Convegno di Bergamo / 2 giugno 2018
MEMORIE PER UN FUTURO
Interventi e risonanze (4)
Sulla memoria incombe il sospetto che si tratti di un atteggiamento nostalgico di chi non riesce ad essere al passo con i tempi. Peggio: un irrigidimento privo di vita, tipico di chi si guarda indietro. In effetti, a volte è così, come sa anche la Scrittura, che narra della moglie di Lot (Gen. 19,26). Ma la Bibbia conosce anche un altro tipo di memoria. Anzi, l’intera narrazione biblica si presenta come “memoria”. Ma è memoria che mette in discussione il presente e apre al futuro. Una memoria che non fissa i fatti nel passato ma li fa irrompere nel presente, che “riaccende nel passato la scintilla della speranza” (W. Benjamin).
La memoria biblica è selettiva: non tutto viene ricordato. E non è, certo, il successo a fungere da criterio di selezione dei fatti. Piuttosto, Israele ricorda quanto ha il potere di dire chi è, cosa è chiamato ad essere: una memoria identitaria, che legge nel passato il senso del presente e i compiti futuri.
Anche noi proviamo a muoverci lungo questo orizzonte, scegliendo di fare memoria di tre testimoni – Martini, Balducci, Langer – che hanno la forza di parlare al nostro presente non solo su alcuni temi, da loro pensati e vissuti, ma più radicalmente sulla nostra identità, sul come dare forma alle nostre vite in questo momento storico.
I nostri tre testimoni, per tanti versi così diversi, hanno però in comune il provare a tenere insieme la Parola e la storia. La loro memoria ci sollecita a ripensare il profilo scritturistico e quello storico della fede. E a ripensarli in un tempo che mette in discussione proprio questi due profili.
Quello biblico, innanzitutto. Perché oggi si è imposto un tipo di comunicazione, molto lontana da quella biblica. Oggi, imperversa il linguaggio breve, quello dello spot, dello slogan, della battuta. E il linguaggio denuncia sempre una certa forma di pensiero, che in questo caso è all’insegna della velocità, del sarcasmo e del cinismo. Un linguaggio affermativo, che semplifica e non è guidato da un bisogno di coerenza. La Scrittura, invece, si distende in una narrazione lenta, critica e autocritica. Il suo linguaggio plasma uno sguardo sulla realtà che non si riduce a commentare la cronaca. Preso atto di questa pesante differenza, cosa fare? Usare la memoria biblica in chiave nostalgica, lamentandosi dei tempi e dei costumi odierni? Mi sembra un cattivo uso della memoria. Che, invece, domanda di “ricomporre l’infranto”, provando ad inserire i frammenti contemporanei in una storia più ampia, quella che ci consegna la memoria. Il nostro tempo richiede “rammemoratori”, persone dallo sguardo lungo, che non si estraniano dalla casa comune ma sanno dell’esistenza di finestre nel bunker del presente ed osano aprirle, così che gli occhi osservino, stupiti, un paesaggio differente, al di là di quello offerto dalla casa. Donne e uomini che intuiscono che la Bibbia insegna un differente modo di stare al mondo, capace di raccogliere i nostri frammenti e ricomporli entro un orizzonte di più ampio respiro.
Anche il profilo storico, oggi, risulta problematico. Perché questa generazione ha scelto di disertare la storia, ognuno ripiegandosi sul proprio piccolo “io”. Il “noi” è fuori gioco. Qualcuno ha parlato di “nar-cinismo”! Che fare, oltre allo sterile lamento? Come si possono, realisticamente, riaprire i conti con la storia? Forse, si potrebbe tentare di farlo, ma non con la storia monumentale dei grandi eventi, oggi sequestrati dalla legge del mercato, bensì con la micro-storia feriale, dove l’io si apre all’altro. È stata la mossa operata dagli autori degli scritti sapienziali, presenti nella Bibbia. “La corrente sapienziale non si appassiona agli eventi straordinari di Dio nella storia d’Israele. Piuttosto che sui singolari e festivi mirabilia Dei (gli eventi salvifici che dall’esodo alla conquista della terra fino alla elezione davidica privilegiano Israele in termini più esclusivi), il suo interesse cade su quella temporalità più feriale, ordinaria, quotidiana, universalmente disponibile e riproponibile tanto nella sua puntualità, quanto nella sua distensione come luogo in cui ci si iscrive nel misterioso sapiente disegno di Dio” (R. Vignolo). Anche in questo caso, occorre collocare la storia personale in una storia più ampia.
I “rammemoratori” sono instancabili “tessitori”, che fanno “voto di vastità”, in un momento che ha scelto di giocarsi entro orizzonti ristretti. Persone che non si lasciano schiacciare sul presente, mettendo in atto una “resistenza intima”.
L’idea di una “resistenza intima” è stata messa a punto da Josep Maria Esquirol1, in questi termini: si tratta di una forma di resistenza che “non ha bisogno di coraggio per espandersi, bensì per raccogliersi e così resistere alle dure condizioni esterne. Il resistente non ambisce a dominare o a colonizzare, né desidera il potere. Vuole anzitutto non perdere se stesso e servire gli altri… Poiché la confusione non proviene soltanto dall’esterno, bensì dall’individuo stesso, la paralisi non va attribuita esclusivamente ad un mondo confuso, ma anche a un’interiorità altrettanto spaesata”. Uno spaesamento dovuto, secondo Deleuze, al fatto che “ci manca la resistenza al presente”. Siamo schiacciati sull’attualità. Bisogna, invece, disertar, e l’attualità, sottraendosene. “Chi va nel deserto non è un disertore. Chi diventa un eremita non è affatto sterile. La vita può essere assolutamente profonda anche nella marginalità, perché quel che davvero conta è la possibilità, per ognuno di noi, di essere inizio”.
Fare memoria per non cedere al dogmatismo dell’attualità. “La memoria non è memoria del passato, bensì ampliamento e arricchimento del presente… Resistere nell’inattualità significa porsi al margine, di lato, e da lì difendere la differenza… C’è vita soltanto oltre l’attualità. Vita, libertà e pensiero si trovano nella marginalità. La libertà consiste nell’uscire dalle statistiche per andare verso i margini capaci di creare, di resistere”.
E dai margini, dal deserto, provare a ripensare il tutto, a partire dal linguaggio, il modo di dire noi, il mondo, Dio. Riferendo di una riunione preparatoria al Convegno ecclesiale sulla Riconciliazione del 1984, Carlo Maria Martini si è espresso così: “ho posto a me stesso, ad alta voce, la seguente domanda: che cosa si aspetta il diavolo da questo convegno della Chiesa italiana? E ho risposto: penso che il diavolo si aspetti che si parli un po’ di tutto, che si dia ragione a tutti, che ciascuno esponga la sua idea e il suo pensiero come quello che solo può salvare la Chiesa e la società, che si faccia un grande forum di dibattiti, senza approfondire l’intelligenza delle cose. Poi ho aggiunto che il diavolo tiene ad una seconda cosa: che non ci si interroghi mai perché ci sono tante prediche inutili!”2.
Abbiamo bisogno di parole pensate e di pensieri condivisi. Abbiamo bisogno di una sapienza essenziale, da maturare ai margini, nel deserto, senza disertare il campo di battaglia ma ripensando la resistenza politica a partire da una resistenza intima, da un’interiorità che si nutre di memoria e apprende l’arte di immaginare un futuro differente da questa attualità “piena ma piatta e limitata. Colma di dati, di informazione; ma non informazione sul mondo, bensì un mondo ridotto a informazione… E noi pure ci trasformiamo in dati e in immagini. L’impero dell’attualità è impero delle immagini e assenza di immaginazione”.
ANGELO REGINATO
1 J. M. Esquirol, La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità, Vita e Pensiero, Milano 2018. I testi virgolettati che seguono – tranne la citazione di Martini – sono tratti da questo saggio.
2 Testo citato in M. Vergottini (a cura di), Perle di Martini. La Parola nella città 1980-2002, EDB, Bologna 2018, p 72.