Testimonianze
A volte succede che vengo sollecitato a rispondere a domande del tipo: «ma perché non fai il prete sul serio?», «a te non te la danno mai una parrocchia?», ecc. ecc.
Sono interrogativi ricorrenti quando svolgo funzioni liturgiche o comunque connesse alla liturgia. Evidentemente, in tempi di magra per il sempre più scarso numero di preti disponibili alla pastorale ordinariamente offerta e richiesta, salta agli occhi l’incongruenza di un prete che si ostina a non impegnarsi in quello che è ritenuto il compito essenziale del ruolo che riveste. E che – d’altra parte – non sembra minimamente intenzionato a spretarsi o ad essere comunque su quella via.
Ricordo di aver scritto qualcosa in proposito già forse una decina di anni fa.
Cercavo di dare una risposta che mettesse in luce una presenza sacerdotale nelle pieghe dimenticate di una esistenza umana lontana dai luoghi di culto e dalla pratica tradizionale.
Oggi mi rendo conto di essere divenuto consapevole e geloso custode della «inutilità» di questo mio sacerdozio.
Pigrizia, concessione laicistica, tradimento della vocazione, opportunismo, assurdità, ambiguità, stranezza… chi più ne ha più ne metta. Può essere tutto questo e anche più di questo. Mi riesce francamente difficile andare ad analizzare la radice nascosta di questo mio atteggiamento.
E lascio volentieri al dolce ma fermo dovere dell’amicizia il compito di inquietare la mia coscienza a questo riguardo.
Sta di fatto che questa mia affermazione nasce dalla serena constatazione che più riesce quella «inutilità», più affiorano chiare le motivazioni di fede, fede povera e nuda, eppure così preziosamente accolta nella mia vita quotidiana. Perde quota – dentro di me – un sacerdozio rivestito di motivazioni sociali, di funzioni sacrali, ornato del buon servizio pastorale e del ruolo di animazione della realtà territoriale. .
E rinasce – con delicata prepotenza – la vocazione, la chiamata ad entrare nel mistero di Dio ed avere radici nell’Inconoscibile. Chiamata che non separa e non richiede specificazioni, ma introduce alla esperienza del dono continuamente rinnovato di sé a se stesso, agli altri, al mondo.
So che non sono in grado di impostare una discussione teologica sul sacerdozio e mi rendo conto di quanti aspetti anche sostanziali io stia trascurando in questo mio balbettare.
Mi preme, però, seguire il filo di una esperienza e di una coscienza che si è andato man mano dipanando.
Mi accorgo di rispondere – a chi mi chiede ragione dell’uso del mio tempo come prete – in un modo sempre meno convinto dicendo, ad esempio, che la mia chiesa è il capannone dove lavoro e che esplico il mio dono agli altri nel condividere la giornata con ragazzi con handicap.
Oppure quando vado in Etiopia per il programma di sostegno ai lavoratori di Assella.
Questi panni li ho sempre poco indossati ed ora proprio non mi ci sento dentro. Prevalgono, in questo mio pensare di istinto, le ragioni di un lavoro che ha la sua dignità e la sua completezza in sé, senza bisogno che io lo ricopra con intenzionalità.
Credo proprio che è qui che appare il lungo filo della appartenenza all’esperienza dei pretioperai.
Senza avere attraversato mai in modo pieno e continuativo la realtà della fabbrica e del lavoro dipendente secondo schemi “classici”, ho vissuto sempre il lavoro come tempo e dimensione del vivere umano senza che questo venisse a contrasto sul piano dell’essere prete per me. Il lavoro è entrato nella mia vita di prete come normalità.
Non mi sono mai sentito preso in mezzo da due professioni, quasi che l’una rendesse impossibile o comunque sacrificasse l’altra.
Oppure in difficoltà o insoddisfatto del mio lavoro fino a cercare un altro lavoro che mi occupasse le giornate e mi rendesse interessante agli occhi degli altri.
Il lavoro manuale stesso per me non è una umiliazione: semmai la gioiosa scoperta di un’alternativa dopo venticinque anni di scuola!
E continua a sorprendermi la meraviglia, lo «scandalo» o la sorpresa della gente, come se incontrassero un medico o un ingegnere elettronico che, dopo anni di studio, in vista di un posto di prestigio meritato, decidono di compiere lavori duri ed anonimi.
Per me una cosa non è mai entrata in contrasto con l’altra.
E l’etichetta di preteoperaio me la porto addosso volentieri.
Come «operaio» appartengo alla classe degli uomini che vivono la loro speranza di vita quotidianamente e quindi «dipendono» dalla salute collettiva, dal livello di libertà e di autonomia del popolo intero, dallo svolgersi di una storia nella quale sono immersi tutti coloro che sono del popolo.
L’esser prete, quindi, non mi richiede una seconda collocazione, non mi dà diritto ad una vita particolare, separata.
La preghiera, la meditazione, non sono doveri professionali, ma condizione di respiro dell’anima nella realtà quotidiana di tutti dove si è – come tutti coloro che fondamentalmente non si difendono dalla loro umanità – sullo stesso piano degli altri.
Anche se nella preghiera comune e nella vita concreta della Chiesa ci è richiesto un ruolo diverso.
E la testimonianza e la comunione non sono valori determinati dal rivestire ruoli scontati, secondo moduli professionali per cui il cliente ha sempre ragione però alla fine deve pagare, ma da una vita che viene accolta e che parla al cuore di tutti coloro che si avvicinano: con fiducia e stima, ma anche con la profonda sincerità che deriva dalla consapevolezza di essere tutti in cammino.
Non sono io il fattorino del dono che Dio mi ha fatto: incaricato di portarlo a casa del gregge che mi è affidato.
Pacco in contrassegno che assicura la vita eterna.
Sento profondamente che al di là – molto al di là – dell’esserne, secondo le alterne fortune, orgoglioso o depresso, devo essere io il primo a rimanere dolcemente stupito per ciò che gli altri possono vedere attraverso la mia parola, la mia vita.
Ed anch’io ho lo stesso dovere di farmi seguace con loro.
Io che, per primo, non so dove andare, a quale fedeltà rispondere, ma so di essere giorno per giorno guidato e sostenuto da cibo che si raccoglie ogni mattina nella misura misteriosamente misurata perché si esaurisca la sera.
E questo cibo sono chiamato a dispensare: per me e per gli altri.