CIVILTÀ TECNOLOGICA, SFRUTTAMENTO, EMARGINAZIONE
“La fede interroga i progetti”
Convegno nazionale PO 1986
7) Dopo Firenze…
PER ESPRIMERE LA MATURITÀ DELLA NOSTRA ESPERIENZA
Il seminario “Ricerca sui ministeri” (‘85) e il convegno nazionale del maggio scorso “Civiltà tecnologica, sfruttamento, emarginazione: la fede interroga i progetti” ci hanno impegnato in un confronto su nodi scottanti, ma estremamente fecondi.
Nel primo l’impegno avveniva sul terreno teologico-spirituale (teologia come riflessione critica sulla vita e prassi cristiane); nel secondo la tensione era prevalentemente politica, pur rimanendo presentissima, come “cantus firmus”, la fede povera interrogante (ma pure interrogata).
Ricordiamo certo la trepidazione con la quale siamo andati a questi appuntamenti importanti, accompagnati dal timore di non farcela a gestire in termini positivi problematiche complesse, ed anche dirompenti.
Ci sembra di poter dire che, aldilà dei risultati sul piano dei contenuti, questi due incontri hanno avuto su di noi un effetto liberatorio: tra noi è possibile comunicare e costruire discorsi a tutto campo, sia sul versante ‘religioso’ che su quello ‘politico’. Insomma ci sembra di poter affermare che ne siamo usciti, nonostante tutti i limiti, più liberi e maturi.
Jean Perrot, “amico fedele degli italiani”, nel suo intervento a Firenze, testimoniava a nostro favore una avvenuta “maturazione operaia”.
Riteniamo utile farvi conoscere le riflessioni “a caldo” che, dopo il convegno, Cesare Sommariva di Milano ci ha fatto pervenire…
SUL CONVEGNO DEI PRETI OPERAI: alcuni pensieri iniziali
1. IL CONTENUTO: essendo stata la preparazione molto collegiale, mi sembra che il contenuto sia stato “utile”.
Tecnologia, sfruttamento, emarginazione: la fede interroga i progetti. Sono titoli che contengono le cose principali di oggi:
* il dibattito sulla tecnologia ha evidenziato i suoi limiti sia di diffusione, sia di progresso
* sfruttamento, emarginazione: la riaffermazione del meccanismo principale (lo sfruttamento) e l’enumerazione di alcune conseguenze emarginative hanno permesso
– di legare “vecchie e nuove povertà” tra loro,.
– di capire che l’emarginazione sta diventando non più solo una conseguenza, ma addirittura un meccanismo
– e perciò capire la diffusione dello sfruttamento capitalistico anche fuori dalla fabbrica.
* progetti di reazione: è stato un inizio di dirci cosa stiamo facendo
* la fede: la relazione di Biagio ha collocato bene il ruolo della fede: essa interroga.
2. LA DINAMICA: è stata una dinamica in crescendo
* i PO sono persone che hanno dovuto ogni momento da anni lottare contro le diffidenze da ogni parte.
Hanno affinato meccanismi di difesa che permettono loro di ‘sopravvivere’ e sono ciascuno una galassia a sé.
* All’inizio sembravano galassie differenti di cui si temeva lo scontro. Alla fine ci si è riconosciuti come appartenenti alla medesima galassia. Non a un medesimo sistema solare. Infatti non c’è “sole” attorno cui tutto ruota.
* Il bello è stato lo sciogliersi di diffidenze, il riconoscere il diritto di “alterità”, il negare l’unicità della figura del preteoperaio, e contemporaneamente riconoscere l’appartenenza a medesimi “spiriti”.
Gli interventi finali sono stati di questo tipo: “Dopo tanti anni parlo, perché si sono sciolte le diffidenze, le difese…”. Bello è stato riconoscere pubblicamente l’irritazione personale iniziale rispetto agli altri, eccetera.
3. IL GIUDIZIO SUL CAMMINO GLOBALE:
* mi è sembrato il convegno di inizio di maturità di esperienza.
* non si ragiona più in termini di difesa, o di negazione, ma iniziano a funzionare i meccanismi di intervento propositivo
– sia a livello sociale
– sia a livello ecclesiastico
* mi è sembrato quindi un convegno di età adulta, che segna il momento di inizio costruttivo. Non per niente la proposta di una rivista che proponesse fatti, considerazioni, idee… è stata accolta.
La domanda è: come gestire questo momento? Certamente con una segreteria così e con un coordinamento sempre più funzionante in due sensi.
Sottolineiamo “inizio di maturità di esperienza” e “convegno di età adulta, che segna il momento di inizio costruttivo”.
Inizio e maturità: il primo termine indica un momento sorgivo, creativo, nuovo; il secondo indica il disincanto, l’essere radicati nella vita, non nel desiderio o nel sogno, esprime lo spessore di anni duri e pagati.
Viene in mente la parabola evangelica dello scriba che dal suo tesoro tira fuori “cose vecchie e cose nuove”.
Forse è quello “stato di grazia” di cui parlava Berton al convegno: “in noi P.O. vi è uno stato di grazia che consiste nel fatto che o è stata conquistata o ci è stata regalata la libertà… le nostre radici sono scoperte…”.
Il problema che oggi si pone con lucidità e urgenza maggiore che nel passato è: come far fruttificare tutto il potenziale di vita, esperienza, militanza, fede, preghiera, sofferenza e sapienza che in tanti anni di lavoro si è accumulato in noi? Come assolvere fedelmente il compito che oggi ci viene affidato, nella e dalla linea di confine che è il nostro essere PO? Come essere espressione di interrogativi radicali, al di fuori dei quali la nostra presenza di PO perderebbe qualunque ragione di esistere?
Un progetto di ampio respiro
Dal recente convegno sono uscite indicazioni precise sulle linee di ricerca per il futuro. Sono aree di riflessione che via via sono andate distinguendosi in maniera sempre più chiara, che non sono sovrapponibili, e nelle quali la nostra esistenza è vitalmente implicata. Dio — politica — chiesa — sono punti obbligati per un approfondimento che voglia attingere le radici.
Dio: dieci anni fa reagivamo “contro l’uso antioperaio della fede”. Una tappa obbligata, necessaria, che ci vede ancora impegnati. Però oggi il “contro” non basta più (probabilmente non bastava neppure allora). Sia nel seminario sulla ‘ministerialità’ come a Firenze parlando di “fede povera” la domanda si rivolgeva all’Oggetto Immenso. “Chi sei, Signore?”.
Attraverso la durezza, la conflittualità, la quotidianità del lavoro; “in compagnia” reale con quanti abbiamo per tanti anni condiviso la fatica e la lotta, anche in noi un certo “Dio è morto”. Molte immagini di lui sono andate in frantumi (il dio prigioniero dell’organizzazione ecclesiastica, il dio alleato con i potenti di questo mondo, il dio principio della ‘razionalità’ del reale…). Mille volte ci siamo ripetuti, spesso nel silenzio del nostro animo: “No. Dio non è così”. E mentre avveniva giorno dopo giorno l’agonia e la morte di quel dio e noi stessi la bevevamo come fosse un calice amaro, si radicava nell’animo la certezza che proprio lì dove eravamo Qualcuno ci aveva preceduto… Non avevamo parole per dirlo o per annunciarlo; forse non le abbiamo ancora, però sappiamo che è così… Un po’ come l’esperienza degli apostoli nell’incontro col Risorto sul lago di Tiberiade (Giov. 21, 1-43).
Noi non possiamo semplicemente assumere le categorie che i sudamericani usano nella elaborazione della teologia della liberazione.
Tuttavia, tanti anni di lavoro ci hanno dato linguaggio e immagini nuove, maggiore concretezza. Siamo stati alfabetizzati all’interno di un contesto vitale di ingiustizia e di lotta, di fatica e solidarietà, di speranze semplici e di terribili delusioni… Spesso ci siamo trovati nella condizione di essere appena appena in grado di sopravvivere… Essere dentro…
Ecco: abbiamo il dovere di balbettare (Abba!) nella nuova lingua il nome di Dio.
Da un lato c’è il comando di non nominarlo invano; dall’altro c’è l’obbligo della confessione. Tutti e ciascuno siamo in questa distretta. E nessuno è maestro!
Politica: è una dura necessità, come lo è il lavoro. È una dura necessità per resistere all’arbitrio ed alla sopraffazione, per restituire un minimo di equilibrio a rapporti di potere estremamente squilibrati, per poter essere soggetti attivi che reagiscono, per progettare e rendere possibili condizioni di vita più umane.
Gli anni ci hanno liberato dalle fantasie di onnipotenza e ci siamo ritrovati a fare l’umile e quotidiana politica (con la p minuscola). Per molto tempo abbiamo usato slogan che sono serviti da comune denominatore tra noi (essere dentro; uso degli strumenti della classe operaia…); oggi però per poter comunicare su questo fronte è indispensabile un salto di qualità. Nel convegno sono emersi tutta una serie di interrogativi, nelle relazioni come negli interventi, e sono stati proposti alcuni esempi concreti dell’agire politico; si è abbozzata una lettura politica di elementi vari, solitamente presentati senza correlazione alcuna (tecnologia, informatica, coesistenza di antiche e nuove forme di sfruttamento, emarginazione come realtà organica allo sviluppo capitalistico, militarizzazione della ricerca scientifica, nord- sud…). Se da un lato la politica è agire quotidiano nel piccolo della fabbrica, sindacato, quartiere, cooperativa, dall’altro è lettura seria, razionale, è sforzo di comprensione del reale, è innalzamento del livello di coscienza personale e collettiva.
Non ci nascondiamo la difficoltà, forse la paura, ad affrontare una tale area di riflessione. Ciascuno di noi è in qualche modo coinvolto politicamente (già il non attivo coinvolgimento è una scelta), spesso vi è una eccessiva identificazione con le opzioni compiute (tanto che la critica all’opzione fatta viene facilmente vissuta come un attacco alla propria identità e storia personale), forse temiamo il potere distruttivo di radici di intolleranza presenti in noi. Insomma, un tale tema è una patata bollente. Ma è una dura necessità prenderla in mano. Evitarlo significherebbe, a questo punto, sottrarre spessore e consistenza (il peso e la gravità della materialità storica) ai nostri incontri e nella nostra comunicazione. E sarebbe non portare a compimento, sul piano della riflessione critica, il senso del nostro radicamento materiale nella condizione operaia con anni di militanza ed impegno.
Il coraggio di guardarci in faccia su questo fronte rappresenta il test più significativo della nostra “maturazione operaia”.
Chiesa: è l’altra realtà collettiva, nella quale siamo immersi, a cui dobbiamo dedicare la nostra attenzione. Un coraggioso approfondimento ed un ripensamento critico sull’intero versante è un’istanza largamente avvertita tra noi.
Tutti noi, con una sola eccezione a Torino, siamo partiti dalla chiesa, anzi, come ministri della chiesa, e siamo entrati in condizione operaia. Un esodo legato al momento di grazia post-conciliare, per la quasi totalità; un esodo, tuttavia, che per moltissimi di noi ha significato amarezza, emarginazione, molta sofferenza… ma anche libertà, scoperta di essere un “semplice” uomo, condividendo le situazioni elementari dei compagni, “homo quidam” prima dell’aggiunta di qualunque predicato.
Però, proprio perché non siamo nè Superman e neppure Parsifal, siamo esposti a due tentazioni contrarie nei rapporti con la chiesa. Da un lato vi è il rischio di procedere per schemi rigidi e semplificanti confondendo la coerenza etico-profetica con una forma di intolleranza verso una chiesa che appare, ed è davvero, “meretrix”; dall’altro può nascere, magari camuffato, il desiderio di ritirarsi da una posizione “di confine”, alla lunga troppo dura da sostenere, concedendole una “castità” a buon mercato.
Forse è impossibile uscire dall’ambiguità quando si ha a che fare con una “casta-meretrix”; con una chiesa che non è il Regno e tuttavia è un elemento interno a questo Regno; con una chiesa che è di Cristo, ma è come un campo seminato a grano e zizzania; disperante nelle sue infedeltà, ma che porta con sé l’annuncio esplicito del principio stesso della speranza che è Cristo morto e risorto. Un vincolo “genetico” ci lega ad essa. Bene o male in essa siamo stati allattati…
Ora, tra la dipendenza ombelicale e l’estraneità (talvolta espressione ancora di dipendenza), vi è il rapporto adulto e libero. Se per ragionare politicamente occorre una “maturità operaia”, in questo ambito è necessaria una avvenuta maturazione cristiana: l’aver appreso, nella solitudine della propria vita, il sapore e il costo della libertà e la grazia della libertà; l’essersi allenati ad operare nella concretezza “ciò che e giusto”; l’aver detronizzato tutti i signori perché “unico” è il Signore della vita…
Siamo convinti che anche in questa terza zona di riflessione abbiamo le risorse per una fecondità positiva.
Tra noi di tanto intanto ritorna l’interrogativo: “perché i PO non fanno… figli?”. Si può rispondere con una contro-domanda: “quando mai i figli sono uguali ai genitori?”. Vi è una fecondità che non obbedisce alla linea naturalistica cromosomico-carnale… Una volta che si assuma Abramo come padre della fede, nel paradosso tra la sterilità di Sara e la promessa della moltitudine di figli, allora può avvenire uno sbocciare di vita imprevisto ed imprevedibile. Osiamo sperare che anche la nostra piccola storia sia un utile ingrediente nelle mani di Colui che vuol fare nuove tutte le cose.
Alcune spiegazioni
* Prima di tutto vorremmo tentare una risposta ad un quesito, posto nell’ultima riunione del Coordinamento Nazionale, forse condiviso da altri. Dove finisce la specificità del PO? Questi temi non sono troppo generali, comuni a tutti? Non è più agevole trovare in altre sedi trattazioni più raffinate, documentate, scientificamente più attendibili? Al limite: che senso ha trovarsi tra noi per parlare di questo?
La nostra ricerca non è di tipo illuministico e neppure di tipo accademico:
vuole essere totalmente compromessa con l’itinerario, la storia e le relazioni vitali di cui siamo portatori. Arriviamo a comunicare su questi nodi di fondo, perché altre comunicazioni a questi appellano e ci riportano. Di essi vogliamo fare una rilettura, assumendo il radicamento della nostra vita quale punto di osservazione, facendone da un lato un legittimo “luogo teologico” e dall’altro, senza mescolare l’acqua col vino, una dignitosa possibilità di riflessione politica.
La specificità non consiste, pertanto, nella originalità dell’oggetto (facendo ad es. di noi stessi e dei nostri problemi il tema dominante), quanto nell’assunzione di una prospettiva, la nostra appunto, per ripensare in maniera creativa (ma fedele a preoccupazioni, solidarietà, linguaggio, immagini, orizzonti… di cui ci siamo imbevuti in tanti anni di lavoro) alle tre realtà indicate. Come possiamo nominare Dio dopo tanti anni di lavoro, in situazioni di ingiustizia e sfruttamento, a contatto diretto e violento con questa società industriale e post-industriale, in quotidiana compagnia a gente che o è totalmente secolarizzata o si porta elementi di religiosità disarticolati rispetto all’insieme della vita? Non ci balza agli occhi la “specificità” del PO intesa come possibilità di pronunciare parole “pesanti”, articolate in un nuovo linguaggio, che forse altri non sono in grado di dire?
* L’adozione simultanea di queste tre aree di ricerca, è ovvio a tutti, ci impegnerà per anni. La simultaneità dei tre orizzonti ci consente di superare polarizzazioni tra chi ad es. preferisce approfondire l’ecclesiale e mettere da parte il politico e chi invece è orientato in maniera contraria. Ciò che importa è che tutti assumiamo “in toto” e in positivo le tre istanze, entrando in un modo di pensare “polifonico”. La polifonia è insieme di voci, melodie, silenzi… che coesistono, senza confusione. Allora vi è una prima opzione: se complessivamente riteniamo o no per noi positivo e fattibile e utile un impegno di ricerca di così vasta portata; se pensiamo sia giusto vincolarci collettivamente per alcuni anni (almeno tre) in un lavoro certamente impegnativo; se vi è una sufficiente base di fiducia reciproca per entrare in temi che possono dar adito a tensioni…
Su questo pensiamo necessaria una chiarezza previa: quindi una dichiarazione di volontà esplicita da parte delle regioni e dei gruppi organizzati.
* Vi è il grosso problema metodologico. Anzitutto perché le tre tematiche esigono un approccio diverso, inoltre perché una singola area di riflessione può essere legittimamente affrontata con differenti modalità.
Noi invitiamo ciascun gruppo regionale e le équipes che si ritrovano per riflettere, che negli anni si sono costruito un loro modo di lavorare assieme, ad elaborare un loro percorso, con i tempi e gli strumenti che si riterranno più opportuni.
Un gruppo potrebbe anche scegliere di approfondire un’unica tematica. Ci potrebbero essere articolazioni diverse nell’ambito della stessa regione; come ci potrebbero essere collaborazioni oltre i confini regionali (come abbiamo sperimentato nell’ultimo convegno). Non necessariamente ci deve essere una coincidenza di tempi nell’affrontare le singole tematiche.
Nel caso che tutto il progetto venga accolto, noi attendiamo, entro la fine dell’anno, una dichiarazione di intenzioni (scritta) ove emerga in sintesi il percorso che si intende compiere.
Evidentemente le iniziative a livello nazionale, sia nei tempi che nelle tematiche, saranno condizionate alle scelte che verranno fatte a livello locale. Infatti, gli incontri nazionali dovrebbero divenire i momenti di socializzazione del lavoro svolto.
* Si comprende facilmente, nel caso che il progetto venga accolto, che solo una feconda collaborazione tra Coordinamento Nazionale e gruppi regionali e locali può consentire un lavoro creativo e di utilità per tutti. Per questo invitiamo i delegati delle singole regioni ad essere presenti di persona, o a farsi rappresentare, diversamente il lavoro di coordinamento diventa impossibile.
Ribadiamo, ancora una volta, che qualunque PO ha pieno titolo per partecipare alle riunioni del Coordinamento Nazionale.
* In sede di convegno giustamente è stata sollevata la questione del bollettino. Sono state fatte ipotesi di trasformarlo in rivista. Esso può diventare uno strumento importante anche al fine dell’attuazione del nostro progetto. Oltre allo spazio per le comunicazioni, si potrebbero prevedere tre distinte sezioni come spazi aperti per la ricerca sulle tre tematiche, affidando ogni singola sezione al lavoro di coordinamento di un PO. Pensiamo sia fattibile.
Concludendo: ci rendiamo conto di aver chiamato progetto quello che è semplicemente un abbozzo, una serie di intenzioni. Speriamo di essere stati sufficientemente chiari. È evidente che sull’insieme siamo in attesa di suggerimenti, critiche…
Noi siamo fiduciosi che si possa arrivare alla formulazione di un progetto, nel quale – speriamo – tutti possano riconoscersi e partecipare attivamente e con entusiasmo.
Auspichiamo che su tutta la questione vi sia il massimo di coinvolgimento e partecipazione. E rimaniamo in attesa dei vostri contributi.
Roberto Fiorini e Gianni Alessandria