Chiesa ed evangelizzazione
Esperienza religiosa – cristiana e vita operaia
Introduzione
Brevi note possono introdurre le rievocazioni e le riflessioni sull’argomento.
La prima è che esse sono certamente agganciate all’esperienza cruda della vita operaia ma nel contempo sono pure risvegliate dal contesto culturale, antropologico e teologico, in cui un credente (-prete) operaio è immerso.
La seconda, che non pretende di avere il valore di analisi sociologica, descrive brevemente fenomeni religiosi (o anti-religiosi) che sono rilevabili nel mondo operaio.
C’è un diffuso senso di ateismo, che nelle persone meno impegnate ha più l’impronta dell’indifferenza pratica, ma nelle persone militanti porta il riflesso culturale delle ideologie atee (scientifiche e sociali).
Vasto e diffuso, anche tra operai che si dichiarano credenti e praticanti, è il fenomeno della bestemnia, che, se per alcuni è espressione di superficialità e di mimesi ambientale, per altri tocca in profondità la vita di colui che è costretto al lavoro.
Se c’è un ambiente culturale che porta il segno della secolarizzazione è senza dubbio quello dell’azienda, dove almeno direttamente la conflittualità dei reciproci doveri e diritti non è risolta ricorrendo al nome di Dio, alla carità evangelica e all’autorità della Chiesa, ma segue piuttosto la dinamica del contrasto degli interessi, della compatibilità secondo le leggi economiche e della forza delle parti contraenti (se veramente è contratto ed una non subisce la maggior forza dell’altra).
Infine – forse indizio positivo – c’è la permanenza di una religiosità che è legata ai momenti esistenziali (nascita – morte), è trasmessa dalla tradizione (pratica pasquale), è vivificata dal numinoso miracolistico e devozionale (santuari – apparizioni), è espressa anche nel folklore.
Una terza nota preliminare vuole evidenziare le esigenze e i valori che, provenendo dall’ambiente operaio, aiutano a vivere ed esprimere la fede in modo nuovo (o rinnovato).
Anzitutto la persona che si lascia interpellare dagli interrogativi più acuti che provengono dall’umanesimo ateo, riscopre che l’esperienza religiosa e cristiana va vissuta più come ricerca e conversione di fede che certezza di verità e sicurezza della Presenza.
Poi nel vocio delle bestemmie udite nella fabbrica in contrasto con l’incenso della preghiera elevata nell’assemblea credente si inserisce un altro aspetto: la fede è vissuta come conflittualità.
In terzo luogo, in un ambiente esistenziale e culturale, che o trascura come perniciosa o considera inutile o riconosce inefficace la Presenza divina, s’impone come valore determinante l’autonomia laica, che può ristabilire il rispettoso dialogo tra credenti (di diverse religioni e di diverse confessioni) e uomini che non credono nell’Assoluto.
Infine un ultimo valore può essere introdotto nell’esperienza di fede: è 1’ “erraticità”, il “vagabondaggio” di Dio: è soprattutto “pasquale”, è certo “esodico” e pure “pellegrino”, è anche “Emanuele”, ma è anche “qua e là”, imprevedibile e inafferrabile.
Ricerca di religione e conversione della fede
1.
Né dalla cultura operaia né dall’ambito culturale più vasto, scientifico e sociale – politico, sarà mai accettata una presentazione di fede che, diventando ideologia, motiva e giustifica in nome di Dio tutto quanto succede nella storia, la legge senza discernimento evangelico secondo la prospettiva dei vincitori, che blocca l’esigenza investigativa e operativa della mente umana, ponendo limiti sacrali nella ricerca della realtà e nella ricomposizione dei reciproci doveri e diritti (per es. la proprietà è sacra; melius est jus primi possidentis…), che frena il desiderio e la speranza di quella parte dell’umanità che si trova a vivere nella subalternità, a esistere nella quasi – insignificanza, a restringere i confini della libertà (personale e sociale) quasi fosse gente senza “diritto”.
Così entro una cultura che irride la filosofia inerte che non trasforma il mondo, ma ricerca la verità dinamica che compia il vero umanesimo, non sarà accolta una dottrina religiosa e una comunicazione credente, che “mostri indifferenza di fronte alla condizione dei poveri”, la spinga “alla rassegnazione in nome della volontà di Dio o di un fatale realismo storico”, la incanti con prospettive di compensazione di felicità ultraterrene (Cfr. G. Gutierrez, in Concilium 1, 1990, p. 122).
Inoltre nel mondo moderno, che conserva memoria delle crociate, che non può dimenticare le guerre di religione, che sa quanto le rivoluzioni siano state cruente, che ha onore del triplice olocausto che si è consumato in questo secolo, a fatica si nominerà il nome di Dio e si invocherà la protezione dell’Altissimo a favore di una frazione di umanità che combatte contro l’altra parte.
Ecco allora la riscoperta della fede come conversione, o meglio, riprendendo una parola evangelica, della conversione che fa movimento unico con la fede (Mc. 1,15). Quanto poi la critica dell’umanesimo ateo abbia aiutato la Chiesa a rivivere la dimensione nuova e a comunicare con insistenza verità che erano come dimenticate (ad es. la preferenzialità dei poveri), come abbia preso coscienza dell’inscindibilità di una rivelazione del Padre che è parola che si fa azione, di un Evangelo di Gesù che insegna e opera, come si sia ripensata come comunità che ascolta la parola e la mette in pratica (Mt. 7,24), che riscopre “le dimensioni sociali” del suo mistero, qui può essere detto solo come esempio di quanto il “mondo” possa aiutare la Chiesa (Cfr. GS. IV).
2.
Nell’esperienza di religione e di fede che accoglie il dato esistenziale, che ascolta la Parola che forma il popolo eletto, che a Gesù di Nazareth proclamato Messia aderisce come all’apice e al compimento, che in comunione ecclesiale confessa e testimonia il Salvatore, si vivono tensioni di conversione più che di possesso: la mente che ricerca la Presenza viva, afferma ma è avvolta nello stesso istante nella misteriosità e mistericità, afferma la luce della verità ma si smarrisce nel Solo… “che abita una luce inaccessibile” (1Tim. 6,16) e difficilmente coniuga la Verità con le molteplici verità che l’intelligenza umana ha scoperto, confessa che “è” ed è Padre ma si confonde e si disperde in tante parole per spiegarlo; il cuore vive in sospensione di fronte a Colui che rivelandosi si nasconde, più che di fiducia che si abbandona a Dio il cui volto è propizio…
L’esperienza di fede è sempre “pasquale” nel senso che è trasferimento dall’oscurità alla luce (Col. 1,13), è sempre rottura di un cuore che tende a richiudersi e ricreazione di una coscienza che accoglie la grazia.
Più che il linguaggio dogmatico è quello simbolico che può esprimere quanto la fede in Gesù sia ricerca e conversione. Nel dramma della “Luce che splende nelle tenebre” (Gv. 1,4), nell’esortazione a camminare nella luce “per divenire figli della luce” (Gv. 12,36) e a volgere l’attenzione a Gesù, “stella radiosa del mattino” (Ap. 22,16), finché illumini i cuori (2Pt. 1,19), nell’invito ad un’attesa vigilante e operosa, perché l’arrivo dello Sposo nel mezzo della notte non colga nel sonno, nell’invio alla missione in prudenza e semplicità (Mt. 10,16), finché la “luce illumini le genti” (Lc. 2,22), viene accennato come il credente non debba lasciarsi “sorprendere dalle tenebre” (Gv. 12,35).
3.
In tre linee si può verificare che la fede è permanente conversione. La prima riguarda la complessa e tentennante ricerca della Presenza (personale e tripersonale). Sempre dall’inizio e lungo il percorso sembra che l’uomo sia il protagonista dell’indagine, ma quando la mente aderisce e il cuore si conforma alla Parola, ci si rende consapevoli che Colui che è fin dal tempi antichi è anche Quegli che per primo cerca le sue creature, che dona l’ispirazione della grazia, che sollecita all’assenso, che dal cuore fa nascere la confessione e la preghiera che affiora sulle labbra.
a.
Il fondo ateo (oscuro, muto, desertico e viperino), che in ognuno non è diafania né musicalità verso l’Assoluto, né limpidezza di vita né semplicità di cuore, la voluttà idolatrica (orgogliosa, magica, prometeica) del voler dare un Nome al Tutt’Altro, di soggiogare la potenza dell’Altissimo, di vincere il Forte, la tentazione pagana (ora a valenza bacchica – esilarante ora a tendenza cinica – disperata) che afferra il popolo proprio mentre venivano comunicate le Dieci Parole, di ripiegare verso la fertilità, la vitalità e la potenza della terra, lo scandalo umano della Croce, che confonde la sapienza di tutti gli uomini e giudica la forza dei potenti sono coesistenti all’esperienza di fede che accoglie il Crocifisso come segno supremo d’amore del Padre e guarda al Trafitto come speranza di vita per gli uomini, che vive l’elezione come benedizione per tutte le genti e come legge d’amore per tutte le generazioni, che attende la rivelazione del Nome di Colui che è e, dopo aver esplorato i 99 bellissimi nomi (Islam), nel solo nome insegnato da Gesù esprime la preghiera, che nell’adorazione “con tutto il cuore, con tutta l’anima” raggiunge la perfezione, diventa gloriosa trasparenza.
Tre osservazioni che non pretendono di esaurire il discorso teologico, è bene inserire a questo punto.
La prima riguarda il senso di questo essere “simul fidelis et incredulus”. È chiaro che l’affermazione è un’estensione del famoso “simul iustus et peccator” della teologia riformata ed ora accolto anche dalla teologia cattolica (cfr. K Rahner, L. Ladaria, Antropologia teologica, p. 273).
Non si vuole sostenere la contraddizione, ma affermare che la nostra fede sarà sempre fede “combattuta”, minacciata, insicura fino all’ultimo istante della nostra vita. (Pesch, Liberi per grazia, p. 222).
Parlando di esperienza di fede s’intende sottolineare l’incontro personale con Gesù Cristo, che salva e che trasforma l’uomo affinché possa compiere le opere della carità (si parla di fede personale: Gesù è la “fides quae creditur et qua creditur”; di fede salvifica: il Salvatore; di fede viva, non morta).
Non viene escluso l’aspetto concettuale della fede, ma si sottolinea l’approccio personale, che include l’adesione alla verità e implica la fiducia; non si vuole misconoscere che la fede è offerta della grazia, ma si vuole evidenziare la qualità della risposta dell’uomo.
Per recepire come il cuore “inclinato al male”, tenti di corrompere l’Evangelo di Gesù, è sufficiente riferirsi ad alcuni episodi della Chiesa primitiva, che segnano fenomeni storici della Chiesa: come l’animo magico di Simone voglia “comprare” il ministero di imporre le mani e di donare lo Spirito (At. 8,18-19); come l’egoismo avido di Anania e Saffira tenti di rovinare la comunione e di ingannare lo Spirito Santo (At. 5,3-4); come la tendenza al protagonismo conduca a dividere il Cristo (1 Cor. 1,10-12).
b.
Un secondo nodo di esperienza evidenzia la fede come conversione: quello che può essere detto come il “malinteso”, che dal secolo dei Lumi si rigenera di generazione in generazione, come cioè evitare che ogni affermazione su Dio suoni disprezzo dell’uomo e viceversa, come ogni affermazione sull’uomo sia rivolta o negazione di Dio (Valadier).
In altre parole, mentre si proclama la gloria di Dio, quasi in concomitanza, si debba narrare anche la “regalità” di tutti gli uomini e di tutte le donne: “come un prodigio l’hai intessuto!” (Salmo 139).
Attraverso i miti fascinosi viene descritto il rapporto tra Dio e l’uomo come opposizione dell’Uno all’altro: come sforzo immane dei Titani che si ribellano agli dei e li vogliono spodestare, come furto del fuoco dl Prometeo che provoca la gelosia e la vendetta punitiva degli dei, come lotta tra i figli del cielo (Ercole) e i figli della terra (Anteo), come condanna a fatica inutile (Sisifo).
La fede invece, mentre con il “trisagion” glorifica il Signore degli eserciti (Is. 6,3), invita pure a celebrare in triplice canto la “regalità dell’uomo”.
Un motivo scende dall’alto e la nota iniziale può essere: “l’hai fatto poco meno degli angeli” (8,6); il secondo s’innalza dal basso e la nota profonda può essere: “non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie” (Qo. 3,19) o può venire dal soffio leggero della sua esistenza: “l’uomo è come un soffio, come ombra che passa” (Sal. 144,4).
Ma i due motivi s’incontrano e si intrecciano, si modulano a contrappunto e si sostengono a vicenda, in modo tale che il primo non sconfini verso l’idolatria e l’altro non si inabissi verso il luogo “dove nessuno canta le lodi” (Sal. 6,4).
Delle riflessioni si devono aggiungere, perché l’esaltazione dell’uomo non perda in sapienza.
È negli aspetti deboli dell’esistenza che deve essere vissuta e detta la celebrazione della dignità umana, in verità e autenticità, non in vaniloquio e in illusione.
Credenti e non credenti, che si accomunano e si accompagnano nella fatica del vivere, non in astiosa polemica ma in reciproca consolazione e silenzioso rispetto si accordano per fissare il posto più alto dato all’uomo, sia quando considerano il suo “destino” verso la morte, misurano la breve e contingente durata della sua vita, percepiscono l’angoscia e l’affanno del suo cuore, sia quando si accorgono che il dolore del singolo è una goccia rispetto all’immensa amarezza dell’umanità, che il lavoro di uno o di un gruppo svanisce nelle immani fatiche sostenute per costruire “civiltà sepolte”, che la fine non è che l’episodio personale della “sorte unica per tutti” (Qo. 3,2) e per le generazioni; sia quando prendono coscienza (ora esaltandosi ora inorridendo) della violenza personale e collettiva, che di secolo in secolo ha dato luogo al fenomeno dell’oppressione, che ha fatto esplodere la tragedia delle guerre, che ha spinto all’eliminazione di persone e di razze.
Degno di ogni lode e più bello di tutte le cose è l’uomo, anche se i suoi giorni sono misurati in pochi palmi (Sal. 30,6), anche se vale per lui e le sue opere il detto: “tutto ritorna nella polvere” (Qo. 3, 20), anche se è malvagio che trama il male (Sir. 20,25).
Certo diversa è la riflessione finale della persona che non crede da quella della persona che accoglie la Parola. Mentre il non credente afferma l’assurda vicenda della storia, acquieta l’intelligenza e il cuore nelle vertigini oscure del nulla, vede svanire nella morte l’impegno della breve vita, il credente invece intravvede nelle vicende umane la rivelazione (“l’apocalisse”), sia pure “in enigma” (1Cor. 13,12) di un disegno, frutto di altra Mente, attraverso deboli segni scorge la trama di un tessuto che è opera di altre “dita” (Sal. 8,4), nei luoghi dove è passata funerea la morte e violenta è planata l’oppressione percepisce soffio di vita, segno della presenza di colui che “era morto ed ora è vivo” (Ap. 1,16) e risposta al desiderio vivo del cuore umano.
Non gli è facile dire, spiegare ed esemplificare tutto questo: che non è l’illusione di un trasognato, ma è l’intuizione delle realtà che hanno sostenuto il mondo fin dalla fondazione, che non si tratta solo di vita eterna, ma anche della vita che continua in questa terra, e che è il “miracolo” che opera il Padre onnipotente e che supera la fantasia di qualsiasi uomo.
Un’altra riflessione riguarda l’universalità del riconoscimento della vera dignità umana: non solo al re deve essere “cantato il poema” (Sal. 45,2), ma questo deve coinvolgere tutti i figli dell’uomo.
C’è il sospetto, e poi non tanto tacito, che le persone che fanno l’esaltazione della dignità umana, la limitino al proprio gruppo e non la estendano a tutti gli uomini, forse perché quelli che hanno incominciato a proclamare l’eguale dignità, non provengono dagli “umili” della terra o perché l’origine dell’umanesimo, che è l’ambiente culturale del mondo occidentale, non è la cultura primitiva di una tribù aborigena.
Certo aprendo gli occhi sulla moltitudine di “piccole creature” umane e tenendo presente le dimensioni fragili che avvicinano tutte le persone (i piccoli e i cosiddetti “grandi”), è urgente affermare la nobiltà di tutte le persone umane, avviare un processo di promozione che scomponga le strutture che cristallizzano le gerarchie, rifondare una mentalità che renda operante il senso egualitario e rispetti pure la qualità (o il carisma) che diversifica.
E, riprendendo il discorso, se il passo di tutte le persone scandisce il pellegrinaggio-che-va-verso-il sepolcro, il richiamo della fine comune non è indugiare in un’ovvia verità o in macabro spettacolo, ma significa indurre a sapienza che avvicina gli uni (i primi) agli altri (gli ultimi) e dire sommessamente la propria speranza: “La foglia non è morta. / Adesso vive perché è parte di Dio, / riposa tra le sue dita” (Cesare Ruffatto).
Entro un limite è posta ogni persona umana, ma l’esperienza di finitudine riporta vicino ai deboli i potenti che credono di regnare sempre, può dissolvere l’impressione che il confine entro cui si svolge ogni vita sia la condanna e il “male esistenziale” e giungere al rispetto di ogni coscienza, come al “luogo – tempio” dove si osa dire la preghiera, come al “centro” donde si irradia verità e grazia, come all’“occhio interiore” che riconosce la bellezza di ogni creatura umana.
Così pure nell’esperienza di dolore e di malattia le persone, che sono distinte per ricchezza, cultura e abilità professionale, s’incontrano con le persone che hanno speso il loro denaro nel sostentamento quotidiano ed hanno spremuto tutte le loro energie nella fatica quotidiana del vivere.
E tutti, i ricchi e i poveri, possono prendere coscienza che le virtù deboli, come la delicatezza e la tenerezza, sono il sostegno dell’esistenza: all’inizio quando il bimbo è accolto da mani leggere e sino alla fine quando i piccoli gesti accompagnano il declino.
Ecco, solo partendo dalle “piccole persone” e dalle esperienze fragili si può smascherare e denunciare l’ipocrisia di una cultura (profana e religiosa) che, mentre proclama l’eguaglianza, perpetua la disparità fino alla sepoltura.
Ecco, così è reso evidente il tradimento dell’Evangelo, che proclama di partire dagli ultimi, di preferire i poveri e di accogliere i deboli, ma nella pratica si ferma in strutture che continuano a favorire i “primi”, a promuovere iniziative che anche quando sono indirizzate ai “poveri” alla fine non tolgono nulla ai ricchi, anzi dalla assistenza ai poveri deriva loro ulteriore ricchezza.
Comunque, nonostante questo, se la coscienza moderna perdesse il senso di vigore che proviene dall’incontro tra la sapienza umana che proclama la dignità umana, il senso evangelico che indica le categorie di persone da cui partire e il gemito (o il grido) della sofferenza, un vero “lievito” scomparirebbe dalla storia dell’umanità.
c.
Un altro plesso di esperienze va vissuto come conversione nell’adesione di fede: è l’itinerario della mente e del cuore, del sentimento e dell’attività verso il Dio che attrae.
In questo, mentre si camminano le vie della terra e si seguono i movimenti della storia, il cuore non deve essere fisso solo là dove è la “vera dimora”, ma deve prestare attenzione ai “segni dei tempi”, a quegli eventi dove si verifica “in speculo” la Presenza gratuita ed efficace del Datore di ogni bene e nello stesso tempo segnano un momento di elevazione delle persone umane: eventi che trovano il loro paradigma nella proclamazione: “Solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero per farlo sedere tra i principi…” (Sal. 113,7s.).
Un Salmo indica una consonanza, una compresenza fra eventi umani e la cura premurosa di Dio: tra il grido delle masse angosciate e la risposta di Dio c’è immediatezza, “nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie” (Sal. 107, 6): questo è detto forse in modo troppo automatico, non tiene conto della complessità del fenomeno, non rileva come anche entro questi fatti si possono sviluppare comportamenti malavitosi e non numera le perdite umane che si sono avute prima che si celebri il ringraziamento: “Ringraziamo il Signore… per i suoi prodigi a favore degli uomini” (Sal. 107, 31).
È facile scorgere una corrispondenza tra i fenomeni evocati dal Salmo e quelli che si verificano nell’attuale momento storico: ci sono le masse, che affamate ed assetate vagano nella terra incolta e deserta e si muovono verso una terra fertile dove possono costruire una città da abitare (Sal. 107,4-9); appaiono i popoli, che sono ridotti in ceppi, sono esportati come schiavi o sono costretti a fuggire dai loro paesi e per vie, valichi e rotte diverse raggiungono il luogo della vita e della libertà (Sal. 107.10-16); si vedono i gruppi di ammalati, quelli che per loro colpa sono colpiti da malattie mortali, quelli che si lasciano morire perché han perso il gusto della vita, quelli che sono innocenti (bambini e vecchi) lasciati languire (Sal. 107,17-23); infine compaiono i coraggiosi naviganti, che sfidando il mare commerciano, nel profondo vedono le opere del Signore, affrontano i pericoli nella burrasca, e in questa categoria possiamo intravvedere e gli uomini che lavorano la terra e ne ricavano le risorse e gli uomini che costruiscono le navi e rielaborano i frutti della terra (Sal. 107,23-30).
Ed è istruttiva la conclusione: “Chi è saggio osservi queste cose e comprenderà la bontà del Signore” (v.43). Chi subisce questi fenomeni e trova il coraggio di trasformarli (“renderli esodo”), chi collabora affinché gli aspetti negativi spariscano, comprende e vive l’amore di Dio.
Più ancora del salmo la pagina delle beatitudini è guida indispensabile per decifrare gli avvenimenti carichi di significazione divina e umana: in una società dell’abbondanza e del benessere, dove gli uomini diventano insipienti “come animali che periscono” (Sal. 49,21), sorgono i poveri, che con lo sguardo puro e l’intenzione retta valutano i “veri tesori”, raccolgono per se stessi il pane quotidiano e condividono i frutti della terra, i prodotti del lavoro e i benefici della civiltà; in un paese dove freme l’ira contro le disparità, e dove la struttura economico – sociale e politico – civile contraddice al senso di giustizia, e dove la convivenza nel diritto e nel dovere si riduce a parola vuota, a documento scritto, come dono che viene dal Cielo si elevano gli uomini, nei quali il desiderio di giustizia è più forte della fame e della sete fisica, che sono disposti a rischiare la vita perché l’ira che si agita nel cuore degli oppressi si tramuti in slancio che opera e lotta per il bene degli ultimi e di tutti, che sono capaci di provocare prese di coscienza e di suscitare movimenti che realizzano una convivenza umana più equa; oggi, in questo momento storico in cui incombe la minaccia della distruzione totale, in questi giorni che sono di guerra, nascono come benedizione gli uomini “amanti della pace”…
Un documento ecclesiale è stato provvidenziale per aiutare i credenti a leggere la storia, scrutando i segni dei tempi; la Pacem in terris. Per quanto riguarda il tema della pace così si esprime:
«Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi, ma attraverso il negoziato. Vero è che sul terreno storico quella persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva delle armi moderne; ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelli armi apporterebbe alla famiglia umana: per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (nn.126-127).
Il Pater aiuta a superare le antinomie e le tensioni che un nuovo itinerario spirituale provoca e serve a tenere uniti i poli di esperienza, che nella tradizione cristiana sono vissuti in scissione (ad es. il materiale e lo spirituale, l’interiore e l’esteriore, l’individuale e il comunitario, il terreno e il celeste, lo storico e l’escatologico…).
Chi vive e prega coniugando la domanda che richiede la santificazione del Nome con quella che invoca il pane quotidiano (feriale ed eucaristico); chi supplica ed opera l’avvento del regno di giustizia, di amore e di libertà e insiste a chiedere la grazia, che perdona e che induce al reciproco perdono; chi eleva lo sguardo al Cielo e invoca che si affacci la giustizia dall’alto e con perseveranza bussa perché sulla terra germogli la verità e sia tolto il male dal mondo; ecco, tutti costoro sono in comunione con il Padre che ha creato il cielo e la terra, che dona la grazia ai giusti e agli ingiusti, che non nega lo Spirito e non permette che nessuno dei piccoli vada perduto.