Editoriale


 
Dopo ore di cammino in montagna capita di trovarsi in una posizione privilegiata dalla quale con lo sguardo sembra facile abbrac­ciare l’itinerario percorso.
Si è presi dallo stupore per la distanza colmata passo dopo passo …L’occhio corre a cercare, spesso inutilmente, il punto da cui si è partiti nel tentativo di collegarlo idealmente alla meta che si ha in animo di raggiungere…

Talvolta, anche se per un attimo. la forza del vuoto, pronto ad inghiottire, fa sentire il suo potere, mentre dal profondo dell’animo una strana complicità emerge nel contatto con quell’immagine del nulla.
Così, forse, avviene nella vita di ciascuno quando ci si ferma un attimo, ci si volta un istante, quasi a cercare l’ispirazione per non fallire il tratto di vita che rimane. Sì, perché si sente che il tempo incalza e diventa decisivo orientare bene le residue energie facendo tesoro del patrimonio di esperienze acquisito.
Fuori dalla metafora: che passa per la mente di un preteoperaio in un mondo come questo, col panorama del mondo e della chiesa tanto cambiati? Il tempo ha chiarito che il suo lavoro (in fabbrica, nella bottega artigiana, nei servizi) non è un esperimento transitorio, ma una condizione di vita, anzi, una necessità come per la maggior parte di uomini e donne. Ma questo legame con il lavoro, o meglio con quei lavori che non hanno nulla a che fare con il “tipo ideale” del prete reclamizzato nella chiesa ed ampiamente riconosciuto dalla società non ha reso i PO un po’ simili a quei soldati giapponesi che, ignari della fine della guerra, nella giungla hanno continuato a combattere nemici immaginari?

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Il soldato giapponese era fissato in un tempo irreale, prigioniero di fantasmi per i quali e contro i quali lottava: la giungla era una bolla di sapone che lo avvolgeva isolandolo e sottraendolo a quel mondo reale che di fuori proseguiva il suo cammino.
Al prete operaio è invece accaduto esattamente il contrario. Infatti proprio il lavoro quotidiano, lentamente e profondamente, lo ha intro­dotto senza privilegi in quella larghissima parte di umanità che conosce la fatica, la costrizione, la voglia di ribellarsi e, spesso, l’impossibilità a farlo, le trasformazioni e le ristrutturazioni, la cassa integrazione e anche il licenziamento.
Il lavoro manuale e dipendente radica in condizioni precise, stabilite sempre da altri: il corpo deve stare in quel posto assegnato, con persone assortite secondo criteri decisi altrove, per un tempo notevole della giornata e così fino alla pensione, se ci si arriva.
Talvolta le mani o altre parti del corpo portano i segni dell’incidente sul lavoro, mentre la psiche non può liberarsi dallo stigma lasciato dagli inevitabili conflitti per difendere pezzetti di umanità e di dignità.
Insomma, anche ai PO succede tutto come a quelli che si guadagnano da vivere alle dipendenze di persone e di sistemi che per principio non regalano nulla.
Il passare degli anni provoca inevitabilmente un processo di scrematura che filtra tutte le fibre dell’essere: scoppiano le bolle di sapone, le illusioni si rivelano per quelle che sono, anche le tensioni ideali vengono duramente setacciate. Il mestiere che fai e la condizione che vivi entra nella carne e lascia tracce indelebili. E che fastidio danno tutti quelli che pretendono di parlare e insegnare pontificando sul lavoro degli altri!
Ora, dopo tanto tempo di inserimento e di condivisione di questa condizione, come lavoratori non possiamo annoverare nessuna vera vittoria storica, anzi! il lavoro manuale e dipendente viene misconosciuto e ignorato come valore sociale; come preti – e questa è una grossa fortuna – non godiamo di nessuna aureola…
Di bello e di eccezionale c’è la compagnia paritaria che abbiamo potuto vivere con tutte le persone che il lavoro ci ha dato di incontrare.
Quella che inizialmente è stata una libera scelta di entrare in condizione operaia è lentamente diventata partecipazione ad un destino comune, ad un modo d’essere nel mondo senza sconti, a pieno titolo. In questa mescolanza di cose e nella “compagnia paritaria” con uomini e donne che esistono nella quotidianità del loro lavoro, si è delineata una nuova strana identità, senza modelli precisi dì riferimento. Una identità “polemica” se vogliamo, ma che non nasce dal morboso prurito di polemizzare, quanto dalla convivenza di due valenze dis-omogenee, o meglio etero-genee la cui unione in esistenze umane fa fiorire una realtà in qualche modo paradossale.
Massimo Cacciari nel precedente numero di Pretioperai dice: “Il paradosso è paradosso nella misura in cui tiene insieme, e quindi istituisce una sorta di relazione simbolica tra dimensioni assolutamente distinte. Questo è paradossale poiché due dimensioni, assolutamente distinte, simbolicamente si relazionano” (LINK!)
Prete-operaio: due dimensioni del vivere con storie che vengono da lontano le portiamo cucite in un’unica pelle in un’esistenza concreta. Come fanno a stare insieme?
Tra le mille cose che si potrebbero dire, una sembra assolutamente certa: nessun pentimento sulla scelta fondamentale fatta, …nessun rimpianto. Si doveva fare. Ed è bello che sia avvenuto e ancora avvenga.

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Ma osiamo dire di più, anche se può ad alcuni apparire come una pretesa sfacciata. Pensiamo che al fondo di questa nostra piccola vita ci sia un segreto, un arcano da cui viene una energia occulta che spinge innanzi a dispetto di tutto.
Il fatto è che al centro della nostra fede sta un Dio paradossale. Che il massimo della rivelazione avvenga in un uomo condannato a morte con tutti i crismi della maledizione civile e religiosa non è evento che possa rinchiudersi nel rito e nella celebrazione, ma è pietra viva contro cui la vita deve urtare.
La “discesa di Dio” nelle regioni di sventura e di morte perché anche nel deserto più arido possa tornare a respirare la vita, indica un movimento, un andare verso il basso, per usare una simbologia spaziale. Una discesa che non si è fermata al ciglio, ma che a contatto con la storia umana connotata da profonda ingiustizia, è diventata caduta nel profondo del baratro (“descendit ad inferos”) quale esito dell’intimo, irrevocabile paradossale legame “Dio-carne”, carne storica, sofferente e mortale. Il Dio di Gesù è quello che non si è sottratto alle debolezze, agli scacchi. ai vicoli chiusi della nostra storia, del mondo nella sua concretezza. La risurrezione non significa uno “sconto” sulla durezza della condizione umana, tanto meno un essere preservati dai drammi e dalle ingiustizie che sono sotto gli occhi di tutti. È quello che si evidenzia nella vicenda del Nazareno.
Dentro le piaghe del mondo è importante che vi siano discepoli di questa “disciplina dell’arcano” (Bonhoeffer) che in qualche modo diano corpo al paradosso fondamentale rappresentato dal “Dio-carne mortale”.
L’unica “pretesa” è che mentre camminiamo si sollevi un po’ di polvere e per quanti avviciniamo possa in qualche modo adempiersi la preghiera di quell’anonimo:

“Signore
che io veda il tuo volto
attraverso la polvere sollevata
dai tuoi testimoni”.

Roberto Fiorini


 

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