Frammenti di vita (2)


 

Il nostro maestro falegname di Nazareth in molte occasioni parla del vegliare e dell’essere attenti. Insiste spesso perché per lui questo atteggiamento è troppo importante, come l’imparare a scrutare i segni dei tempi. D’inverno si pensa di più e si ha tempo di osservare, leggere, informarsi. Il freddo dà anche delle possibilità che durante il caldo non si hanno. Accanto alla stufa che emana calore caldo alimentato dalla legna del bosco attorno all’eremo si sta molto tranquilli.

Nel novembre scorso ci siamo incontrati con Riccardo Petrella, autore del libro “Nel nome dell’umanità: un patto sociale mondiale tra tutti gli abitanti della terra”.

Da anni si parla di queste tematiche, delle risorse che si stanno esaurendo, dell’inquinamento, ma siamo talmente abituati ad un certo stile di vita che è difficile uscire da questa situazione. Siamo tutti colpevoli, nel grande e nel piccolo. Il primo atteggiamento è quello di prendere coscienza di quello che sta succedendo.

La sera, guardando dalle finestre vedo milioni di luci diffuse su tutta la pianura padana, le luci di Bergamo, Milano, Monza, Lodi, Crema e di centinaia di piccoli e grandi comuni. Più mi avvicino con lo sguardo noto le strade, le tangenziali, le insegne luminose, i lampioni per le strade. Non c’è nessun luogo buio, eccetto le piccole colline. Gli ospiti dell’eremo rimangono estasiati di fronte a queste luci. Io dico sempre che preferisco il buio lungo la pianura. Al paese dove son nato c’erano quand’ero ragazzo, una decina di lampioni, solo agli incroci. Al mattino verso le cinque e mezzo queste tangenziali, provinciali, sono piene di camion, auto. Sembra l’immagine di un formicaio impazzito. Operai che partono presto per andare a Milano dove troveranno un traffico incredibile. Tre ore della giornata sulla strada.

Le immagini viste dall’alto dei cieli che danno una panoramica della terra mostrano la nostra pianura come uno dei punti più luminosi della terra.

Un vecchio detto latino parla di certe persone che “verterunt noctem in diem”. Ora si tratta di tutta la società. Quanto costa tutta questa energia? E’ proprio necessario che le insegne dei negozi siano accese durante la notte? Così pure i piazzali delle ditte illuminati a giorno con dei fari enormi? Non si possono durante la notte spegnere in maniera alternata i lampioni delle strade per risparmiare? Alcuni comuni lo fanno, ma non la maggioranza. Anche le facciate delle chiese e molti campanili sono illuminati. Ma perché? La gente non va più in chiesa, immaginiamoci se la guarda di notte. Si ha forse paura? Vogliamo vedere di notte le stesse cose del giorno, come se giorno e notte fossero uguali. E’ questo il periodo della paura: paura di perdere il lavoro e per questo accettiamo qualsiasi lavoro e ci aggrappiamo anche a orari che tolgono spazio al nostro tempo libero e non lottiamo più per i diritti. Paura degli immigrati e rifugiati perché ci tolgono posti di lavoro, senza pensare che certi lavori mai li accetteremmo. Paura del vicino o dei vicini e per questo telecamere dappertutto. Paura di restare soli, ed è per questo che siamo continuamente attaccati al telefonino e spesso affidiamo questa paura agli animali, ai cani. In questi anni si vedono attorno moltissime persone col cane e con i cani che qualche volta diventano uno status symbol. Cani ben curati, pettinati, con i giubbottini perché fa freddo e presto vedremo persone che girano col passeggino. I primi anni che ero all’eremo vedevo poche persone col cane, ora penso il novanta per cento. Domandarsi del perché di tutte queste paure ci obbliga a porci delle domande, a interrogarci, e questo è il promo passo verso il cambiamento.

Ma ci poniamo ancora delle domande? Ci domandiamo perché ci sono tutti questi lavori precari? La rivista “La fonte”, periodico dei terremotati o di resistenza umana” del Molise, lo scorso anno ha pubblicato un numero dove in copertina c’era la “Marcia del quarto stato”, una pittura famosa tra coloro che lottavano per i loro diritti. I quattro personaggi in prima fila che guidano il gruppo, due maschi e una femmina con il bambino in braccio, sono rimasti soli. La donna col bambino si volta e dice. “Ma che cazzo di fine hanno fatto tutti gli altri?” E’ vero, non esiste più la classe operaia o per lo meno è ridotta ai minimi termini. Noi che abbiamo lottato sia all’interno della chiesa sia nel mondo del lavoro queste domande fanno parte del nostro vivere, sono il nostro pane quotidiano. Ma per la maggior parte della gente non è così. Essa non si pone delle domande, è troppo impegnativo. Vuole delle risposte facili, date dai politici di turno che più strillano più sono ascoltati affidando a loro le risposte senza chiedersi se esse sono sensate e se hanno delle basi solide.

Quando guardo dalla finestra o quando scendo in città mi pongo sempre delle domande.

La pianura nelle giornate invernali spesso è avvolta dalla nebbia e sopra c’è il cielo azzurro. In lontananza si vedono gli Appennini e il monte Rosa, al tramonto si vede dietro i palazzi di Milano il Monviso. Quei palazzi che svettano sopra la città li chiamo “Formigonia”, nati nel periodo in cui il “celeste” era presidente della regione. Ma a che cosa sono serviti o servono? Per abbellire la città, perché necessari o per il mercato e le multinazionali? I primi anni che vivevo all’eremo si vedeva solo il palazzo della regione e le guglie del duomo. Le nostre città diventano sempre più possesso dei grossi poteri e non del bene comune. Guardando il cielo si vedono centinaia di scie emesse dagli aerei che lo inquinano. A cinque chilometri c’è l’aeroporto di Orio al Serio dove ogni dieci minuti, un quarto d’ora, un aereo atterra e si alza. Ormai si prende l’aereo con la stessa filosofia del prendersi un caffè al bar. In questo aeroporto transitano più di dieci milioni di passeggeri all’anno per la presenza di Raynair che ha voli a basso prezzo. Di fronte c’è l’ “Orio center”, il più grande centro commerciale italiano. Ci sono andato una volta sola in ventun anni e all’uscita mi son detto: “Questa è la prima e l’ultima volta che vengo”. Questo l’ho detto nel 1999. Migliaia di persone passano, chiacchierano, si siedono nei bar, centri di ristoro. Lo stesso dicasi dei supermercati che ormai sono diventati luoghi dove passare il tempo libero. Il mercato domina anche nelle nostre teste e guida le nostre giornate. Che civiltà è la nostra? Siamo diventati dei birilli manovrati da altri che si arricchiscono facendo delle persone dei manichini.

La nebbia copre tutto quello che c’è sotto e io vedo solo il cielo, gli Appennini e il Monte Rosa: uno spettacolo meraviglioso che mi richiama il panorama di milioni di anni fa. La pianura padana era tutto un mare. Ma sotto quella nebbia quanta sofferenza, quanto inquinamento, quanta paura, quanta precarietà, quanto caos, quanto movimento, quanta aria inquinata!

Quando essa sparisce spesse volte lascia spazio ad una coltre grigia di inquinamento, con delle colonne di fumi inquinanti delle industrie chimiche e del centro di raccolta rifiuti.

Quanto influiscono sulla nostra salute questi fumi?

I poteri forti vogliono che questa nebbia e queste nuvole simboliche coprano la nostra società per non vedere il male e la miseria, trovando tutti gli escamotage possibili per occultare la realtà,

Le persone quando passano attraverso i sentieri dei boschi che circondano l’eremo non amano essere attente alle piante, sedersi e ascoltare la natura, ma sono sempre col telefonino in mano, e al posto di guardare il panorama e immergersi in esso non fanno altro che scattare foto così quando arrivano a casa possono mostrarle ai parenti e amici. E molti attraversano i sentieri di corsa, come se avessero paura del silenzio e della pausa. Direi che questo è il tempo del virtuale, non del reale. Senza accorgerci stiamo comportandoci come altri vogliono, non siamo più liberi. Questi vogliono che noi la pensiamo come loro, con i loro progetti di economia, di mercato. La situazione sociale, ambientale ed ecologica sono realtà collegate tra di loro. Non si possono disgiungere.

Questi grossi poteri sono coscienti di quello che stiamo vivendo, ma mentono, perché se facessero veramente quello che salvaguarderebbe il pianeta essi fallirebbero. Raschiano in fondo al barile finché possono.

Nel libro di Noam Chomsky “Due minuti all’apocalisse” si parla di Kumi Naidoo, direttore esecutivo internazionale di Greenpeace, che è stato criticato per aver assimilato obiettivi sociali alla causa ambientalista. La sua risposta è stata la seguente:

Fin dal primo giorno in cui ho assunto questa carica, sono stato accusato di essermi venduto, ma è mia sincera e profonda convinzione che la lotta per mettere fine alla povertà globale e quella per sventare un cambiamento climatico catastrofico siano due facce della stessa medaglia. L’ambientalismo occidentale tradizionale non è riuscito a mettere nel corretto rapporto la giustizia ambientale, sociale ed economica. Io mi sono avvicinato al movimento ambientalista perché i poveri sono le prime vittime dell’impatto più brutale del cambiamento climatico”.

Sulla stessa lunghezza d’onda è anche Francesco Gesualdi:

Se riuscissimo a costruire un grande movimento all’interno del quale ogni gruppo mantiene la propria identità e specificità d’azione, ma nel contempo è impegnato insieme agli altri, a portare avanti un comune progetto politico, acquisiremmo una grande forza di cambiamento. Finalmente riusciremmo a coniugare particolare e generale, presente e futuro, locale e globale. Potremmo obbligare cattedratici, partiti, sindacati, istituzioni a confrontarsi con i temi di lungo periodo secondo logiche nuove. Quando si vive nel lager, ogni possibilità di fuga bloccata, non rimane che cercare di sopravvivere adattandoci alle regole del sistema: ci si arrangia come si può in competizione con i propri compagni di prigionia, si cerca di ingraziarsi chi comanda, si tenta la scalata individuale a scapito degli altri. Scene di tutti i giorni in questa società di mercato che si sforza di farci credere che non è possibile altra società al di fuori di questa. Solo la speranza di poter costruire qualcosa di diverso può farci ritrovare la forza per sfidare il potere, disobbedire alle sue regole, attuare scelte alternative, allearsi con chi si trova nella nostra stessa situazione per trovare tutti insieme la soluzione ai nostri problemi comuni” (“L’altra via” / ed. ALTRAECONOMIA ).

Dopo la veglia di Natale all’eremo molti hanno messo sul tavolo panettoni, dolci di tutti i tipi comprati a supermercato, spumanti. Tutto questo perché si voleva condividere la gioia di quella notte. Scatole, sacchetti, bicchieri di plastica, che sono andati a finire in discarica. Molti panettoni sono rimasti e quasi tutti gli spumanti che io non bevo. Questo è il modo di festeggiare che fa contenti i supermercati.

Il più giovane di quelle persone, di 26 anni, ha portato una torta fatta da lui. E’ stata consumata con la gioia di tutte le 50 persone presenti, perché buona, saporita, senza canditi e vari aggiuntivi, un pezzettino ciascuno come se stessimo facendo la comunione.

Ho portato questo esempio come segno di cambiamento. In un periodo di pessimismo, dove giornali, televisioni, internet, non fanno altro che parlare di cose negative che spingono alla paura. Ci sono piccole realtà che non fanno rumore ma che lavorano al cambiamento. Abbiamo bisogno di positività, di testimonianze autentiche, di progetti realizzati perché le persone recuperino la speranza.

Davanti all’eremo ci sta una pianta, un cespuglio di callicantus, che fiorisce da novembre alla fine di gennaio, ed emana un profumo intenso, nei mesi più freddi. Lo prendo come simbolo di speranza del nostro tempo. Sembra che ci sia inverno, freddo, ma c’è qualcuno che sta facendo qualcosa di bello, basta essere attenti, conoscere queste vie alternative. Questo qualcuno sfida questo clima di depressione, di disinteresse e riesce a emanare il suo profumo.

Mario Signorelli


 

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