ricordiamo

Mario Colnaghi

Ciao, Mario…

Il 30 marzo ci ha lasciato don Mario Colnaghi preteoperaio della diocesi di Milano.
Nato nel 1924 è diventato prete nel 1950. Fino al 1970 è stato cappellano in parrocchie del milanese. Trasferitosi a Varedo, ha lavorato come operaio turnista sui tre turni, alla Pirelli di Milano sino alla pensione.
Nel 1988 è stato colpito da ictus e ha trascorso il resto della vita in una casa di riposo.
Partecipava ai periodici incontri dei pretioperai lombardi, fino a quando la salute glielo ha consentito.

Chi avesse ricordi personali, documenti o testimonianze su di lui è pregato di farli pervenire alla redazione di Pretioperai.
Qui abbiamo raccolto alcuni documenti utili che ci aiutano a ricordare il lungo cammino che don Mario Colnaghi ha condiviso con i pretioperai. Alcune scarne informazioni sono state fornite nell’annuncio della sua scomparsa pubblicato sul precedente quaderno della rivista; di seguito le riproduciamo nuovamente.
Quelli che ora pubblichiamo rappresentano momenti colti dal vivo, nello svolgersi della vita:

  1. Appunti di Mario
  2. Una pagina del diario di Luisito Bianchi
  3. Un articolo di Giancarlo Zizola che riporta un intervento di Mario (1976)
  4. Un’intervista di Mario rilasciata a Famiglia Cristiana (1981)

 

1. Appunti di Mario

Risalgono al 1980. I pretioperai lombardi si sono ritrovati insieme a Fontanella di Sotto il Monte (BG) per fare il punto della situazione e cercare un riorientamento comune. Ciascuno doveva fare una propria comunicazione. Nel fascicolo che raccoglie i testi di 22 presenti troviamo gli appunti di Mario che riportiamo nella loro sintetica stesura.

Chiesa e società
– Libertà nella e fuori della chiesa.
– L’operaio è il ribelle a questa società illiberale; l’operaio è colui che rifiuta lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
– Fuga da un mondo-chiesa strutturalmente ‘vertice-servitori’
– La scoperta nel cammino operativo di prete che la Chiesa è collocata nel mondo capitalistico dalla parte dei potenti, politici, economici.
– Presa di distanza dal modo di pensare e vivere della Chiesa: ideologia occidentale, filosofia greco-scolastica.
Se per essere cristiano e prete si deve essere meno uomo allora vuol dire che “il” o “quel” cristianesimo è prevalentemente prevaricante rispetto al cristianesimo originario.
– Soddisfazione di essere uomo libero nella Chiesa e ribelle nella società.
– Io non ho ribaltato niente: sono rimasto operaio, sono stato rimproverato di non essere diventato un chierico.
– Ho portato lo strumento cultura, parola, prestigio al servizio della classe operaia che, se anche emergente, è sempre quella degli sfruttati.
– Mettere dei dubbi sulle convinzioni che lo sviluppo della Chiesa è il migliore possibile e che non ci sia più spazio per lo fantasia creatrice anche nel campo della Chiesa.
– Radicato nel valore storico della tematica del Concilio. Radicato nel significato delle rivolte dei campus universitari americani, del maggio francese e l’autunno caldo degli operai italiani. Punto d’arrivo.
Motivi: soddisfazione/realizzazione. Tensione su punti franchi acquisiti sia nella Chiesa che nella società. Lettura orizzontale e quindi politica dello Parola di Dio.


2. Dal “Diario di Fabbrica” di Luisito Bianchi
Luglio 1970. Don Mario ha deciso di entrare in fabbrica. La tensione è altissima. È il primo caso a Milano di un prete che varca quei cancelli con la tuta da lavoro…

…Voglio salutare don Sandro Mezzanotti, l’assistente provinciale delle ACLI, ma non c’è; è in Curia. Mentre sono alla Corsia dei Servi mi raggiunge una sua telefonata. Ha bisogno urgente di vedermi. Ci incontriamo un’oretta. È appena uscito dal Cardinale. C’è un prete che vuole ad ogni costo andare in fabbrica, che s’è già compromesso con i sindacati, che dice la sua scelta di classe, di buttarsi completamente nella CGIL per la promozione ecc. Già me ne aveva parlato. Ora sembra che la cosa sia al limite della rottura. Scambio di lettere col Cardinale [Giovanni Colombo], piuttosto dure, almeno dalla parte del prete. Al punto che sembra abbia rinunciato ad ogni sua funzione ministeriale e abbia detto che usciva anche dalla chiesa ambrosiana. Il parroco del luogo (Varedo, dove c’è la SNIA), un ex assistente ACLI [don Piero Galli, già assistente Acli a Varese, nominato poco dopo responsabile dell’ufficio diocesano per la Vita Sociale e il Lavoro], s’è irrigidito ed ha provocato una sospensione a divinis, poi rientrata. Il Cardinale, ora, sembra disposto a concedere l’autorizzazione (autorizzazione o no, il prete andrebbe ugualmente in fabbrica) ma vuole garanzie, per “salvare” quel sacerdozio.
Don Sandro mi chiede un parere. Che parere posso dare? Dico che la fiducia è l’unica possibilità di intesa, che bisogna rischiare, che bisogna dare il diritto allo sbaglio, che non saranno le strutture a “salvare” il sacerdozio.
Ci addentriamo in discorsi seri: sul senso di andare in fabbrica. Affermo con decisione che non è tanto per un motivo ad extra quanto ad intra : per convertirci, noi Chiesa clericale, al Vangelo (mezzo, evidentemente, fra i molti). Non si tratta di pastorale per il mondo del lavoro, quanto di conversione. Che cosa si vorrebbe presentare, infatti, a questo mondo? Questa Chiesa che non può e, nemmeno, deve accettare? Puliamoci, convertiamoci e poi faremo la proposta. Oppure, è lo stesso, facciamo la proposta mentre ci convertiamo. Invece c’è ancora l’illusione che i programmi, le strutture, possano risolvere il problema. La storia recente non ha insegnato nulla. Non abbiamo sempre fatto programmi, istituzioni? E che cosa abbiamo? Niente. Dobbiamo ammettere che non abbiamo concluso niente. Non è, questa, la dimostrazione evidente che dobbiamo cambiare sostanzialmente strada?
Ed ecco la proposta: non potrei, io, venire a Milano a costituire una comunità di preti che lavorano? Ne ha parlato al Cardinale. Ancora la struttura che salvaguarda!
Gli rispondo che non so nulla, che sono al buio più completo e che mi affido alle circostanze, come segni della strada che bisogna percorrere. Non sono né per il sì, né per il no. Nell’assoluta incapacità a scegliere, a decidere, perché non ho nessun programma.
Mi terrà informato. Dice che a Milano molti settori sono in ebollizione. Sarebbe ora. Ma il discorso rimane sempre il solo, l’unico, quello della fede, di Dio Signore e tutt’ Altro.
Adesso vado in cucina per il pranzo. Realtà anche questa, che bisogna affrontare e che i facitori della pastorale operaia ignorano, fra le molte che nemmeno sospettano.


3. Inattesa visita al congresso di Serramazzoni
IL VESCOVO È ANDATO DAI PRETI OPERAI

“Malgrado il vostro no alla proposta di un rapporto organizzato con la gerarchia – ha detto monsignor Pagani – la riconciliazione deve essere tentata”.
“La Chiesa — gli hanno risposto – deve conciliarsi anzitutto col mondo operaio” (da “IL GIORNO” del 6 Gennaio 1976)

Serramazzoni, 5 gennaio 1976 / Dal nostro inviato Giancarlo Zizola

Il Vescovo monsignor Cesare Pagani è entrato nella sala dell’albergo di Serramazzoni mentre i preti operai, che avevano detto no alla sua proposta di un rapporto organico con la gerarchia episcopale italiana, stavano pranzando. Vestiva un cappotto nero sul clergyman con un impeccabile cappello borghese. È passato tra i tavoli con nessun altra reazione che un canto sommesso di un gruppo: “Noi siam lavoratori”. Così è cominciata la prima missione ufficiale di un vescovo italiano, molto vicino a Paolo VI e certamente munito di un’investitura dall’alto, al convegno dei 160 preti operai italiani, per molto tempo ritenuti un corpo separato nella Chiesa cattolica: tanto più dopo le recenti prese di posizione anticomuniste di vari membri dell’episcopato.
“Sono nella tana dei leoni”, ha detto il vescovo di Gubbio e Città di Castello, sedendosi anche lui a tavola. Pochi potevano immaginare che egli venisse. Si riaccendevano vecchie memorie storiche: la condanna del ‘54 contro i preti operai francesi, malgrado i tentativi compiuti da monsignor Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato di Pio XII, di evitare questa repressione, vista come un disastro per il rapporto tra Chiesa e mondo operaio in fuga. E poi il Concilio Vaticano II che aveva lavato la vecchia condanna e accettato la presenza dei preti operai nella Chiesa. E adesso chiaramente non poteva essere tollerato, specie per la Chiesa in Italia, che un gruppo di preti operai, proprio quelli italiani, dicesse no alla Chiesa ufficiale, anche perché sono in corso i preparativi per il convegno di tutte le componenti della Chiesa italiana su evangelizzazione e promozione umana.
“La Chiesa deve poter recuperare la sua unità” diceva monsignor Pagani mentre le voci metallurgiche dei preti operai attraversavano i vetri della sala inneggiando forte la canzone degli Inti Illimani: “El pueblo unido jamas sarà vencido”. Monsignor Pagani aggiungeva: “L’inserimento organico di questi preti generosi nella grande avventura cristiana aiuterà la Chiesa a essere missionaria”. E il coro, fuori, scoppiava nel canto provocatorio: “Allarmi siam fascisti”. “Son venuto — spiegava Pagani — perché malgrado il no della maggioranza dei preti operai la riconciliazione è un’impresa da tentare”.
Un’ora dopo i 160 preti operai cantavano l’Internazionale nella sala del convegno. Molti di loro erano un tempo clandestini, emarginati, oppure considerati eretici o espulsi perché partecipavano alle lotte operaie. Ora un vescovo entrava per la prima volta in mezzo a loro e prendeva il microfono: “ho accolto l’invito a venire qui – ha cominciato con voce sommessa – anche per spiegare la proposta del rapporto organico che avevo fatto in dicembre. Cosa intendevo per rapporto organico? Un rapporto di vita, autenticamente ecclesiale, ove ognuno si comporti in totale libertà e con pari dignità nei confronti dell’altro e nel rispetto delle reciproche funzioni. Nella chiesa i rapporti tra i vari membri sono continui, liberi, dignitosi, nel rispetto delle funzioni rispettive. Il come è da inventare in pratica. Ho preso atto della vostra decisione che mi rende addolorato. Resto però fedele alla mia opinione e continuo ad avere stima, rispetto e amicizia per voi. Prendo atto del fatto che desideriate un raccordo immediato con i vostri vescovi nelle vostre Chiese locali. È un dato molto positivo e m’impegno perché tutti i vostri vescovi si aprano a questo incontro con voi”.
Allora si sono alzati uno dopo l’altro i delegati dei vari gruppi regionali. Sergio Pellegrini per i preti operai del Veneto: “Il rapporto c’è già alla base con i nostri vescovi e non occorrono mediazioni di vertice. Esigiamo che i vescovi vengano direttamente da noi. Il dialogo c’è sempre stato”. Pagani ascoltava prendendo appunti.
Si è alzato poi il “patriarca” dei preti operai italiani, Sirio Politi, per il gruppo toscano: “Il regno dei cieli – ha cominciato – è simile a un vescovo venuto ad incontrarsi con i preti operai. Quando è entrato nella sala ha preso i fogli di una sua recente pastorale anticomunista e gli ha dato fuoco. È la prima volta comunque che un vescovo viene incontrato da noi. Da vent’ anni aspettavo questo momento. Perché vent’anni senza incontro? Di chi la responsabilità di questa separazione? Non nostra. Di nostro c’è un’enorme solitudine, sofferenza, una maggiore fatica di fede, un pagare di persona. Chi ci ha rimesso è stato il rapporto tra Cristo e la classe operaia per questa lontananza. Comunque eccoci a questo incontro. I re magi dopo un lungo cammino sono arrivati alla mangiatoia dei poveri, dei soli, degli oppressi. Erano guidati da una stella. Ma lei, vescovo, da quale stella è guidato? Noi non siamo degli ingenui. Sentiamo il pericolo di una certa strumentalizzazione. Sappiamo che i vescovi hanno bisogno di socializzare la pastorale, di una copertura a sinistra del sistema che va a destra, tentano di incrinare la nostra unità, hanno bisogno di gettare un equivoco sulla nostra purezza di appartenenza alla classe operaia. Ma noi non siamo disposti a sacrificare questa appartenenza. Non siamo solo dei preti ma anche preti operai. Dunque anche classe operaia con le sue scelte di classe e con le sue analisi. A questo non possiamo rinunciare. In noi la chiesa deve incontrarsi con la classe operaia, fatta di credenti e non credenti e di credenti marxisti. Diversamente non vedo possibilità di un rapporto”.
Ha parlato poi per il movimento operaio più antico d’Italia, quello piemontese, Antonio Revelli, il quale ha criticato i recenti atteggiamenti della gerarchia italiana, per esempio la presa di posizione del cardinale Poletti, quella dei vescovi lombardi, la dichiarazione del Consiglio permanente della CEI, considerati da lui come “un appoggio di fatto al capitalismo”, e come una “sconfessione di chi anche fra i credenti accetta il movimento operaio”.
Colnaghi, un prete operaio che lavora alla Pirelli, ha parlato per il gruppo lombardo: “Il problema vero – ha detto – è che la chiesa si riconcili con la classe operaia e allora si riconcilierà anche con i preti operai”; egli ha chiesto ai vescovi di “restituire” la parola al popolo di Dio e ha detto: “Ben venga la riconciliazione tra noi purché sia sotto il segno di una precisa scelta dei poveri da parte della chiesa”.
Infine per la delegazione dei preti francesi, i pionieri di questo movimento, ha parlato Jean Perrot, il quale ha molto insistito sul rapporto necessario tra preti operai e vescovi: “Prego monsignor Pagani e con lui tutti i vescovi del mondo — ha detto — che mai più in nessun paese la chiesa gerarchica chieda ai preti di scegliere tra la classe operaia e la chiesa. Noi resteremo fedeli alla classe operaia non solo a nome della nostra solidarietà di classe ma anche per fedeltà al Vangelo e alla chiesa di Gesù Cristo. In Francia la classe operaia credente o non credente non ha mai dimenticato il peccato mortale del 1954”.
Col canto dell’Internazionale da parte dei preti operai si è concluso questo incontro. Ma monsignor Pagani, socchiudendo gli occhi, ha ripreso il microfono per dire: “raccolgo la necessità ribadita qui per il cumulo di problemi che non possiamo trascurare; per il bene degli operai e per l’amore di Cristo, è necessario un rapporto continuo, fraterno, tra il vostro collettivo e noi poveri vescovi. Occorre inventarlo”. 


4. È possibile il dialogo tra chiesa e mondo operaio?
L’ENCICLICA NON È STATA SCRITTA UNICAMENTE PER I POLACCHI

Intervista a don Mario Colnaghi su Famiglia Cristiana del 29 novembre 1981
in occasione della pubblicazione dell’enciclica di Giovanni Paolo II, “Laborem exercens“

[…] E dunque, da ultimo, ma non meno importante, l’aspetto religioso della faccenda. L’esempio polacco, dapprima “sottovalutato”, diventa “clamorosa scoperta”. Si riconosce che senza il sostegno della chiesa non sarebbero state strappate le riforme democratiche di cui oggi il Paese usufruisce. Si ammette che, per anni, i preti sono stati i difensori degli impulsi liberali contro il regime. Ma quel che affascina è il tipo di nuovo rapporto che, coinvolgendo posizioni anche ideologicamente lontane, ha dimostrato di poter dare buoni frutti.
Inevitabile il confronto: la realtà italiana è un’altra cosa. Le opinioni – vedremo poi – sono abbastanza divergenti. Il dibattito è comunque limitato. Se c’è da generalizzare, si può dire che la gran parte degli operai ha le proprie convinzioni, non del tutto immotivate.
Cosa dicono gli operai? Proviamo ad ascoltare qualche voce di chi sta dentro – per esempio – la Pirelli, reparto 55 (che nel ’91 fu centro di importanti lotte per umanizzare i ritmi di lavoro):

Tonino: “i polacchi sono partiti bene, ma c’è il pericolo degli estremisti, di certi intellettuali che vogliono tutto, subito, e gratis”.
Gianni: “il diritto di esistere degli operai organizzati in sindacato è già qualcosa, ma è ancora poco”.
Salvatore: “condivido l’azione dei compagni polacchi con tanti ma e se”.
Giovanni: perché lo sciopero degli operai polacchi è sbandierato come una conquista, e i nostri scioperi la stampa li giudica rovinosi?”.
“Globalmente il giudizio su Solidarnosc” è positivo, anche se mi piacerebbe sentire l’opinione dei giovani. Ma qui non ce ne sono; alla Pirelli non assumono operai dal Settantuno “, mi dice Mario Colnaghi, prete operaio e rappresentante del Consiglio di fabbrica. Dice: “il giudizio dei compagni di lavoro è positivo, tuttavia c’è chi sostiene che “Solidarnosc” puzza troppo di America e di chiesa; intendendo per America il capitalismo e per chiesa il supporto religioso al capitalismo”.

Può spiegare meglio, don Mario?

“In Polonia la chiesa per mille anni è stata con la classe oppressa, contro il potere. Anche in Italia è accaduto questo: fenomeni di ribellismo cattolico ce ne sono stati, e molti. Basta ricordare l’azione dei preti nella Resistenza, preti che hanno imbracciato il fucile per combattere i nazifascisti. Un fenomeno ignorato, tacitato dalla stessa nostra gerarchia. Sono cose che sfuggono alla storia perché la Sinistra ha monopolizzato la Resistenza e da parte cattolica c’è stata una resa senza condizioni “.

AIl’accusa mossa alla chiesa di essere il “supporto al capitalismo”, secondo te come ci si è arrivati?

“Se la sono tirata addosso. Al prete medio italiano, pur con qualche correzione, il capitalismo va bene. In parrocchia si condanna il marxismo, ma non in uguale misura il capitalismo, che si fonda pur sempre sul materialismo economicistico. Eppure trovi il parroco che ti dice: “in fondo, cosa vogliono questi operai che hanno la televisione, che hanno la macchina, che hanno la casa?”. Hanno qui, hanno là: è un bel dire quando non si conoscono da vicino gli operai. Io che ci vivo in mezzo posso dire: quest’anno alla Pirelli un sacco di gente non è andata in ferie perché non ce l’ha fatta. Uno, anche se tira ottocentomila lire al mese tra turni di notte, cottimi, orari massacranti, con l’inflazione che si ritrova non mette via i soldi per le ferie “.

Il prete medio, come lo chiami tu, adesso ha l’enciclica su cui riflettere, gli può servire?

Recepisce la condanna del marxismo, meno quella del capitalismo, questa è la mia opinione”.

Non c’è via d’uscita dunque, don Mario?

“No, se non si sperimenta la vita del lavoratore. Non è necessario che tutti i preti vadano in fabbrica, ma l’esperienza del prete operaio deve essere allargata”.

Soltanto così la chiesa potrà riacquistare fiducia?

“I preti che lavorano in fabbrica portano delle notizie su un mondo completamente sconosciuto. La gerarchia questo lo sa. L’Arcivescovo Martini mi accetta per quel che sono, per quel che dico, gli posso parlare da fratello a fratello. Egli ripone molte speranze nell’opera dei preti operai, ti incoraggia ad andare avanti. Così faceva anche il Cardinale Colombo, che non mi ha mai tolto la fiducia e mi ha difeso contro tutti e contro tutto. Ma noi preti operai siamo ancora pochi”, risponde don Mario.

Le cose stanno così oggi. Le difficoltà sono molte: una è trovare un linguaggio comune su cui allargare la partecipazione. In questo senso si è fatto poco.

“Conosco i comunisti che vanno in chiesa, portando i figli al battesimo, alla comunione, ascoltano la predica alla domenica, ma per loro è come acqua sul marmo. Dicono: ‘Va bene, il prete dice tante belle parole, però la chiesa in Italia è al servizio del padronato’, e non c’è possibilità di dissuaderli”, conclude don Mario.

Gli amici ricordano…

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