Frammenti di vita (4)
Ricordati del tuo Creatore finché sei giovane, prima che arrivi l’età degli acciacchi. Verranno giorni quando le tue braccia, che ti hanno protetto, tremeranno; le tue gambe, che ti hanno sostenuto, diventeranno deboli. Avrai paura perfino di camminare per non cadere. Le tue orecchie diventeranno sorde al rumore della strada. Non sentirai più il canto degli uccelli. Ogni desiderio scomparirà e arriverai a dire : Non ho più voglia di vivere.(Qo 12,1ss)
Così Qoelet descrive l’età della vecchiaia che, anche se ci si sforza di esorcizzarla, fa parte del cammino, dovrebbe far parte, di ogni figlio dell’uomo. Per me si sta configurando anche come un momento in cui stanno emergendo sempre più pensieri tristi.
Non sono ancora arrivato a dire: “Non ho più voglia di vivere “, perché la voglia di continuare ad esserci per riuscire a vedere come si snoderanno le “ cose “ nella storia e nella Chiesa è molto vivo in me.
Ripenso al mio cammino di fede come sacerdote. È triste per me prendere atto di non essere stato formato alla sensibilità per il Regno di Dio. Ci hanno educato a parlare di Chiesa, ma per niente di Regno.
Quando siamo sollecitati a parlarne, perché provocati da una pagina evangelica che dobbiamo commentare durante la liturgia domenicale, lo presentiamo come un fatto soprannaturale.
La mia generazione, per di più, è cresciuta convinta che il Regno di Dio non era che la Chiesa cattolica.
Il ‘celibe per il Regno’ di profumo evangelico, nel migliore dei casi, diventava scelta esclusiva per Dio. Per quale Dio, se il Dio delle dispute filosofiche-teologiche o il Padre di Gesù non doveva essere per noi un problema. Quello che contava era il celibe.
Ma che importanza ha essere celibi se le nostre scelte o le nostre non scelte sono antiregno?
Siamo noi celibi un segno nella storia ? Siamo soprattutto una forza di integrazione della storia ? È vero che il Vaticano II ha solennemente affermato che non era evangelicamente corretta l’idea di identificare il Regno di Dio con la Chiesa cattolica: sono due realtà ben distinte.
Pertanto l’affermazione teologica corretta sarebbe dovuta diventare: Chiesa = sacramento del Regno, un’ affermazione che non ha modificato la nostra attività pastorale : l’importante era portare figli/e alla Chiesa, farla crescere.
Ancor più triste per me è il prendere atto che non ci hanno formato alla sensibilità di fiutare immediatamente, senza aver bisogno di numerosi giri di ragionamento, di distinguo, quello che storicamente conviene alla crescita del Regno e quello che non conviene; quello che storicamente rappresenta un passo in avanti verso la concretizzazione del mondo sognato da Dio Padre ‘nel paese non dovranno esserci poveri ‘( Dt. 15,4 ) e quello che nei fatti è un semplice passo indietro, perché contraddice i molti discorsi sulla giustizia, sulla fraternità di cui sono pieni i documenti ufficiali.
A causa di questa formazione ricevuta quanti semi di grano abbiamo confuso con la zizzania, quanti semi di grano abbiamo contribuito a soffocare!!
Contraddicendo poi alla raccomandazione del Maestro di Nazaret, siamo giunti perfino a voler sradicare dall’immaginario popolare come zizzania quello che storicamente si stava manifestando come grano !! E questo è successo perché non ci hanno dato un criterio evangelico per riuscire a distinguere il grano dalla zizzania. Un criterio ce l’hanno dato: ma un puro e semplice criterio ideologico.
Facciamo ancora difficoltà a capire che il Vangelo non è un libro che si possa leggere in una stanza isolata prescindendo dalla storia. Quando lo si legge, pensato, proposto, annunciato al di fuori della storia lo vanifichiamo, gli facciamo perdere la sua attualità, la sua forza di trasformazione, la sua capacità intrinseca di illuminare la storia così che possa diventare storia salvifica. Il rischio è quello di continuare ad alimentare una religiosità che parla di dignità dell’uomo, di fraternità, di giustizia, ma che, poi, non prova nessun pudore a comporsi con scelte politiche liberticide e antiumane.
Se fosse ‘un libro chiuso’, altro non sarebbe che una teoria accanto alle altre; ma il Vangelo è la prassi di Gesù, racchiude il gemito dello Spirito che accompagna la storia.
Forse c’è qualcosa nel nostro vocabolario con cui oggi veicoliamo il messaggio evangelico che occorre cambiare. Forse c’è molta più paglia che grano. Solo se sapremo separare queste due cose e poi dare alle fiamme la paglia, ci troveremmo in possesso di un’immagine più genuina e più attraente di Gesù, che così ritroverebbe anche per gli uomini e le donne d’oggi lo stesso fascino che ha entusiasmato gli uomini e le donne della sua generazione.
Penso allo stesso linguaggio liturgico (la mia esperienza è legata al solo rito ambrosiano) espressione di un cammino di fede datato, con termini e immagini presi da un’altra cultura.
Non mi si venga a dire che questa opera di bonifica non si può fare. E’ la Tradizione che lo vuole !
Così ancora una volta in nome della Tradizione rischiamo di far diventare inutile la parola di Dio.
A mio parere, è urgente costruire (è l’attuale momento storico a dircelo) un nuovo vocabolario in grado veramente di formare uomini e donne, noi stessi per primi, sensibili alla trasformazione della storia umana in storia salvifica, in storia del Regno.
Non possiamo da una parte continuare ad affermare che Cristo è il Signore della storia, mentre dall’altra si continua ad affermare che la liberazione cristiana è un’altra cosa, che la vita che Cristo promette è un’altra cosa, che la vita soprannaturale non ha niente a che fare con questa vita.
Non è forse stata questa la Missione che il Figlio di Dio ha ricevuto dal Padre ?
La storia crea disuguaglianze, disparità, competizioni, dipendenze; l’azione salvifica deve trasformare questa storia in storia generatrice di uguaglianza, di fraternità, di comunione.
Utopia ? È un’utopia anche il pensare che un giorno possano sparire le malattie e i virus, eppure ciò non impedisce a tanti uomini e a tante donne di dedicare la loro esistenza nella lotta contro le malattie.
Utopia o no: chi saprebbe trovarci un’altra ragione al nostro essere nel mondo, una ragione che dia continuità, senso permanente, sia perennemente fonte di gioia? Chi saprebbe indicarci, fuori da questa scelta, un altro mezzo per raggiungere quella liberazione personale che ci appare sempre più come l’imperativo categorico della nostra vita ? Come costruire questo nuovo vocabolario ?
Certamente non a tavolino, chiusi nelle grandi biblioteche teologiche. Solo immergendoci nel fiume della storia possiamo intuire con quali nuovi termini, con quali nuove immagini costruire questo vocabolario.
È stata persa un’opportunità quando non si è ascoltato l’esperienza dei pretioperai.
Oggi lo Spirito del Padre e del Figlio ci offre un’altra occcasione: il mondo dei poveri emerso prepotentemente dalla stiva della storia. A patto, però, che non siano visti come uno spazio per la nostra carità, un bacino di raccolta delle nostre opere benefiche; ma una grande occasione per scendere veramente nel fiume della storia e finalmente lasciare che muoia un certo tipo di relazione in cui noi siamo quelli che sanno, che hanno, che danno, per divenire quelli che, come loro e con loro, cercano a tastoni la strada del Regno del Padre. Le comunità sul territorio, nel quartiere di una città/paese non deve semplicemente trasformarsi in un centro di beneficenza, ma deve diventare sempre più un punto di incontro, di collaborazione, di comprensione dei problemi sociali di quel territorio, di quel quartiere.
Oggi il mondo aspetta da noi cristiani una fede chiara, senza se e senza ma. Questo non significa una fede razionale, logica, che sia dimostrata punto per punto, perché questo è impossibile (anche se nel passato si è cercato di fare). La fede non può mai essere dimostrabile come un teorema di matematica.
In che senso allora chiara?
Sulla fede cristiana (non so se questo debba valere anche per le altre fedi ) pesa ancora, checché se ne dica, una considerazione, quasi un’accusa: “oppio del popolo“.
Questa affermazione dovremmo tenerla presente e non liquidarla come un gratuito pregiudizio. Essa diventa oppio quando addormenta, quando diventa alibi per non scegliere, quando non responsabilizza le nostre scelte politiche, quando ci distrae dalla visione della giustizia da realizzarsi sulla terra.
Se vogliamo invece che diventi “occhio del popolo“ occorre onestamente chiederci come nelle nostre comunità territoriali essa viene trasmessa soprattutto alle nuove generazioni, perché la stessa trasmissione può essere un inizio di alienazione.
E questo accade quando la fede diventa dottrina, quando la parola che scende da Dio è abbarbicata in una cultura. Se non cambiamo vocabolario, il rischio c’è.
Ci hanno educati, questo sì, a coniare le più belle frasi per imboscarci.
Per difendere le nostre non scelte ci difendiamo in angolo dicendo che il Cristo non è venuto a risolvere il problema della povertà, ma quello più grave del peccato che è un No a Dio Padre. Però dimentichiamo che questo No si traduce in una relazione ingiusta con gli uomini e con le cose.
Abbiamo troppo spesso trascurato l’avviso di Gesù di stare attenti ai segni dei tempi!
Cosi, anche senza volerlo, siamo diventati causa di una spiritualità che con il Padre di Gesù e con il suo progetto del Regno sembra c’entrare poco o per niente.
Giorgio Bersani