“La polvere e i testimoni” (2)
Seminario di Lonigo, 20-21 ottobre 1990


 

Devo fare una premessa poiché sono costretto ad estrapolare ciò che devo dire da una sorta di sistema filosofico-teologico e temo che le singole parti di questo sistema non siano comprensibili isolatamente.
Forse potrebbe essere utile per renderle più intellegibili dare alcune suggestioni chiare, dato che questa questione, questo problema della relazione tra gli assolutamente distinti, cioè Pietro e Giovanni, questa relazione non avventizia – si potrebbe dire parafrasando Agostino – può essere illustrata con alcuni spunti essenziali.
Molto schematicamente. Mi pare che tutto il discorso ruoti intorno al tema del paradosso cristiano. Il paradosso non significa negazione della doxa, se è negazione della doxa il paradosso diventa tutt’altro che paradossale. La doxa, cioè l’opinione, il discorso comune è tutt’altro che paradossale, diventa un distacco gnostico che non ha nulla a che fare con la tradizione cristiana e con qualsiasi buona filosofia.
Il paradosso è paradosso nella misura in cui tiene insieme, e quindi istituisce una sorta di relazione simbolica tra dimensioni assolutamente distinte. Questo è paradossale poiché due dimensioni, assolutamente distinte, simbolicamente si relazionano. Se io invece intendo il paradosso come l’eliminazione della doxa, non combino alcun paradosso, poiché nulla è meno paradossale della totale separazione di due elementi che sono assolutamente distinti. Allora nel paradosso cristiano è implicito il richiamo necessario – cioè che mai viene meno – alla doxa.
E così va letto a mio giudizio anche tutto il messaggio evangelico in tutti quegli aspetti che molte volte sono letti in modo non paradossale, ma in modo esclusivamente umanistico. Cioè il paradosso si spezza sia che io legga il messaggio come un anelito alla totale negazione della doxa, sia che io lo legga in senso umanistico. Questo vale appunto per Pietro e Giovanni che sono un paradosso nella misura in cui non vengono distinti. Se vengono distinti, se io sono solo uno spirito giovanneo, non sono più paradossale perché il paradosso non è la negazione o il generico oltrepassamento della doxa. Questo è il problema decisivo su cui è centrato tutto il mio sistema. Insisto su questo proprio per reagire ad ogni debolismo sia in teologia che in filosofia, ad ogni tentativo di risolvere queste colossali questioni con predicozzi di carattere morale, “testimoniale”, edificante, letterario etc.
Il problema riguarda l’Inafferrabile. Io non sono un credente, ma credo che quello che dirò sia perfettamente ortodosso, cioè appartenga al grande senso della tradizione teologico-cristiana. Se dell’Ineffabile io affermo immediatamente, semplicemente, tautologicamente l’ineffabilità, io lo definisco nel modo più vincolato e più religioso che si possa immaginare. Perché nulla è più definito dell’assolutamente ineffabile, cioè di ciò che sta assolutamente nel silenzio. Io lo definisco, io lo imprigiono nella dimensione del silenzio. Altroché renderlo inattaccabile rispetto alle nostre pretese o troppo superiore rispetto alle nostre miserie creaturali! Io lo imprigiono, lo catturo, nulla è più catturante della fuga-predica sul silenzio e sull’ineffabile. La grandiosità della teologia cristiana in tutti i suoi grandi maestri è proprio stata quella di vedere che l’Ineffabile è coerente con la paradossalità cristiana nel momento in cui viene testimoniato. In cui viene testimoniato da coloro che non sono semplicemente gli uditori ubbidienti, ma che sono i factores Verbi, poietai. La lettera a Giacomo ad esempio dice: “non siate semplicemente uditori, dovete essere fattori del Verbo”: poietai. Questa è una ragione essenziale da comprendere, e cioè che, a differenza di altre tradizioni religiose e a differenza radicale dell’Islam, io ritengo si possa rispondere alla domanda formulata: ma la Parola ha bisogno del testimone?
Ritengo si possa rispondere sì, ha bisogno. Ma non nel senso che la nostra parola, che testimonia la Parola, risolva la Parola, cioè che la Parola si traduca integralmente nella nostra dimensione umana, umanistica. Ma bisogna intendersi che la Parola esiste, proprio ek-siste, assolutamente ed esclusivamente nella nostra parola, nel nostro farla e non soltanto dirla, e quindi anche nel nostro tradirla, tramandarcela. Perché è così che si fa la Parola, è così che noi siamo factores Verbi, nel tradirla – tramandarla – trasformarla.
E questo senso profondissimo dell’ermeneutica è connaturato alla dimensione del messaggio cristiano a differenza radicale ad esempio dell’Islam, dove questa dimensione di una “ermeneutica immanente” dell’annuncio stesso non vi suona e anzi è stata costantemente condannata dall’ortodossia islamica, dalle grandi correnti dell’ortodossia sannita, anche se con grandi scismi, eresie, anche all’interno di quella straordinaria tradizione.
Quindi, guai a vedere, guai a fare dell’Ineffabile un titolo, in cui si imprigiona il senso dell’altro. Il totalmente altro è coerente alla paradossalità cristiana in cui il totalmente altro non è un corpo separato, ma proprio è, esiste nel nostro fare la Parola, nel nostro essere poietai della Parola, auctores Verbi.

Queste brevi precisazioni possono dare in forma succinta il quadro teologico-filosofico in cui affrontare il tema della relazione tra Pietro e Giovanni. Questo è un simbolo; intendo il termine simbolo come del tutto alla luce della paradossalità dell’annuncio cristiano e dell’età che questo annuncio apre e in cui tutti siamo, credenti e non, consapevoli o meno, cioè il consistere insieme di dimensioni assolutamente distinte. Perché l’assolutamente distinto è indisgiungibile? Noi qui ad esempio siamo tutti distinti, eppure non siamo assolutamente distinti, siamo pieni di somiglianze, riferimenti l’uno dell’altro. Qui si parla degli assolutamente distinti. Gli assolutamente distinti sono indisgiungibili, perchè se io sono assolutamente distinto, se una persona è assolutamente distinta dall’altra non può definirsi che in rapporto all’altra. Poiché quella dimensione è l’assolutamente distinta dall’altra e quindi indisgiungibile dall’altra. Il simbolo secondo me nel suo significato più pieno è paradossale nel senso che ho spiegato, è la congiunzione, la relazione non contingente tra gli assolutamente distinti, tra dimensioni cioè che non possono concepirsi se non per la loro distinzione.
Iniziamo la spiegazione di questo simbolo da Pietro.
Io credo che nella investitura di Pietro da parte del Signore non possa esservi alcun dubbio; egli è chiamato continuamente primo in tutta la lettura evangelica, è il primo tra i primi ed è Pietro. Ed è a lui che Gesù dice di seguirlo, di andare. Ed è altrettanto indubbio che Pietro tradisce. Egli non solo non è, come gli altri discepoli, Giovanni e le donne, ai piedi della croce, ma lo tradisce, e lo tradisce più radicalmente e profondamente di tutti gli altri discepoli. Pietro è apostrofato nella testimonianza evangelica prima citata come apostàtes e negli stessi termini e con le stesse parole con cui Gesù caccia il demonio: “Vade post me!”, va’ via Satana! E proprio come Satana, Pietro in quell’episodio voleva allontanare il calice, voleva distoglierlo dal sacrificio. Va’ via, Satana, perchè tu non riesci a vedere, non hai occhi, “non riesci a intuere Pietro”, pneumatikà, quae Dei sunt, le cose dello Spirito, le cose che appartengono a Dio! E questa difficoltà di Pietro a vedere, ad intuire, a comprendere, emerge chiaramente non nei libri, ma nella splendida tela del Dürer in cui per l’appunto Pietro e Giovanni stanno insieme, nella Alte Pinakotheke di Monaco. Là Pietro è tutto dolorosamente teso ad intuire qualcosa del vangelo che Giovanni gli tiene aperto. Pietro è il primo e in quanto primo il vecchio, il più vecchio, è colui che tradisce il Signore più duramente. Anche gli altri lo tradiscono e non sono ai piedi della croce, ma a Pietro soltanto Gesù si rivolge dandogli del Satana, non riesce a vedere quae Dei sunt. Eppure unanimemente tutti i vangeli lo riconoscono come protus, il primo e la pietra su cui si edifica la Chiesa di Gesù.
La durezza, la porosis pietrina è il suo profondo condividere in questa durezza la miseria del mondo e nello stesso tempo anche la sua obbedienza. La sua durezza, questa difficoltà a vedere, a comprendere non ostacolano affatto la sua obbedienza nemmeno nel suo tradimento. La sua durezza è resa fertile da questa fede, questo continuo doppio in Pietro che non viene mai meno, che suscita un’altra immagine altrettanto formidabile nel cogliere la natura della figura di Pietro: quella di Masaccio alla cappella Brancacci a Firenze. Là non compare alcuna traccia di gioia o felicità o ilaritas potremmo dire con una bellissima parola francescana; la terra di Pietro è quella degli uomini e anche la loro miseria, terra spoglia. Terra e città, vite umane. Straordinario ad esempio quell’episodio in cui Pietro si aggira per le strade di Firenze e si rivolge agli storpi, ai mendicanti: la più straordinaria immagine alla cappella Brancacci è quella di uno storpio dipinto nei termini più crudi, più diretti ed è accanto a Pietro. Lì sta Pietro, su quella terra, in quella città, lì resiste consistendo in mezzo alla miseria di quelle creature e operando tra esse, come nell’episodio dell’elemosina che lì Pietro compie.
Pietro è all’opera tra tutte le figure della città, dal ricco mercante al derelitto, allo storpio. Tutti questi episodi hanno lo stesso colore del primo riquadro, quello della cacciata dal paradiso terrestre, gli episodi che riguardano Pietro hanno lo stesso tono. Pietro opera nel mondo che è stato cacciato. Il tono e i colori di quella cacciata sembrano davvero irrevocabili. Pietro è odòs, strada, via, il percorso che attraversa quel mondo, quella città e quindi condivide ontologicamente le vicende di quel mondo, e i suoi errori, erra attraverso i suoi errori.
Chi potrebbe immaginare qualcosa di più diverso dalla figura di Giovanni così come viene testimoniata da tutta la nostra tradizione! A partire dai padri è una figura completamente diversa l’aquila di Giovanni, il suo celeste, i colori di Giovanni rispetto al Pietro di Masaccio. Il Giovanni di Dürer, con accanto quel vecchio Pietro, è lui nel pieno della forza intellettuale, che vede e intuisce, abissale distanza, assolutamente distinti. Qui sta appunto la grandezza del paradosso e del simbolo come già Agostino avvertiva: mai separare quei due! Guai a chi li separerà!
E dopo Agostino ritorna in Tommaso questo “Guai!”. Tutti i grandi maestri hanno ben chiaro che qui si tratta di assolutamente distinti. Il Primo, Pietro, chiamato a nutrire e che deve perciò andare e dovrà combattere (ecclesia militans) e l’altro invece, il prediletto, colui che ha ascoltato il segno stesso del Figlio, tanto è vero che ascolterà sul grembo del Figlio le voci silenziose, il silenzio, che è chiamato ad attendere: “Perché lui non viene? Taci!”. Ancora il rapporto del Figlio con Pietro è un rapporto di obbedienza. Pietro non è capace di comprendere ciò che ha ascoltato Giovanni. Il Primo, Pietro, deve condividere la strada con tutti gli altri, figli sì, però pargoli, piccoli, siamo piccoli eredi, siamo pieni eredi, ma che hanno ancora bisogno di una guida, di Pietro, di fondamento, di strada. Pietro è chiamato a condividere questa nostra costitutiva miseria. L’altro, Giovanni è la figura della pura attesa, l’attesa dell’essere tutti amici, tutti perfettamente informati dal Verbum e perciò non più infantes, ma finalmente parlanti. Pietro che deve ancora percorrere la via dei pargoli, di coloro che non sanno parlare, Giovanni che attende l’Unum Sumus in cui non c’è il simbolo trinitario, ma ci siamo dentro anche noi, poiché l’apocalisse ultima non sarà semplicemente quella del Figlio che torna, ma è l’apocalisse dei figli, la nostra rivelazione in quanto parlanti e informati dal Verbo. La grande tradizione sta sempre attonita davanti al mistero di queste due figure e della loro rivelazione indisgiungibile.

Potrei citare molte testimonianze, ma per non ripetere cose già dette vi indicherò quella straordinaria di Dante. Dante alla fine del suo itinerario viene interrogato da Pietro circa la fede, da Giacomo circa la speranza (medium dialettico quasi) e da Giovanni, per ultimo, circa la perfetta agape.
È Giovanni che conclude il pellegrinaggio dell’anima dantesca e dopo Giovanni compare la figura di Adamo a significare che solo attraverso Giovanni è possibile una perfetta reintegrazione dell’originaria natura. Alla caritas di Giovanni corrisponde, nella perfetta architettura dantesca, l’ultima guida di Dante cioè Bernardo “quel contemplante”, colui che in questo mondo ha gustato la perfetta pace, ha in qualche modo pregustato l’Unum Sumus giovanneo. E il linguaggio di queste figure è completamente diversificato. Noi abbiamo quel pregiudizio modernistico secondo cui tutto diventa chiaro quanto più è allettante e vago. Invece la grande architettura è vivace proprio per queste sfumature, per questi rimandi, giochi, intrecci.
Il linguaggio di Pietro è quello dell’invettiva; Dante lo mostra nei termini di combattente, di colui che incita a combattere; la sua ira è impetuosa, è testimone militante, sembra quasi di sentire Campanella: “se torni in terra, amato vieni Signore!”. Ha accenti romani, è un discorso costruito con i massi del Campidoglio più che con i cedri del Libano – per parafrasare un filosofo contemporaneo. Eppure anche nel paradiso di Dante accanto a Pietro è Giovanni, accanto e dopo. Nessuno lo mette in dubbio. Nessuna astratta separatezza. La Chiesa anche per Dante è la pura presenza pietrina e l’assenza di Giovanni. Ecco il paradosso: quest’assenza è, c’è quest’assenza, esiste. È continuamente detto che la caritas giovannea non è Pietro. Quindi è affermata l’assenza di Giovanni, e come la dico: dichiarando ultimamente che la figura perfetta della caritas sta nella sua assenza.
Guai se Pietro cessa di avere accanto l’assenza di Giovanni, guai se cessa di rammemorare l’eterno futuro che è Giovanni, cioé mai riducibile alla dimensione del tempo terreno. Pietro è il fondamento, ma Giovanni è l’attesa di questa Chiesa. Giovanni non è solo figura cristallina, ma esiste nel nostro andare come assenza che esiste accanto a Pietro. Pietro predica che Giovanni non è, e che lui, Pietro, non è Giovanni.
In questo Dante riprende lo schema di Gioacchino da Fiore, il quale però pone queste dimensioni secondo una successione cronologica, di prima e di poi. Noi invece li poniamo simbolicamente, questo è il punto essenziale. Gioacchino da Fiore pone queste dimensioni una come superamento dell’altra, secondo una concezione dialetticamente progressistica anche se pre-storicistica. La novità consiste nel vedere insieme queste due figure che Gioacchino tende a spezzare.
Due sono le vite dei “perfetti” e vanno intese simbolicamente. Smettiamo di vedere il richiamo alla perfezione come richiamo alla perfezione dell’eunuco, a colui che elimina i confini. La perfezione non è eliminazione dei confini, è una qualità; e ancora una volta ritorna il tema del paradosso e del simbolo, poiché perfezione consiste nel tenere indisgiungibilmente connesso ciò che è assolutamente distinto. Non è unità semplice, ma capacità di tenere insieme gli assolutamente distinti, non fuggire dai due, non essere negligenti nei confronti dei due, riuscire a pensare insieme i due. Altrimenti facciamo un discorso semplicistico anche sull’idea cristiana di perfezione intendendola come semplice soluzione di confini e delle contraddizioni. Ma nessuno dei grandi padri o dei grandi mistici hanno mai inteso così la perfezione.
Due le vite dei perfetti da intendere simbolicamente e non come una che supera l’altra: il silenzio delle cose spirituali là dove sta nascosta la verità, cioè Giovanni che ascolta il silenzio del Figlio, e l’altra che, ascoltata quella verità – cito appunto da Gioacchino – la fa irrigare come acqua tratta da un alto pozzo, la lascia uscire per irrigare attraverso la predicazione i cuori degli assetati. Entrambe sono il perfetto: l’ascolto del silenzio, che è l’opposto del fare dell’Ineffabile un idolo; e la predicazione, “praedica Verbum”, come diceva uno dei più grandi mistici della tradizione europea, Meister Ekhardt. Allora si intende il paradosso cristiano: un silenzio che va perfettamente predicato, un perfetto agire che è un perfetto contemplare. Negligente, facile è la separatezza tra l’ordine dell’agire e l’ordine del fare, un agire che è contemplare come Pietro insieme a Giovanni, cioè un agire che testimonia continuamente che non è contemplazione, dunque è sempre immanentemente attesa della contemplazione, mai dimentico dell’ordine della contemplazione. Una contemplazione che non è l’agire e un agire che non è la contemplazione e così entrambi si definiscono relativamente in modo necessario.
Allora nella nostra tradizione questa distinzione Pietro-Giovanni assume via via il senso della distinzione Elia-Rachele, Elisabetta-Maria. Gioacchino, tracciando un audace parallelismo con la legge mosaica immagina Pietro e Giovanni come i frutti delle due storie di Cristo: dall’odiosa è nato Pietro, dalla diletta Giovanni, ma Pietro è il primogenito e quindi l’erede. Pietro però è come il Battista e deve testimoniare questa sua funzione, a lui spetta venire meno, a Giovanni crescere. Eterno è solo agape, caritas, Giovanni. Pietro è Battista rispetto a caritas. Ma non dobbiamo spezzare questi termini che sono sincronici, simbolici. Vi è nella chiesa del Cristo la dimensione che vien meno, vi è qui e ora nel kairòs che è ora, la dimensione che tramonta e quella eterna, aionica. Cioé un simbolo di tempo ed eternità, ecco il paradosso. E un simbolo di senilità, di eternamente vecchio: Pietro nasce vecchio, e di integrità perpetua che attende, che non invecchia sulla strada della terra e dei conflitti su cui invece si incammina Pietro.

La storia della Chiesa potremmo allora vederla come storia della gestazione di tale simbolo, dove si lavora ad edificare questo simbolo, una dolorosa gestazione per partorire quest’amicizia tra Pietro e Giovanni. Non vi è quindi la possibilità di dire questa Chiesa eterna, ma nemmeno è possibile Giovanni al di fuori di questa Chiesa. Giovanni esiste nell’attesa della Chiesa di Pietro, nella sua assenza in questa Chiesa. Questo è il significato più profondo dell’espressione “Chiesa madre”, Chiesa che vive continuamente le doglie del parto e quindi è Elisabetta, vita attiva, la vecchia, che non è separabile dalla Maria oziosa la cui alba spunterà con l’invecchiarsi di Elisabetta; questa è un’altra, bella immagine presa da Gioacchino. Cerchiamo di cogliere questo simbolicamente e non secondo una filosofia della storia che spezzerebbe questo simbolo in momenti cronologicamente determinati. Di questo la Chiesa è chiamata ad essere madre. La Chiesa di Pietro è peregrinans et militans, quindi in quanto tale transeunte È impossibile però liberare astrattamente Giovanni dal nodo pietrino: i due sono il tranello, i due sono da testimoniare per una fede non negligente.
Una chiesa ornata di sola eternità che si pretendesse onniconciliante diventerebbe perfetto segno anticristico, esattamente come un Giovanni anarchico, che irrompesse armato contro i peccati della Chiesa di Pietro. Anche dalla parte di Giovanni vi è sempre il pericolo di non interpretarsi simbolicamente. Paradossalmente è questo essere militante della Chiesa di Pietro che è il grembo che reca Giovanni, in cui egli esiste. Certamente questa Chiesa deve operare per la sua fine e certamente deve svolgere funzioni analoghe a quelle di cui parla Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi: tra esse la sua funzione politica.
Non abbiamo Chiesa se l’intendiamo eliminandone la grande forma politica che è originaria e necessaria, proprio perchè la chiesa è Pietro e non Giovanni, e testimonia il suo non essere Giovanni, l’assenza di Giovanni e quindi il suo carattere transeunte. Allora non si darà immagini idolatriche, non si darà immagini trionfalistiche, non pretenderà di diventare la grande conciliatrice, una Chiesa che dimentica di essere l’assenza di Giovanni. Se la Chiesa rammemora quest’assenza non cadrà nell’abisso, saprà di dover essere Chiesa madre, cioè che il suo fine consiste nel dare alla vita un simbolo più pieno di sé, una luce più piena, un amore perfetto. Il pericolo di dimenticare Giovanni è un pericolo costitutivo della miseria di questa Chiesa, è costitutivo al suo essere peccatrice, quindi il darsi immagini trionfali o il poter diventare Chiesa-madre in un segno anticristico. Solo nella consapevolezza dei suoi limiti può allora esprimere il simbolo inseparabile di Pietro e Giovanni tra loro assolutamente distinti che è, io ritengo, il significato complessivo e più profondo del paradosso cristiano.

Massimo Cacciari


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