collocasse maestra e guida dell’umanità (…).
Sta qui mi pare, in tale ribadita proposta come nel sistema mentale che la sorregge, la radice prima, più profonda e più intima, della radicale perdita di credibilità e della crisi patite dal modello di cristianità e della prospettiva di restaurazione cristiana negli anni cinquanta e sessanta del nostro secolo (…). Una domanda e un dubbio radicali che riguardano la proposta stessa di una restaurazione delle cristianità, che riguardano l’idea stessa di un’estraneità, di un’irresponsabilità della Chiesa nella storia dell’umanità così come si era svolta e si stava svolgendo nell’età moderna e contemporanea; che mettono in discussione la sua pretesa di avere essa, nel passato come nel presente, nella sua tradizione di magistero e per l’autorità del suo magistero, la garanzia di risposte adeguate alla costruzione di una società più umana e più giusta (…).
Che tale fosse per il cristianesimo e la Chiesa contemporanea il problema, si erano accorti i primi PO francesi, che pure erano partiti ancora animati dall’idea di costruire una “nuovelle chrétienté”, e di ciò si era accorto nel corso della sua esperienza don Lorenzo Milani, come le sue Esperienze Pastorali, ma forse ancor più la sua Obbedienza non è più una virtù attestano largamente; ma tale consapevolezza sembra emergere anche da quelle considerazioni di Giovanni XXIII che ravvisavano nell’urgenza per la Chiesa di curarsi più della difesa degli uomini che di se stessa il segno di una più profonda penetrazione del vangelo (…). Anche il Vaticano Il presenta avvertenze, suggerisce esperienze, offre spunti che rompono in altra direzione di movimento rispetto al passato, senza però essere riuscito ad offrire realmente una prospettiva alternativa rispetto ad esso. La sua importanza tuttora operante sta nell’aver rotto col monolitismo ufficiale, nell’aver aperto nella Chiesa la possibilità di un pluralismo prima impensabile nei termini in cui oggi si esprime. Ma forti restano ancora le tentazioni di prospettive antiche, che troppo spesso riaffiorano o sembrano riaffiorare dalle stesse “novità” di approccio o di proposte a dimensione planetaria”].
I PO italiani proprio nella condivisione piena alla condizione umana operaia, con le contraddizioni, subalternità, alienazioni che essa comporta, ma anche con la concretezza e la densità dell’essere ancorati a processi reali, hanno rappresentato, proprio nella loro figura di preti, l’indisponibilità al sistema politico, culturale e pastorale collegabile con la nostalgia e il desiderio del regime di cristianità. Sono stati, e rimangono un nervo scoperto, una slogatura, una contraddizione. Forse proprio in questo consiste la loro fecondità e il senso profondo della loro presenza nel nostro paese.
“Non vi è dubbio che l’esperienza dei PO abbia rappresentato in Italia uno dei momenti più significativi della stagione postconciliare” ( Piana G., Il significato di un’esperienza, in Servitium” 41 (1985) p. 7).
3. Attualità di una scelta di campo
La scelta fatta in tempi nei quali il movimento operaio era forte si è rivelata giusta alla luce delle trasformazioni che hanno investito il mondo del lavoro e la società italiana nel suo complesso e la sua evoluzione politica nel quadro del dominio internazionale del sistema capitalistico.
La voglia di destra politica venuta prepotentemente alla ribalta in questi ultimi tempi manifesta una cultura che ha come substrato la volontà di giustificazione e di legittimazione dei forti di fronte ai deboli, a tutti i livelli. L’orientamento si esprime come progressiva riduzione delle garanzie dello stato sociale, mentre la libertà viene sempre più identificata con l’assoluta licenza nel campo economico. Alle crescenti masse che non possono stare al passo, perché tagliate fuori dalla competizione o espulse dai processi produttivi o finanziari, è riservata l’assistenza, quale variabile dipendente e residuale.
Il mercato viene presentato come l’unica regola e l’attuale sistema di produzione capitalistico non si discute più; anzi, non si può più discutere (si è parlato di fine della storia!). Questa indiscutibilità è anche l’effetto di una serie di aggressioni ideologiche che brevemente riassumiamo:
– occultamento della natura reale dei rapporti di produzione
– scomparsa dal linguaggio di qualsiasi riferimento alle classi sociali; la descrizione a-classista ha sostituito quella precedente interclassista
– le vicende della storia umana sono presentate senza collegamento alcuno con gli interessi economici e politici delle multinazionali
– tendenza ad identificare gli interessi dei lavoratori e dei padroni di una stessa nazione mettendoli in concorrenza con quelli dei lavoratori e dei padroni di un’altra nazione.
Queste ed altre aggressioni ideologiche stanno producendo come conseguenza una mutazione percettiva. Ci stanno cambiando l’anima.
Da un documento dei PO della Lombardia del 1994: “Le aggressioni ideologiche stanno producendo come conseguenza addirittura una “mutazione percettiva”. Certe aggressioni, come la condizione di fabbrica, non si percepiscono più come tali, sono state rese invisibili. Da sempre certe cose possono essere viste solo stando “dentro” (e più che vederle con gli occhi, le si sentono con la pancia, con la contrazione nervosa dei muscoli, col respiro affannato, con la rabbia in corpo…). Ma ora anche tra chi sta “dentro” c’è chi ha uno sguardo “addomesticato”. E chi sta “fuori” sorride di fronte a narrazioni che giudica incredibilmente vetero! La pesantezza dell’aggressione la si può misurare dalla profondità di questa mutazione. cambiata non solo la percezione intellettiva (la chiave di lettura con cui si interpretano i fenomeni), ma anche quella visiva (certe situazioni non si vedono più del tutto!) e persino quella emozionale (cambia l’oggetto dell’emozione, dell’indignazione…). Ci hanno cambiato l’anima!”.
“È in atto una totale mercificazione dell’umano… L’unico criterio di valore è la “profittabilità”. Ogni altro valore perde consistenza, perde semplicemente senso… L’imposizione autoritaria dell’unico valore universale, quello derivante dall’essere “merce”, fa oggettivamente piazza pulita di ogni altro valore ad esso non riconducibile”.
[Ibidem . Il documento analizza sotto la luce della “profittabilità” quanto sta avvenendo nel campo del lavoro : “la disoccupazione si sta rivelando ormai a tutti non come un d i fetto del sistema ma come un suo connotato endemico”; delle pensioni : “non è più pensabile che una società di esseri umani, progredita e civile, si possa permettere il lusso di dichiarare protetta collettivamente la vita dei vecchi”; della salute : “la salute degli umani di una società non può essere dichiarata un bene comune che ci si impegna a difendere – anche la sanità o produce profitti o non ha diritto di esistere”; la scuola , con la finalizzazione della “formazione degli alunni a quelle competenze scientifiche e a quella gerarchia di valori comportamentali che possano renderli un domani utilmente profittabili per il mercato”].
Noi riteniamo che la scelta di campo a suo tempo operata mantenga tutta la sua attualità. Anche se il lavoro si è in parte trasferito dalla fabbrica ai servizi, all’impegno con gli emarginati, i tossicodipendenti, gli immigrati, o come nel caso di alcuni PO prepensionati o cassaintegrati, in Salvador, in Rwanda … è importante ritrovare sempre di nuovo una chiarezza di visione e le ragioni profonde della scelta di campo. Contrastando anche la caduta, non nuova delle Chiese e delle organizzazioni di solidarietà: da un lato di svolgere una funzione assistenziale e dall’altro di essere collaterali ed organiche a forze politiche ed economiche che creano emarginazione e sostengono una visione autoritaria della convivenza civile. L’accoppiata mercato e solidarietà che viene fatta valere per segnare un limite ed un correttivo all’impero assoluto del primo termine, fatalmente si trasforma in mercato e beneficenza, nella misura in cui viene elusa ed oscurata l’istanza della giustizia.
In questa cornice generale noi PO italiani dal 28 aprile al 1 maggio ci ritroviamo al Convegno Nazionale così titolato: “Beato colui che resiste. Esperienze di resistenza politica. Testimonianze di resistenza evangelica”. Evocando un tema caro a Bonhoeffer, nel 50° della sua uccisione, in un momento in cui si tenta di oscurare la realtà storica del nazi-fascismo, riteniamo che questa sia una categoria feconda per interpretare il nostro tempo e l’azione storica che compete alla nostra responsabilità.
4. La posta in gioco
Quando nel 1959 il card. Pizzardo a nome del Sant’Ufficio motivava il divieto dicendo che “la Santa Sede ritiene che il lavoro in fabbrica o nel cantiere è incompatibile con la vita e gli obblighi sacerdotali” esprimeva un atteggiamento di …disperazione verso la forza della fede. La sola presenza dei PO in Europa in tutti questi anni non solo rappresenta una smentita che dovrebbe indurre una riflessione seria, ma sottolinea il più profondo nodo problematico da essi posto con la loro stessa esistenza.
Rinunciando alla “nuvola d’incenso” espressa dallo “status clericale” per entrare disarmati nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, cioè nei santuari dell’organizzazione produttiva occidentale, essi hanno posto oggettivamente il problema della fede in mezzo al mondo e in questo secolo. Nessuna pretesa di essere gli unici a porlo. Però con la certezza che dinanzi ad un cristianesimo appesantito, profondamente clericalizzato, e in Italia intimamente politicizzato, una tale opzione di vita da parte di preti fosse assolutamente necessaria e dovuta. Dovuta ed anche gratuita. Cioè esente da qualunque richiesta o “mercede”, fosse anche il riconoscimento ecclesiale del valore della nostra vita.
In questa povertà – non sono mancati i casi nei quali la nostra vita è stata dichiarata “inutile” per la Chiesa – consiste la forza di interpellare la Chiesa stessa proprio sulla fede. Perché in fondo di questo si tratta. Abitando in pieno, da decenni, la contraddizione di essere preti, con tutto il carico che una tale parola evoca in Italia, “dentro la condizione operaia” come situazione pienamente mondana e come storia drammatica e conflittuale sul terreno dei rapporti reali, noi chiediamo modestamente, ma con forza, che la Chiesa tutta si interpelli onestamente – cioè con onestà intellettuale – sulla evangelicità della propria fede. L’opera più urgente da intraprendere è il processo di autoconversione, cioè di autoevangelizzazione che sottoponga a revisione critica le figure del cristianesimo storico, e in particolare la forma di cristianesimo politico che ha dominato in Italia.
Un dio evocato per “servire” alla conduzione del villaggio, troppo spesso funzionale ai conduttori del villaggio, un dio ridotto a dottrina sociale e tradotto in “valori civili” ai quali ricondurre le collettività, non ha molte probabilità di essere incontrato come il Dio vivo nel quale credere e sperare. Assomiglia troppo a un dio “cadavere” (cfr. Nietzsche) la cui puzza non consente di percepire il “vento leggero” di Elia (cfr. 1Re19,12).
Alla Chiesa noi proponiamo una domanda, rivolgiamo un grido di allarme e offriamo una testimonianza.
La domanda la cogliamo da una parola enigmatica presa dal Vangelo: Ai discepoli che chiedono al Signore: “aumenta la nostra fede”, Gesù risponde: “se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare; ed esso vi ascolterebbe” (Lc.17,6). Da che cosa c’è da liberarsi, che cosa si deve buttare a mare per potersi concentrare su una tale paradossale essenzialità? L’intima correlazione tra la “piccolezza” della figura evocata a rappresentare la fede, e l’enormità del risultato, non è indicazione di un metodo, e quindi di una differenza, che devono qualificare l’efficacia della fede? Ad essa sembra appartenere una leggerezza che contrasta con la pesantezza, l’inerzia al cambiamento, l’ossessione dell’autoconservazione, che ritroviamo con frequenza nelle istituzioni della Chiesa. Nell’articolo di J. M. Huret, pubblicato su questo quaderno nella sezione dei PO francesi, vi sono stimoli importanti nella direzione dell’alleggerimento evangelico.
[Da M. Légault, Vie spirituelle et modernité. L’autore cita due passi significativi che riteniamo utile riportare: “La Chiesa si dà da fare lungo i secoli, e oggi ancora, a proteggersi al massimo dai cambiamenti che potrebbero minacciare l’immutabilità della sua dottrina che rende manifesta, a suo giudizio, la presenza e l’azione di Dio nel suo governo e nel suo insegnamento. Così essa si aggrappa a modelli elaborati in funzione di società globalmente religiose del passato”. Non solo, l’autore sostiene anche che l’ateismo moderno o l’apparente indifferenza religiosa sono costituite “da domande che la religione impedisce di porre, poiché essa a partire dal Dio che professa fornisce delle risposte che sopprimono d’ufficio ogni ricerca sull’argomento”].
Il grido è quello che abbiamo più sopra elevato: “ci stanno cambiando l’anima” in funzione dell’assoluto valore della “profittabilità”. È per noi difficile non intravvedere in questo sistema, che si pretende “definitivo”, e nei rapporti che secerne, alcuni caratteri ben descritti in Apocalisse 13,16: “Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, poveri e ricchi, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio”. Il processo di “omologazione” e di appiattimento culturale di cui Pasolini parlava più di 20 anni fa è sotto i nostri occhi. Alla Chiesa diciamo che è illusione nefasta pensare che il rimedio vada cercato nella rivendicazione di qualche spazio religioso in più o nell’ampliamento della gestione diretta di iniziative sociali a fronte dell’aumento dell’ a partheid sociale o nel mercanteggiare nuovi collateralismi con chi, esaltando la “profittabilità”, fa professione di cattolicesimo. Ci vuole ben altro per affrontare questa sfida: “Se il sale perde il suo sapore…” (Mt.5,13).
Infine offriamo una testimonianza. La nostra. Proponiamo la parola di uno di noi, tra le tante che in questi anni ci siamo scambiate: “Vivo il tempo (l’età) in cui uno si sente chiamato a misurarsi sull’ultimum (“perché non venga all’improvviso”). Penso ci sia un ultimum (giudizio, ventilabro, pigiatura) anche nel credere. Di fronte ad esso tutte le cose penultime diventano in qualche modo “relative” (ho creduto, ho fatto miracoli, ti ho adorato…) In questo ultimum i giudicanti non sono più le regole, le norme, i comandamenti, i confessori, le gerarchie, ma solo coloro che avevano fame e a cui hai dato da mangiare, che avevano sete e hai dato da bere, che erano nudi, perseguitati, affamati di giustizia… L’ ultimum non è quindi il “dopo” della vita ma il suo punto di vista cosciente e responsabile, che relativizza tutto riconducendo le cose al loro zoccolo duro non mistificabile. Come se sentissi il bisogno di non chiedermi ormai più nient’altro che questo: se quello che faccio risponde o no alla domanda del tribunale della storia di oggi” (da una testimonianza del 1994 di Sandro da Milano).
Osiamo proporre anche le parole di un testimone al quale spesso ci siamo riferiti e che riteniamo utili a descrivere il nostro cammino di PO italiani. “Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldi qua della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiqua, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getzemani; e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cfr. Geremia 45 – Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p.446. )
5. La talare lacerata
Che rimane del prete se lo si spoglia della “figura sacerdotale”? Occorre onestamente riconoscere che il card. Pizzardo nella lettera del 1959 aveva dalla sua validi motivi nel sostenere il divieto del lavoro in fabbrica. Se nella sua testa l’icona mentale del prete coincideva con la figura separata e difesa dall’abito talare, chi può negare che le sue preoccupazioni fossero fondate? Cucirvi sopra un pezzo di tela grezza da lavoro esponeva ad inevitabili conseguenze. Con un po’ di ironia si possono citare le parole del Vangelo: “nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio, altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio” (Mc.2,21). Che il vestito fosse e sia, nonostante i ritocchi, tuttora vecchio lo dicono numerosi segnali, in Italia e in varie parti del mondo.
Per quanto ci riguarda, in un convegno di qualche anno fa abbiamo affrontato il nodo di una nostra nuova identità emersa dalla coesistenza nella stessa persona di due figure eterogenee, cariche di simboli, appartenenze, culture, quotidianità tanto diverse. In questo incontro-scontro è avvenuto un processo di destrutturazione e la faticosa ricerca-attesa di una nuova identità… Che è avvenuto in questo processo che ci ha visti soggetti? Qualche anno fa lo chiamavamo incarnazione, farsi uomini.
Ma che uomo è emerso da questa destrutturazione e ristrutturazione? E che ne è del prete, cioè di quel ‘dato di partenza’ esposto per anni ad una pressione continua? È possibile che abbia subito un logoramento tale da modificare i connotati essenziali; oppure, in quella condizione limite, il suo nucleo vitale ne è venuto fuori rafforzato e in migliore evidenza?
Certo, la ‘forma’ precedente è esplosa. La miscela di vino uscito dalla spremitura di questi anni ci ha costretti a cambiare otre. Una trasformazione umana, spirituale, di linguaggio è avvenuta in noi… Davvero siamo diventati profondamente diversi.
Al seminario di Verona sui ministeri così si esprimeva Armido Rizzi, dopo aver seguito i nostri interventi:
“Gente che non dice: ‘ho voglia di andare’, ma è andata: sono narrazioni, non solo progetti di vita. È avvenuta una rottura e una ristrutturazione dell’io: la nuova identità è sorta da questo ‘essere per gli altri’. È un’esistenza ‘compromessa’. Una presenza che fa tutt’uno con la propria identità”.
Questa compromissione, l’essere impigliati in situazioni molto concrete, limitate, parziali ed anche costrittive, fa sì che la nostra vita sia inevitabilmente caratterizzata dall’incompiutezza e dalla frammentarietà… E tuttavia ciò che conta è che una vita frammentaria lasci percepire la compiutezza di un progetto” (Pretioperai n.9-10 – relazione della segreteria).
La stessa parola preteoperaio rappresenta e nomina un essere per, una pro-esistenza, e l’intera nostra storia racconta ed indica, pur con tutti i limiti e le incompiutezze, la direzione dell’esistere per l’altro e con l’altro, concretizzata nella condizione oggettiva e storica che caratterizza la vita operaia e il lavoro dipendente.
Bonhoeffer definisce la trascendenza come “essere per gli altri” ( Resistenza e Resa, pp. 462-463): “L’esserci per gli altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza… La Chiesa è Chiesa solo se esiste per altri. Per cominciare essa deve far dono dei suoi possessi a coloro che si trovano nel bisogno. I pastori devono vivere esclusivamente delle libere offerte della comunità, ed eventualmente esercitare una professione mondana. La Chiesa deve partecipare agli impegni mondani della vita della comunità umana, non dominando, ma aiutando e servendo. Essa deve dire agli uomini di tutte le professioni che cosa sia una vita con Cristo, che cosa significhi “esserci per gli altri”.
Le parole appassionate di Sirio Politi, scritte un anno prima di morire per il numero inaugurale di questa nostra rivista da lui fortemente voluta, esprimono la coscienza chiara della nuova identità:
«Chi ha avuto il dono di Dio di accogliere e di ascoltare e di obbedire a questa violenza interiore che l’ha costretto e spinto ad uscire di casa, abbandonando tutto, per mettersi sulla strada della storia e viverne e condividerne l’avventura, sa bene che ciò che gli appartiene è unicamente la fedeltà.
E cioè la continuità di una presenza non determinata, costruita dal momento, ma di una accoglienza determinante una connaturazione, una precisa, inconfondibile identità… Non è pensabile, onestamente, che la permanenza possa dipendere da una soggettività o peggio ancora dalla giustificazione di un gradimento o dalla constatazione della sconfitta, dall’avvertenza dell’inutilità o semplicemente dal mutare delle stagioni. Il voltarsi indietro non ha assolutamente senso. E tanto meno un arrampicamento per ritrovare condizioni di sicurezza o almeno di una passabile ragionevolezza.
Quando si è posto mano alla pazzia la razionalità più consigliabile è cercare di essere pazzi del tutto… Può essere che solo allora possano sopravvenire condizioni ottimali per la testimonianza.
Perché può avvenire che l’Amore (cioè la vera ragion d’essere della propria vita, l’unica, appassionante spiegazione del proprio destino) sia tutto nel rimanere ; sì, certamente, nel rimanere aggrappati allo scoglio e resistere alle mareggiate, ai marosi che da ogni parte schiaffeggiano e sbatacchiano; ma anche nel rimanere, lasciati andare, fra lo spumeggiare delle ondate che inabissano e innalzano violentemente, affogati eppure sempre a galla, come un rottame.
Su questo rottame può esserci scritto un nome e può significare tutta una storia bellissima, così tanto da meritare di essere tutta o quasi raccontata » (Pretioperai n° zero /1987).
E domani?
Vi è un domani per i PO, oppure la loro storia, sia pure bellissima, potrà essere raccontata solo al passato?
In Europa negli ultimi 5 anni hanno fatto questa scelta in 30; in Italia in 2. I numeri indicano che si va verso una riduzione.
Lasciamo aperta questa domanda molto seria con l’impegno di riprenderla e di approfondirla assieme ai nostri amici europei.
Chiudiamo riportando la constatazione di un PO belga e manifestando una convinzione che ci accompagna da sempre.
La constatazione: “Per la prima volta nella storia, dei preti condividono la condizione abituale di donne e uomini del popolo, senza privilegi, senza diventare notabili”.
La convinzione: il senso dei PO è quello di essere una “minoranza-lievito”, cioè “quella che trova in sé la giustificazione profonda, naturale, totale, di essere quello che si è”.
“La figura del PO ha senso solo se propone interrogativi radicali, con la stessa decisione e nettezza con la quale si è partiti entrando in condizione operaia. La nostra vera preoccupazione non ci sembra debba essere l’assillo per il nostro futuro o per chi verrà dopo di noi, quanto di essere fedeli alla proclamazione fatta con la vita e la parola dell’assoluta novità della giustizia del Regno di Dio che il vangelo continuamente annuncia.
“Il senso della nostra vita non ci verrà dal vedere con gli occhi chi sa quali cambiamenti, ma dalla consapevolezza di chi sa che sta giocando per sé e per gli altri una carta importantissima, che sta piantando un fiore bellissimo, che sta camminando per un sentiero inesplorato, che sta aspettando con la certezza della sentinella l’alba che spunta”.