Testimonianze
«Quel che più mi importa non è la mia vita, ma portare a termine la mia corsa e la missione che il Signore Gesù mi ha affidato: annunciare a tutti che Dio ama gli uomini» (Atti 20,24).
La mia “avventura” nella Missione Operaia (MO) ha avuto inizio nel 1976 presso la comunità operaia di Marina di Melilli (SR).
Ma questa voglia, seppur vagamente, era nata nel ‘71-73: gli anni del noviziato, la cui abitazione era situata in un quartiere popolare di Ciampino, alle porte di Roma. Anni belli ed esaltanti in cui la maturazione della vocazione religiosa e sacerdotale camminava di pari passo con la coscientizzazìone sociale e politica fino allora in me carente (provenivo dal seminario dei gesuiti di Catania). Le diverse prove o esperimenti del noviziato mi hanno portato a connotare la mia vocazione con la scelta preferenziale dei poveri, diventando ragione di vita.
E tutto è avvenuto senza molti conflitti perché la Compagnia di Gesù con il generalato di Arrupe cominciava a raccogliere attivamente le sfide di riforma e di rinnovamento scatenate dal Concilio.
Dopo gli anni di noviziato passo a Gallarate e Milano per gli studi di filosofia. A Milano abito presso S. Fedele, pensando di restarci per affrontare gli studi di scienze politiche alla Cattolica, dove mi ero iscritto nel ‘.75.
Ma nel ‘76 accolgo la proposta di andare a Marina di Melilli. Dal ‘76 al ‘78 frequento il corso professionale per saldatori; dal ‘78 aI ‘79 lavoro in un cantiere metalmeccanico (380 operai) presso la Montedison di Priolo, facendo anche l’esperienza di delegato di fabbrica.
Al lavoro di fabbrica bisogna aggiungere l’attività nel quartiere (animazione culturale dei giovani e degli adulti), l’attività culturale e sindacale presso la FLM provinciale che mi ha portato a conoscere in modo più vasto la condizione. degli occupati e dei disoccupati.
Di questi anni in Sicilia voglio ricordare alcune riflessioni verificate e condivise nei convegni dei P.O., quello del ‘77 a Salsomaggiore e quello del ‘79 a Viareggio.
C’è un’ingiustizia permanente nel capitalismo
E’ la constatazione quotidiana che si è costretti a fare perché ci si vive dentro come tutta la gente ci vive. Non è uno slogan dire “c’è l’ingiustizia”, ma è il dato della nostra vita, è quello che i nostri occhi vedono e la nostra carne soffre.
L’ingiustizia la possiamo descrivere con un suo effetto: la scissione o lacerazione:
– nella fabbrica: la scissione tra i lavoratori che producono e le finalità del loro lavoro, imposte dall’esterno con la conseguente riduzione dei lavoratori a semplici strumenti di produzione;
– nella società: scissione tra bisogni reali e consumi indotti; tra il bisogno di informazione corretta e la distorsione della pubblica opinione; nella opposizione tra nord e sud, tra locali e stranieri, tra occupati e disoccupati; tra bisogno di salute e mercificazione della salute.
La riproduzione continua di masse intere che vivono in condizioni di perenne marginalità e disgregazione sono la testimonianza dell’ingiustizia organizzata nella quale viviamo, nonostante da più parti si cerchi di far passare tutto questo come ‘normale’, irrilevante o addirittura inesistente perché si dice “oggi più o meno stanno tutti bene”.
La scissione particolare è quella che colpisce quanti cercano di far convivere il credere con l’operare la giustizia. Non di rado è capitato di sentire in giro “la chiesa mi ha costretto a scegliere tra Gesù Cristo e i nostri compagni”.
Proprio sulla scorta della Parola e della Tradizione dei Padri non è possibile per un credente vivere la fede senza operare la giustizia. Come pure sono convinto che la scissione tragicamente presente tra fede in Gesù Cristo e responsabilità personale di fronte al destino storico delle classi lavoratrici e masse emarginate, contribuisce pesantemente a consegnare le popolazioni alla violenza disgregatrice ed espropriante della logica capitalistica.
Il movimento operaio ha dietro di sé una lunga storia, anche cruenta, di resistenza alla logica disumanizzante del capitalismo: prima nella fabbrica e nei luoghi di lavoro, poi nella società con la conquista di un minimo di sicurezza sociale per lavoratori e cittadini. Nulla mai è stato regalato e offerto con generosità: ogni miglioramento ha avuto costi umani altissimi.
E’ all’interno di questa realtà, condivisa nella solidarietà che sono stato mandato ad annunciare la Parola che salva, nel testimoniare e nell’operare la giustizia che è innanzitutto rendere giustizia al Dio come assoluto da essere adorato, contro ogni idolo sacro di spazio, di persone, denaro, partiti…
Così da una fede intellettualistica ed astratta sono passato ad una fede più incarnata e vitalizzata nell’azione concreta. Così la mia preghiera, seppure ridotta di tempo, ha assunto di più la forma di contemplazione dei misteri della vita di Cristo, grazie al contatto con le sofferenze inerenti alla condizione operaia stessa (per esempio: la mortificazione della capacità creativa, il rischio della salute e della vita: un compagno è morto sul lavoro nel ‘79, un amico nell’88 e il capo reparto nel ‘90).
Ho assimilato con più profondità il senso di responsabilità, l’ansia per la giustizia, la solidarietà, la franchezza, il senso comunitario della vita e la maggiore fraternità, la facilità a recepire con maggiore immediatezza valori soprattutto in ordine alla carità e al Cristo.
Con questo fardello ho iniziato gli studi di teologia a Napoli. Ordinato prete nell’82. Dall’ 82 all’84 a Roma per la licenza in Morale. Un anno in Brasile per il terzo anno. Dall’85 a Parma, dove vivo e lavoro presso una industria alimentare con attualmente 260 dipendenti. Le motivazioni di allora sono quelle di oggi. È cambiata la consapevolezza di continuare ad esserci dentro non solo per volontà propria, ma anche perché “missus”, cioè inviato. E su questa “missio” vorrei un po’ soffermarmi a partire dalle riflessioni del Padre Arrupe sulla prima riunione dei gesuiti operai, rappresentanti degli allora 150 gesuiti impegnati nella Missione Operaia, tenutasi. a Roma nel febbraio del 1980.
Un pieno inserimento nella massa dei lavoratori sembra essere la condizione necessaria per raggiungere efficacemente gli obiettivi, che il gesuita operaio si propone. Ciò significa che il luogo di abitazione e la maniera di vivere, le occupazioni di una giornata di lavoro, e, in definitiva, il genere e le condizioni di vita devono essere, per quanto possibile, gli stessi di coloro con i quali si lavora. Questa identità condiziona la validità della testimonianza resa dal gesuita operaio.
Non si tratta di un apostolato telecomandato, ma di una identificazione e assimilazione. il gesuita operaio deve sperimentare tutte le traversie della sua condizione di lavoratore, gli inconvenienti, la povertà di una abitazione modesta, le pressioni sociali che vengono esercitate sulla sua dignità di uomo e sui suoi diritti, l’insicurezza, l’assoggettamento a un orario imposto e a norme di rendimento implacabili.
L’inserimento si compie in vista di una inculturazione
Se non si arriva alla inculturazione, l’inserimento non è che snobismo. Non basta identificarsi fenomenologicamente con la popolazione operaia nelle condizioni di lavoro e di vita; bisogna arrivare ad apprendere e assimilare i valori propri della cultura degli operai: i loro schemi mentali, il loro tipo di emotività, le loro maniere di reagire, il loro modo di accostare gli altri, i loro rifiuti come pure le loro fedeltà, i loro valori morali, la loro concezione dell’uomo, della famiglia e della società, il loro atteggiamento di fronte alla massificazione, tutti quegli elementi, insomma, che formano la cultura della classe operaia.
Soltanto così, camminando pazientemente e umilmente con loro, scopriremo in che cosa possiamo aiutarli, dopo aver prima accettato di ricevere da loro.
L’identificazione con la classe operaia, che questo inserimento e questa inculturazione presuppongono, deve compiersi salvaguardando un’altra identità: l’identità di gesuita e il suo senso dell’appartenenza alla Compagnia.
Coloro che sono inviati nella Missione operaia non costituiscono dei commando operanti per proprio conto. Come ogni gruppo di gesuiti su ogni altro fronte, essi devono essere e sentirsi partecipi di un piano globale che consiste nella diaconia della fede e promozione della giustizia.
Il mio essere inviato si realizza, si muove (non so come dire) all’interno dei valori del mondo operaio, che adesso cerco di enucleare meglio, senza volere per questo mitizzare gli operai e nascondermi difetti e incoerenze anche gravi.
- DESIDERIO DI GIUSTIZIA: dalla condizione oggettiva del mondo operaio emerge l’esigenza di un lavoro più umano, e quindi di una vita più umana, che permette non solo di opporsi a ciò che disumanizza il lavoratore, ma di creare le condizioni per meglio distribuire reddito, responsabilità e cultura.
- SOLIDARIETA’: che prima di essere un fatto di volontà, è nelle cose stesse, e cioè nel vivere ogni giorno fianco a fianco la stessa condizione, gli stessi problemi, nel condividere la stessa sorte, lo stesso destino, la stessa speranza, la stessa lotta. Credo che questo sia uno dei principali impegni ed un punto di partenza privilegiato per l’aggancio alla solidarietà nel Cristo.
- SPERANZA: la maggior parte dei lavoratori portano una speranza di fondo di un mondo migliore, l’attesa di un cambiamento, di una liberazione dai gravami della propria condizione, dall’ingiustizia e dall’alienazione. Perciò quando viene presentato un Cristo, un Vangelo che non è contro queste speranze, ho rilevato interesse e sensibilità, accogliendo con soddisfazione la mia presenza e la mia solidarietà in mezzo a loro.
Per questo, mi sembra, che anche qui sia aperto un campo di grande vastità: saper annodare le utopie e le speranze che i compagni sentono nel fondo della loro esperienza, con la Speranza escatologica di un regno e di un Padre.