IN QUESTO MONDO A RISCHIO
QUALE CHIESA?
Bergamo / 13 giugno 2015

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Il mio discorso è sui poveri e sulla chiesa nei confronti dei poveri. Vado a celebrare in una chiesa di campagna, in una frazione dove vengono 70 – 80 persone, alcune anche da Lodi.

Il mio interrogativo è questo: il vangelo ci mette davanti i poveri, qualche volta sfacciatamente e con crudezza: perché non ci sono qui? cosa abbiamo fatto perché non ci siano? Qualcosa abbiamo pur fatto.

Continuiamo a dire che a pieno diritto “dovrebbero essere i primi”, “essi ci precederanno”, “fate anche voi alla stessa maniera”. E non ci sono! Sarà pure successo qualcosa? Vengo da una famiglia povera. Ho mangiato poveramente. Mio padre era boscaiolo analfabeta, mia madre era una mondina.

Abbiamo scelto la chiesa a servizio dei poveri. Non so per quale motivo in fabbrica essi si appiccicavano a noi: quello licenziato perché non lavorava, quello che era in malattia ma andava a vendere le castagne a Milano. Ce li trovavamo in giro, ma anche dopo. Perché non ci sono? Le parole di questo papa ci fanno riflettere. Trovare in giro qualche prete che li portasse e trascinasse in un discorso … E non si fa. Alla messa dove vado è diverso, io ho meno fantasia di voi. Faccio la consacrazione poi i chierichetti leggono a turno il canone, le letture sono fatte dalla gente. A volte commentano e a volte ridono, a volte restano allibite da affermazioni. Vedo la chiesa sempre piena, metà sta in piedi, metà seduta. Vengono a sentire anche delle provocazioni.

Tra loro c’è un’insegnante che va alle docce comunali , dove si serve, si pulisce, si saluta, si fa qualche amicizia: questa ha marito e due figli. Un altro fa l’impiegato e al sabato o alla domenica va alla mensa dei poveri di Lodi. Un’anziana va al guardaroba. Nessuno ha detto loro che a Lodi ci sono anche i poveri.

Il discorso che mi faccio è questo. “Che chiesa vivo io? Con ciò metto in evidenza anche i miei limiti. Mi trovo a mio agio con loro, vado quattro giorni a settimana alla mensa dei poveri di Milano. Passo lì tre ore lavorando sodo, dove vengono 550 persone. E’ tenuta da suore francescane, le quali non sanno che sono prete. Vado lì da 11 anni. Con questa gente mi trovo a mio agio, mi fanno pensare al Vangelo, mi fanno pensare a Dio. Quando vedo la ragazza zingara che si mette a pregare o il ragazzo eritreo che prima di mangiare sta lì 10 minuti a pregare, oppure quelli che ti sorridono, devo avere il massimo rispetto per loro.

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Un’altra riflessione sulla chiesa dei poveri. Lì ci sono le suore, ci sono i volontari, 20 al giorno, ci sono 500 persone che qualche volta cambiano ma spesso sono sempre quelle. Le suore hanno il loro mondo, abbastanza chiuso e forse anche misterioso. Esse decidono: “da domani si farà così, si farà questo e quello”. Ci sono i volontari che vanno lì come se andassero in un altro mondo, come se il mondo dei poveri non fosse parte di questa società o della chiesa , come se non avessero a che fare con la fede. C’è stato un concilio, c’è stata tutta una formazione, catechismi, vangeli, bibbie, tutto quello che si vuole. Ma perché non si riesce a mischiare il tutto? Quanta strada bisogna fare per chiamare questo chiesa? Se non abbiamo chiesa abbiamo fatto poca strada e se non la sento chiesa significa che abbiamo perso qualche sentiero. In queste strade, in questo ritrovarsi con loro io mi trovo a mio agio. Quando bussa uno che puzza gli rispondo: vieni che ti faccio una bella doccia. Il sacro del Vangelo è proprio quello lì. Il prete è detto l’uomo del sacro, ma il sacro è quello lì. Qualcuno che mi conosce mi domanda: sei ancora prete? Dici ancora messa? Io mi sento in vergogna. Mi avessero chiesto: Dividi con gli altri? Lavi i piedi ai poveri? Dovrebbero chiedermi questo.

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Nel vangelo si dice che lo riconobbero nello spezzare il pane. Una volta a un mio amico gli dissi che celebro messa solo la domenica, ma casa mia è sempre piena di gente e se non vengono vado io a casa loro. E quello mi rispose. “Ma Oliviero, tutte le sere c’è messa a casa tua”. Lo spezzare il pane.

Ho l’assillo di non trovare lì davanti i poveri come prete e come chiesa.

A qualcuno ho detto che io non ho mai combinato nulla, però ho voluto essere là dove è giusto essere. A far che? Una volta a pregare, una volta a lavare i piedi, una volta a dividere il pane. Via di qui mi chiamerebbero prete, monsignore, signor parroco, padre. Ancora adesso mi chiedo. perché in una sacrestia, in una chiesa bella e nuova non ci sono i poveri ? Perché vengono solo a elemosinare?

Ci sono dei preti, delle comunità, per carità, che si spendono solo per loro. Ma la chiesa? Ci vuole un papa per dire di aprire questi conventi, case parrocchiali, collegi? Non basta il Vangelo? Sono domande che mi faccio. Quante parole in meno potremmo dire. Il fatto di aver lavorato te l’appiccicano addosso. Che bello. Altro che aver fatto a loro gli esercizi, le prediche, le raccomandazioni, gli insegnamenti! Una volta qualcuno, non so dove, ha detto: questo è un uomo. Il dire di uno: questo è un uomo, un prete lavoratore, è il massimo. Io non so organizzare nemmeno fare prediche oltre i dieci minuti, però so fare qualche scelta e pagarla, magari cara e pesante. Ho fatto pochissime cose, solo quelle in cui credevo. Mai sarei stato capace di fare il prete o il sindacalista che ha strumenti e mezzi ( li ho conosciuti in fabbrica). Sapere a un certo punto tirar fuori il mestiere e saper dire ad esempio cose in cui non credo, saper tirare in lungo non è facile. Chi prepara la gente alla cresima, alla comunione, al matrimonio, sapendo poi che questi spariscono, non è facile. A volte vado a Lodi in duomo a pregare un po’, a volte a vedere un matrimonio. Non è una condanna, io non saprei fare, non saprei eseguire. Vado a casa a preparare la cena per i due o tre che verranno questa sera. Non so se la mia domanda è la domanda di una persona, di un prete a disagio, oppure se è la situazione che mi mette a disagio, oppure la mia chiesa nella quale voglio essere e stare. Il concilio, i documenti del Concilio, le parole che il papa dice, mi fanno guardare in giro. I poveri li vedo e cerco i deboli. Vorrei che la chiesa, il prete, i poveri, la comunità fossero un impasto, una torta, un pane , una tavola. Perché non lo vedo? Dovrebbe essere una cosa comune. Se no, abbiamo sbagliato qualcosa. Non so quali scherzi la storia ci ha combinato. Quando si parla del Vangelo, del servire, del servizio, vuol dire anche servire bene. Ci abbiamo mai creduto? O poco? Oppure in fabbrica abbiamo cercato di servire altra gente, o ci siamo esposti perché avevamo qualche strumento più di loro? Noi figli di operai abbiamo visto le nostre madri servire. Ho visto sui treni le donne della bassa lodigiana che andavano a Milano a servire. Le ho conosciute in treno.

Abbiamo mai creduto, oppure creduto in modo distorto? Quando li vedi, i poveri, li conosci, con le loro facce che non sono quelle che vedi in televisione. Li vedi tutti i giorni. Quello che è passato dal barcone e non è annegato te lo trovi lì, anche il giorno dopo. Se poi lo servi bene e se gli dici una parola, gli chiedi e gli domandi, sorride. Sorridono e ringraziano e ti chiedono sempre il peperoncino.

La chiesa, il prete, le suore, i poveri, se non c’è quel correre di umanità, se manca quello, abbiamo fatto poca strada oppure ci siamo fatti portare in alto dall’elicottero. Quando son diventato prete ero l’uomo del sacro, l’elicottero mi ha messo là in cima. Poi mi sono accorto invece che la strada è seminata di gente, di poveri.

Se non so dividere il pane, se non so lavare i piedi, non posso guardare Dio. Non so fare un discorso su Dio prescindendo dalle facce che tutti i giorni mi passano davanti, così pure non so pregare senza che esse mi passino davanti, e che mi ricordino di essere stato operaio. Di notte ancora mi passano davanti i carroponti delle fonderie. Ho lavorato anche in un grande caseificio, in una grande cella frigorifera. Ma il carroponte con le ruote e gli ingranaggi che passano, ce n’erano una quindicina … Io usavo uno di questi, coi pesi, con la polvere, la ruggine, gli operai che gridavano, chiamavano! Una fede senza le immagini, le storie, il pane, il servire, una fede e una chiesa senza questo riesce difficile.

Oliviero Ferrari


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