Testimonianze di pretioperai su Carlo Carlevaris (7) 


 

Le parole di Paolo VI sulla missio ecclesiale dei preti operai non erano state condivise dalla quasi totalità dei vescovi italiani. In questa situazione paradossale noi ci siamo trovati a vivere nelle nostre diocesi di appartenenza. Ci furono solo pochi casi felici. Spicca tra tutti l’importante collaborazione tra il cardinale Michele Pellegrino e i preti operai di Torino e del Piemonte con la sua lettera pastorale Camminare insieme dell’8 dicembre 1971, che riscosse il compiacimento di papa Montini1. Nel 1984 il Cardinal Ballestrero, succeduto alla sede di Torino, ordinò un operaio della FIAT. E così pure nello stesso anno il vescovo di Vittorio Veneto ordinò prete un diacono, operaio da dieci anni, dandogli il consenso di continuare il suo lavoro. A Milano il Cardinal Martini incontrava una équipe di preti operai della diocesi. Per il resto, non si andava oltre una certa tolleranza.

Alla fine del 1981 ricevemmo la convocazione da parte di monsignor Battisti, presidente della competente commissione CEI, per un primo incontro conoscitivo. Il 5 dicembre a Roma, presso la sede CEI, ci incontrammo una decina di preti operai provenienti da più regioni (Lazio, Toscana, Veneto, Lombardia, Piemonte), con i vescovi Battisti, Giachetti, d’Ascensi e Charrier. Essi dichiararono che il loro intendimento era «ascoltare e capire» la situazione del movimento operaio e la «storia» delle nostre scelte di incarnazione nella condizione di lavoro. Ricordo ancora la parola di Roberto Berton, a conclusione dell’incontro: un sogno, condiviso da tutti noi. Attendeva «il giorno in cui gli operai leggeranno Isaia». Alla fine si decise di rivedersi a breve per addentrarci nel merito dei problemi.

Un paio di mesi dopo, il 27 febbraio 1982, ci incontrammo a Bologna. La commissione era rappresentata dai vescovi Battisti, Giachetti e Liverzani, mentre noi eravamo in 18. Il confronto avvenne in un clima di schiettezza e rispetto reciproco. Si iniziò dalla categoria biblica dell’Esodo e si evidenziarono due punti di vista chiaramente diversi: i vescovi sottolineavano la dimensione liturgico-pasquale; noi esprimevamo l’esigenza della necessaria liberazione dentro la storia, in particolare della classe operaia. Ne emerse una lettura con accentuazioni profondamente diverse: «in situazione» per i preti operai e «liturgico-cultuale» nell’ambito dell’istituzione.

I vescovi ponevano domande sul senso che aveva per noi la militanza nelle strutture storiche della classe operaia: come si conciliano una professione secolare e il primato del ministero del prete? Può il prete operaio, nella sua scelta per gli ultimi, accettare nel sindacato dei ruoli dirigenziali? Non è ricerca di potere; o è solo supplenza? Come mettere insieme l’essere il prete uomo di tutti e l’essere di parte? Noi narrammo la nostra esistenza come era strutturata nella quotidianità del lavoro, la vicinanza con i compagni, i problemi che emergevano e che toccavano la materialità e la qualità della vita degli operai. Era realtà viva quella che offrivamo alla loro considerazione, affermando il diritto/dovere di fedeltà alla scelta fatta di incarnazione in condizione operaia. Circa le responsabilità assunte nell’ambito delle organizzazioni operaie, per noi rappresentavano un servizio doveroso se utile alla loro causa. Non si trattava di supplenza, perché noi eravamo interni alla condizione operaia. L’evangelizzazione, che è compito di tutta la Chiesa, potrà avvenire solo collocandosi all’interno e anche condividendo i conflitti che di fatto ci sono.

«Non si può evangelizzare i poveri, la classe operaia, se non superando una visione ecclesiastica di Cristo, della Chiesa, del ministero sacerdotale. La Chiesa non trova il suo senso ponendosi come centro assoluto e autosufficiente, ma solo mettendosi al servizio dell’umanità. Cose che la Chiesa stessa ha detto ma che, almeno in Italia, non è riuscita a mettere in pratica».

Alla fine i vescovi dichiararono di essere desiderosi di continuare nell’ascolto per capire e per questo chiedevano pazienza. Al termine si concordò il tema per l’incontro successivo:

«Quali le condizioni per evangelizzare la classe operaia e quali i prezzi da pagare? Quale evangelizzazione la Chiesa riceve dal mondo operaio?»2.

Trascorsero quasi due anni per arrivare al terzo incontro, sempre a Bologna, il 10 dicembre 1983. Nel frattempo, ci furono un incontro e scambi epistolari tra la segreteria e monsignor Battisti, il quale disse che il confronto non sarebbe stato sull’evangelizzazione, ma ancora sull’approfondimento dei «nodi» già emersi.

Intanto, nuovo presidente della commissione era diventato monsignor Santo Quadri, vescovo di Modena. Erano presenti anche Battisti e Charrier, mentre la nostra delegazione era composta da quindici preti operai3. Noi presentammo una nota che toccava i seguenti punti: metodologia degli incontri tra vescovi e preti operai, la condizione operaia, le strutture della classe operaia, la cultura operaia; l’evangelizzazione, la nostra vita di preti operai. Anche monsignor Battisti presentò una nota, dove tra l’altro diceva:

«Resta una sostanziale fiducia dei preti operai nei confronti dei vescovi. Li ritengono in generale molto più aperti che i preti».

In questo incontro, però, l’interesse si spostò sulle nuove tecnologie e sulle conseguenze su lavoratori e società. Questo, in vista di un convegno che si sarebbe tenuto a Roma proprio sul tema: «Le nuove tecnologie e i problemi umani». Su questo i vescovi chiesero un nostro contributo scritto per essere aiutati a comprendere che cosa stava succedendo in questo campo.

Il Coordinamento dichiarò la disponibilità a offrire materiali su situazioni reali, dove eravamo coinvolti, con l’attenzione a industrie che possedevano un carattere esemplare.

Nel settembre del 1984 trasmisi a monsignor Battisti due allegati relativi alle situazioni FIAT e Zanussi con annotazioni che riassumevo nella lettera di accompagnamento:

1. Accelerazione dei ritmi di lavoro, fino ai limiti della resistenza fisica e psichica;

2. espulsione dei più anziani, degli invalidi, dei tossicodipendenti, cioè dei più deboli;

3. espulsione dei quadri sindacali, e frammentazione dell’organizzazione operaia in fabbrica;

4. ruolo del sistema bancario che, aumentando i tassi di interesse e riducendo i crediti, imponeva alle industrie il rientro rapido dei debiti a scapito della produzione. L’alto costo del denaro divorava ricchezza trasferendo riserve dal sistema produttivo a quello bancario.

La pronta risposta di monsignor Battisti annunciava anche la data del successivo incontro.

A Bologna, il 23 febbraio 1985. Erano presenti quindici preti operai, e ancora i vescovi Quadri, Battisti e Charrier.

Venne ripreso il tema: «Le nuove tecnologie e le conseguenze che dalla loro introduzione derivano nella fabbrica e nella società». Portammo nuova documentazione riguardante la Redaelli di Milano, e i problemi relativi alle piccole aziende artigiane e il decentramento produttivo. Silvio Caretto di Torino, a nome nostro, fornì una griglia di lettura:

«Siamo di fronte a un crinale storico, a una svolta epocale che influenzerà la vita dei singoli e delle società nei prossimi decenni».

Il modello che viene avanti è basato sul consumismo. A livello cattolico spesso ci si ferma al giudizio moralistico, incapaci di una lettura strutturale. Oltre ai quattro punti sopra elencati nella mia lettera, si ponevano domande alla Chiesa, la quale non può limitarsi a ripetere i grandi principi che non toccano nessuno, ma deve partire da un’analisi precisa della realtà. Tenendo presente che anche il padronato per fare queste operazioni ha bisogno di consenso.

Monsignor Battisti da parte sua sottolineava che

«l’incidenza del magistero sulle coscienze è molto ridotta e che occorre sviluppare una mediazione culturale da parte dei laici impegnati nel mondo sociale e culturale in modo che sia tutta la comunità ecclesiale a elaborare un annuncio che possa toccare le coscienze».

Un incontro molto riuscito e ricco, al termine del quale monsignor Battisti disse che sarebbe stato auspicabile un nostro contributo al prossimo convegno della Chiesa italiana a Loreto e a questo scopo insistette perché qualcuno di noi venisse invitato4.

In seguito ci comunicarono che per noi erano disponibili due posti. Rivolsi la richiesta a due espressioni forti delle differenze presenti nel coordinamento nazionale: Gianni Manziega di Mestre e Silvio Caretto di Torino.

A Loreto, nel 1985, avvenne una svolta che coinvolse tutta la Chiesa italiana. Iniziò l’era Ruini come nuovo segretario della CEI5. Vinse l’ala e l’anima

«presenzialista o intransigente, la quale lamenta che la comunità cristiana italiana “ha introiettato in sé alcuni punti di vista della cultura laicista, in particolare la lettura della storia moderna e contemporanea proposta dalla cultura illuminista e marxista in termini di soggettivismo, storicismo e ateismo. In conseguenza di ciò il cattolicesimo si è dicotomizzato, ponendo da una parte la vita religiosa, dall’altra la vita empirica”. Quello che propone è una ricomposizione dell’identità cattolica in tutte le espressioni della vita soggettiva, culturale e pubblica».

La componente presenzialista prevalse su

«l’area della mediazione o dialogante, rappresentata dal Cardinal Ballestrero che sosteneva: “Invece di perdersi in recriminazioni e condanne, la Chiesa italiana sente sempre più urgente il dovere di incarnare il dono divino della riconciliazione nelle molteplici condizioni umane nelle quali si trova a vivere”. Era la continuazione della cultura della mediazione incarnata da Paolo VI»6.

Negli Atti del convegno, il resoconto della commissione 14,

«indicando i “problemi più dolorosi e le situazioni più delicate” elencava alcuni casi di “appartenenza con riserva alla Chiesa […] quelle dei divorziati che hanno subito il divorzio, dei sacerdoti che vivono esperienze laicali, dei preti operai ad esempio, e di quelle persone che anche psicologicamente vivono condizioni patologiche e marginali”»7.

A parte la gratificante compagnia evangelica, sulla quale certamente l’azione messianica di Gesù avrebbe rivolto il suo sguardo, si eclissa totalmente quello che il Concilio aveva detto dei preti al lavoro e la missio ecclesiale di Paolo VI. Erano trascorsi soltanto 14 anni, e molti preti stavano lavorando proprio per aver seguito l’esortazione del papa. Una piroetta eccezionale, un assaggio della nuova aria, non certo conciliare, che si stava abbattendo.

Dopo Loreto, il nuovo Presidente della Commissione, Monsignor Charrier, fece conoscere alla segreteria dei preti operai la sua volontà a continuare il dialogo, invitando a programmare un nuovo incontro. Nella stessa estate andai a trovarlo per tentare di chiarire e definire la situazione. Ci incontrammo nella cornice delle montagne piemontesi, dove era in villeggiatura. Al termine mi disse di fargli avere un documento scritto. A fine estate lo trasmisi, ma non giunse mai alcun cenno di risposta. Si interruppero per sempre e senza alcuna motivazione notificata questi incontri nei quali, peraltro, monsignor Battisti e lo stesso monsignor Charrier erano arrivati a complimentarsi per l’impegno da noi profuso.

Nel luglio del 1985, Giovanni Paolo II nominò presidente della CEI il cardinale Ugo Poletti, vicario per il papa della città di Roma, in sostituzione del Cardinal Ballestrero, «nomina col sapore di commissariamento» (Melloni). In quel periodo, parlando con un prete operaio di Torino, l’ex Presidente della CEI ebbe a confidargli:

«Il vero problema per voi preti operai non si pone a livello di fede, quanto sulle garanzie della vostra affidabilità politica».

La nuova strategia della CEI non prevedeva di perdere tempo con chi non era allineato. In sostanza, il dialogo tra i preti operai e i vescovi avvenne durante la presidenza del Cardinal Ballestrero e con lui finì.

Due anni dopo la Commissione episcopale per i problemi sociali e del lavoro nel documento Chiesa e lavoratori nel cambiamento (17.1.1987), al n. 23 scriveva:

«Non sarà necessario mandare un prete in certi ambienti “difficili” come gli ambienti di lavoro; la Chiesa dovrà essere già presente e attiva nei cristiani, purché abbiano coscienza della loro identità e della loro missione come cristiani»8.

Sui preti che già da decenni lavoravano: significativo silenzio tombale!

Roberto Fiorini 


1«Al venerato fratello nostro Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, desidero esprimere la mia compiacenza per la sua lettera pastorale “Camminare insieme”, che finalmente ho potuto leggere per disteso, quasi la ascoltassi pronunciata dalla sua voce, gustandone l’accento semplice, calmo e autorevole, e scoprendo il cuore pastorale da cui questo documento trae la sua sapienza e la sua aderenza, da un lato, all’insegnamento evangelico e, dall’altro alle condizioni presenti del popolo di Dio e del mondo, in cui esso vive sommerso» (cit. da C. Carlevaris [a cura di], Michele Pellegrino. Camminare insieme. Rilettura ed attualizzazione, Ed, Esperienze, Fossano [CN] 1993, p. 72).

2Bollettino di collegamento dei preti operai 2 (1982) 7-9.

3) Bollettino di collegamento dei preti operai! (1984) 1. In un testo dattiloscritto in mio possesso si riporta una dettagliata cronistoria del terzo incontro, composta in sei pagine da Tony Melloni, gesuita di Parma, del coordinamento nazionale.

4) Bollettino di collegamento dei preti operai 1 (1985).

5) V. Gigante, 1985 – Convegno di Loreto: inizia l’era Ruini, in www.adistaonline.it (Adista nn.3193-3194-3195 del 4 aprile 1985): «Pe il cattolicesimo democratico è l’anno della Caporetto: giunge infatti al suo culmine la battaglia tra l’ala restauratrice della Chiesa italiana (guidata da Wojtyla, ma che trova nell’astro nascente di monsignor Camillo Ruini il suo stratega e in Comunione e Liberazione le sue truppe più agguerrite e l’ala “conciliare”, che aveva la sua avanguardia teorica (oltre che uno strumento di formazione del laicato, di presenza e animazione territoriale) nell’Azione Cattolica di Alberto Monticone, fortemente segnata dalla “scelta religiosa”. Quando tra il 9 e il 13 aprile si svolge a Loreto il II Convegno della Chiesa italiana il papa, intervenendo l’11 con un discorso ai delegati rimasto celebre, mise in riga ogni fermento ecclesiale. Parlò di una società scristianizzata in cui la Chiesa doveva recuperareun ruolo guida”, necessario a una nuova “implantatio evangelica”, esaltò la “carica”, la “varietà e vivacità” dei movimenti definiti “un canale privilegiato per la formazione e la promozione di un laicato attivo e consapevole”, sottolineò l’importanza di una “cultura della presenza” (proprio quella che Comunione e Liberazione andava contrapponendo alla “cultura della mediazione” portata avanti dall’Azione Cattolica di Monticone), cioè l’idea di una Chiesa “forza sociale”,impegnata in tutte le sue articolazioni a riaffermare il “dogma” dell’unitàdei cattolici nella DC»..

6) R. Fiorini, Scheda: I preti operai italiani, in Pretioperai O (1987) 8. Con citazioni colte da il Regno- Attualità 6 (1985). Una terza posizione, non rappresentata nel convegno, «ma presente tra credenti-militanti, si potrebbe definire del paradosso. Viene sottolineato il carattere paradossale del cristianesimo, non rappresentabile, nella situazione italiana, né in un sistema organico e integrale e neppure attraverso tentativi di mediazione».

7) Ivi 9.
8) Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana. Decreti, dichiarazioni, documenti pastorali per la Chiesa italiana, vol.4, 1986-1990, EDB, Bologna 1991, 295.
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