Convegno di Bergamo / 2 giugno 2018
MEMORIE PER UN FUTURO
Interventi e risonanze (1)
La testimonianza di questi tre profeti del nostro tempo, che ci sono proposti, mi ha suscitato alcune domande che condivido volentieri con voi.
L’invito di Martini a porre domande sulla fede mi sembra una provvidenziale messa in guardia dal fanatismo, che è sempre in agguato in ogni cammino di fede. Ma forse è anche un invito a non vivere una fede standardizzata, sempre uguale a se stessa, ma a lasciarsi provocare dalle domande che continuamente ci pone la storia nella sua evoluzione.
Ricordo una lezione del teologo valdese Paolo Ricca che si esprimeva così:
“C’è un solo fondamento assoluto, ed è Dio. Tutto il resto è relativo.
Il mio modo di conoscere Dio è relativo, la mia fede è relativa.
È relativa la Chiesa e sono relativi i dogmi.
Anche il mio amore è relativo.
È assoluto solo l’amore di Dio”.
E Ortensio da Spinetoli ci ha lasciato un bellissimo testamento spirituale con la pubblicazione postuma dell’“Inutile fardello”, dove ha scritto:
“Il relativismo, la precarietà, la provvisorietà non indicano indifferentismo religioso, nichilismo o ateismo, ma costituiscono l’unico atteggiamento spirituale e culturale legittimo in un mondo divenuto pluridimensionale e multietnico, in cui la verità si è fatta più lontana perché la realtà si è fatta più vicina, una realtà più complessa e mobile di quanto si fosse mai pensato fino ad ora. Perciò l’umiltà è l’atteggiamento d’obbligo quando ci si cimenta con i problemi della fede” (Ortensio da Spinetoli, L’inutile fardello, pp. 65-66).
La domanda che mi pongo è: come esprimere con autenticità un cammino di fede, che è sempre in divenire, con le parole rigide della tradizione e della liturgia, che sono sempre meno adeguate?
Oggi però mi assillano ancora di più le domande che riguardano la speranza.
Mi ha molto impressionato la testimonianza di Alex Langer, che conoscevo solo di nome.
Rimane un enigma la motivazione del suo suicidio. Ma il suo scritto sul Manifesto in ricordo di Petra Kelly mi sembra abbastanza rivelatore:
“Forse è troppo arduo essere individualmente dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppo il grande carico di amore per l’umanità, troppa la distanza fra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere” (Florian Kronbichler, Il mite lottatore, p. 1572).
Di fronte alla tragedia di Sarajevo e al martirio che subiscono interi popoli, insieme allo scempio della natura, anche il suicidio può rappresentare l’ultimo grido di dolore, la suprema ribellione.
La domanda è implicita nel suo impegno sociale, culturale e politico e nella sua limpida testimonianza: nella drammatica condizione umana attuale, è possibile sperare, è possibile umanamente sperare?
Ernesto Balducci ci ha lasciato tutta una serie di interrogativi inquietanti che ci toccano da vicino.
Cominciando dal lavoro, a cui noi abbiamo dedicato l’impegno appassionato di larga parte della nostra vita, per affermare “non solo il valore economico, ma anche il valore morale e sociale del lavoro” (Roberto Fiorini, Adista/doc. 26/05/18 p.10).
Balducci ha scritto già nel 1990:
“Il mito del lavoro che trasforma la natura sta per essere sconfitto all’interno della propria stessa logica, perché la rivoluzione cibernetica costringe l’uomo a non lavorare. Andiamo quindi verso un futuro in cui la disoccupazione sarà un fatto generale” (Ernesto Balducci, Immagini del futuro, p. 49).
Ormai ci siamo dentro da tempo in questo futuro, dove i giovani non trovano lavoro, aumenta la precarietà, le delocalizzazioni e sempre più spesso si è costretti a scegliere tra lavoro e salute (vedi l’ILVA di Taranto).
D’altra parte verifichiamo sempre più che aumentano i bisogni nella nostra società e sarebbe necessario l’impiego di molte più persone nei lavori di cura delle persone e del territorio, anche in certi servizi e nell’agricoltura.
Ma sembra che la mancanza di risorse, o forse ancor più di volontà politica, impediscano l’aumento di mano d’opera in quei settori e meno ancora c’è qualcuno che si azzarda a proporre di “lavorare meno per lavorare tutti”.
Un altro tema sono i migranti, che Balducci chiama “i barbari nostra speranza”.
È penoso vedere queste masse di giovani ospitati nelle case di accoglienza dove non sanno come passare il tempo, dei quali nessuno si interessa, se non qualche associazione per iniziative sporadiche, un torneo di calcio, una festa o una conferenza… È assolutamente condivisibile l’indignazione di Alex Zanotelli e il suo disperato appello alla coscienza delle chiese e dei cristiani.
Ma Balducci pone anche un’altra questione: riusciremo noi a recepire il messaggio culturale di umanità e di armonia con l’ambiente, di cui i popoli che arrivano da noi sono portatori? Noi che tutto monetizziamo, dalla foresta amazzonica, ai minerali del sottosuolo africano, ai terreni, alle risorse energetiche, alle braccia umane… sapremo recepire, per esempio, il messaggio del capo indiano Seattle al Presidente degli Stati Uniti nel 1854 ?
“Noi sappiamo che l’uomo bianco non comprende i nostri costumi. La terra per lui è terreno di conquista. Egli tratta sua madre la terra e suo fratello il cielo come cose da acquistare, sfruttare, vendere come i montoni o le perle brillanti. Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all’uomo. L’uomo appartiene alla terra” (Immagini del futuro, p. 60).
Un richiamo su cui Balducci ritorna spesso è quello ad avere coscienza di essere complici col sistema di ingiustizia che l’Occidente ha esteso a tutto il pianeta. L’impoverimento, la rapina delle risorse, la distruzione dell’ambiente, il disseminare armi e il fomentare guerre, sono opera del mondo di cui facciamo parte e di cui oggettivamente siamo complici. Ha ragione perciò anche Zanotelli quando dice: “Ho paura che, in un prossimo futuro, i popoli del Sud del mondo diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti”.
Non è certo un bel momento di speranza.
Occorrerebbe un movimento forte di ribellione delle coscienze, perché “la disperata speranza rifiorisca” (Thomas Sankara) e ogni essere umano riscopra l’umano che Dio ha messo nel suo cuore.