Nel 1950 don Bruno Borghi, primo prete operaio italiano, varcava i cancelli della fonderia Pignone di Firenze.
Don Sirio Politi, nel 1956, iniziava il lavoro in un cantiere con 400 operai a Viareggio. Nel 1959 l’allora S. Ufficio sanciva l’incompatibilità tra lavoro in fabbrica o nei cantieri con la vita e gli obblighi sacerdotali.
Durante gli anni del Concilio Paolo VI riaprì la possibilità di far coesistere il ministero presbiterale e il lavoro; successivamente, nel documento Septuagesima adveniens del 1971, arrivò a scrivere: “la chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine e della ricerca della chiesa medesima”.
In tanti abbiamo seguito questa strada, nel triangolo industriale e in parecchie altre regioni italiane. La stragrande maggioranza dei vescovi italiani non era del parere di Paolo VI. Pertanto la decisione di entrare nella condizione di vita operaia per la quasi totalità è stata l’assunzione di responsabilità personale, in un ambiente ecclesiale non favorevole. Perché allora?
Perché farsi operai?
I semi del Concilio erano caduti nel terreno della nostra vita. Pensiamo alle parole di Giovanni XXIII nel radio- messaggio a un mese dall’apertura del grande evento: “Primavera della Chiesa…La Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri…”. Poi i documenti del Concilio con la centralità della Parola a cui tutti, compreso il Papa, sono soggetti, la liturgia nella lingua parlata, la Chiesa come comunione che si identifica col popolo di Dio, la Chiesa nel mondo, “solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS 1). Però il profilo del ministero ordinato non si scostava nella sostanza dall’impianto tridentino. Sì, l’ecclesiologia aveva un diverso respiro rispetto alla societas perfecta, ma la dottrina sui ministeri era rimasta al palo. La scelta nostra è stata l’adozione di una forma vitae che assumeva i paradigmi emersi nel Concilio mediante un’opera di conversione che riguardava l’intera vita: un processo lungo, costoso, spesso solitario, ma creativo. Ciascuno ha un’unica vita da spendere e deve assumersi la responsabilità di operare nel proprio tempo, nel limite di una sola vita. Anche correndo il rischio di compiere degli errori.
Siamo entrati nella storia quotidiana e laica di uomini e donne che vivono del proprio lavoro. Questo ha rappresentato una vera uscita, materialmente vissuta, con la nostra esistenza cadenzata sulla base oggettiva del lavoro. “Come loro”, il titolo di un libro di René Voillaume, per noi ha voluto dire assumere un ritmo di vita e apprendere abilità, mentali e manuali, per diventare compagni affidabili e capaci nello svolgimento delle attività condivise. Insieme si faceva fatica, si respiravano i fumi, gli odori, l’esposizione a sostanze nocive per la salute, il rischio degli incidenti, le lotte sindacali, la precarietà. Tutto questo in una varietà di situazioni dovute all’ambito in cui si lavorava e ai luoghi geografici di appartenenza. Mi sembra utile riportare alcune righe della mia relazione presentata nel 1986 al nostro convegno nazionale di Firenze: “Come diceva Armido Rizzi lo scorso anno dopo averci ascoltato nel seminario sui ministeri, per noi «è avvenuta una rottura ed una ristrutturazione dell’io: una nuova identità è sorta da questo essere per gli altri. Una esistenza compromessa. Una presenza che fa tutt’uno con la propria identità». Ma non è nato un modello univoco di prete operaio. Se mai c’è stata questa idea, la realtà dei fatti non ha durato fatica a smentirla. Assumendo come punto d’osservazione la collocazione materiale, tra noi ci sono: disoccupati e garantiti, artigiani e contadini, metalmeccanici e lavoratori dei servizi, precari e prepensionati, operatori tecnologizzati e addetti alle pulizie…Siamo uno spaccato abbastanza fedele dei lavoratori italiani. Sotto questo profilo possiamo dire che l’incarnazione in condizione operaia, che fin dall’inizio abbiamo perseguito come obiettivo, è pienamente riuscita”. Nei decenni trascorsi abbiamo vissuto la transizione dalla seconda alla terza rivoluzione industriale: quella serie di processi di trasformazione della struttura produttiva, e più in generale del tessuto socio-economico con l’avvento della tecnologia digitale con l’introduzione dei computer e della robotica.
I nuclei spirituali del nostro cammino
Ora vorrei accennare ad alcuni filoni spirituali che hanno ispirato e nutrito la ricerca e il cammino della nostra vita, segnando anche le differenze tra noi, combinandosi tra loro nella esistenza di ciascuno.
- La missio sopra indicata da Paolo VI: quella di portare il Vangelo alle masse operaie, tipo la Mission de France.
- Il filone della condivisione, sullo stile dei Piccoli Fratelli e Sorelle di Charles de Foucault. Era l’acquisizione di un profondo “costume di vita”. L’essere con gli altri “come loro” e per loro.
- L’opzione etica dell’appartenenza a una classe sociale, il “Soggetto storico” che lotta per ottenere un più alto livello di giustizia nei rapporti di lavoro e nella società.
- La condizione operaia, assunta come scelta esistenziale, per dare volto a una chiesa povera e dei poveri.
- A questo si aggiunge quanto espresso in particolare da don Luisito Bianchi in tutta la sua fecondissima produzione letteraria: l’unico senso del prete al lavoro è la gratuità del ministero.
- Prete operaio come rappresentanza, recentemente messo in evidenza dai preti operai francesi. Le comunità umane del lavoro, assenti alla tavola eucaristica, vengono rappresentate da preti che condividono la loro vita. La rappresentanza va interpretata in maniera forte (Bonhoeffer parla del principio della “sostituzione vicaria” come “agire rappresentativo” che direttamente si riferisce a Gesù, ma diventa principio di azione anche per noi).
Uscire dal clericalismo
La nostra parabola storica qui in Italia sta chiudendosi. Può avere un significato per la chiesa di oggi? Intanto una cosa. Il lungo cammino che abbiamo compiuto dando un volto diverso al ministero presbiterale è oggettivamente la smentita della incompatibilità di cui si è parlato. E’ sotto gli occhi di tutti che la forma di ministero sacerdotale che evoca i criteri tridentini non tiene più. A suo tempo noi abbiamo accettato fino in fondo il processo di secolarizzazione e siamo entrati in esso. Ormai siamo alla quarta secolarizzazione [1]. Negli anni ’80 Balducci scriveva, riferendosi a D. Bonhoeffer: “In lui, come nei preti operai, la fine della cristianità non era un tragico evento da subire, era un progetto da abbracciare senza riserve e opportunismi. Come risposta evangelica ad una situazione dell’uomo totalmente cambiata” [2].
Papa Francesco ha lanciato la “Chiesa in uscita”. Questo noi lo facciamo da decenni. Le cose non si ripetono mai uguali, però la nostra uscita dal clericalismo che – a detta del papa – “genera una scissione nel corpo ecclesiale” e un grave impedimento alla fioritura della grazia battesimale dei cristiani, è una testimonianza significativa e attuale. [3].
Nel nostro convegno dello scorso anno Andrea Grillo ci ha lasciato queste parole: “i preti operai sono stati e sono ancora, sebbene in modo più defilato, traccia di provocazione, forma visibile e profezia”. Indicano alla Chiesa la possibilità di una sua “uscita dalla autoreferenzialità…perché dobbiamo dirlo apertamente, una chiesa autoreferenziale è una contraddizione in termini: una Chiesa che non dice Cristo come vero Dio e vero uomo, ma solo se stessa, è una chiesa falsa o forse solo Chiesa morta e che non sa di esserlo”.
Molti di noi hanno varcato la soglia ultima. In ciascuno di essi ha preso corpo una parabola esistenziale. Le parabole del Vangelo sono tutte laiche e Gesù le diceva come somiglianza al Regno che annunciava. Tanti anni fa scrivevamo: “Siamo coloro che interpretano le parabole rappresentandole, come in una grande recita nella quale ci è toccata la parte del lievito: che non sa se la pasta fermenta bene o male”
Articolo scritto da Roberto Fiorini per la Rocca , rivista della Cittadella di Assisi
[1] L. Berzano, Quarta secolarizzazione. Autonomia degli stili, Mimesis Milano2017.
[2] E. Balducci, L’uomo planetario, E.C.P. Fiesole (FI) 1994, p. 35.
[3] Lettera del Santo Padre al popolo di Dio, 2018.