ricordiamo

Ernesto Balducci

Dopo 20 anni dalla morte, la memoria corre a due persone che hanno profondamente segnato la nostra generazione. Siamo andati a cercare tra le tante pagine che ci hanno lasciato in eredità e abbiamo scelto queste due che vi proponiamo.
La prima è presa da uno degli ultimi libri di Balducci, l’Uomo planetario. Ci parla del necessario salto che le religioni tutte devono fare dinanzi al processo di unificazione che, nel bene e nel male, è in atto nel mondo. L’evento narrato assume la figura di un simbolo che, dentro la tragedia, enuncia un futuro. E’ parola profetica e per questo perfettamente attuale. Ci sta ancora davanti e quindi è capace di illuminare il nostro cammino.
L’altra l’abbiamo presa tra le moltissime poesie che Turoldo ha composto. Questa era sbocciata in occasione del settantesimo compleanno di Benedetto Calati, camaldolese. E’ carica di dolore quando parla del Concilio: “uno scialo di speranze”, ma non è disperata. Occorre riprendere a comporre “nuovi cantici perché la terra torni a sperare”.

Ancora una volta ci si affida alla debolezza della parola che diventa canto.
Espressioni vive di una speranza mai perduta. Testimone da afferrare con le mani, generazione dopo generazione, nella corsa della vita.

L’UOMO PLANETARIO
di Ernesto Balducci

Il 3 febbraio 1943, nelle acque della Groenlandia, la Dorchester, colpita da un siluro tedesco, stava per affondare. Chi non aveva un salvagente era perduto. «Nella lotta selvaggia per la vita» racconta un testimone, «quattro uomini rimasero calmi e consapevoli, quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici. Si erano legati l’uno all’altro per non cadere dalla coperta viscida e già fortemente inclinata. Tutti e quattro avevano avuto la loro cintura di salvataggio, ma ciascuno aveva offerto la propria ad un uomo dell’equipaggio. Allorché la Dorchester s’impennò, prima di colare definitivamente a picco tra i flutti, si videro i quattro per l’ultima volta. Stavano ritti e immobili tenendosi per mano, addossati contro il parapetto: pregavano».
Da quando ebbi notizia del fatto, la catena dei quattro uomini di Dio è entrata a far parte del mio mondo interiore: è come l’orizzonte simbolico in cui mi imbatto quando mi volgo indietro per fissare il momento in cui cominciò ad inabissarsi il passato di cui sono figlio e a prender forma quel futuro a cui non riesco ancora a dare un volto. Nel gesto dei quattro eroi (che via via, nella mia immaginazione, sono diventati molti di più) non c’è solo l’atto individuale che più di ogni altro avvicina l’uomo a Dio, c’è la fine dell’età delle molte religioni, la fine volontaria che ha partorito l’unica religione all’altezza della nuova età della nostra specie: la religione che assume come valore sommo la salvezza dell’uomo anche mediante il dono della propria vita. La novità della situazione storica è che ormai l’umanità si trova raggruppata in un breve spazio nel quale si stanno consumando le pareti di separazione tra le molte etnie, e, quel che più conta, raggruppata sotto una medesima minaccia di morte. Che senso avrebbe, mentre il naviglio va a fondo, che le religioni continuassero a discutere tra loro per rivendicare il titolo dell’universalità? Se davvero esse vogliono rendere onore a Dio, si liberino della cintura di salvataggio e accettino il rischio comune. Come dire: muoiano al proprio passato e dimostrino con i fatti che a generarle è stato non il timore, ma l’amore.

Gli amici ricordano…

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