Una storia esemplare, quella di Savino (chiamiamolo così), 39 anni, pugliese trapiantatosi a Milano ormai da 16 anni: da allora a oggi gli è capitato di dover passare attraverso 7 diversi posti di lavoro nell’area milanese. Anzi, lui ci tiene a precisare che ha subìto addirittura 9 differenti passaggi di proprietà (il perchè si può capire seguendo la sua storia).
E tra qualche mese molto probabilmente dovrà subire ancora un altro trasferimento, perchè è “caduto” nell’ennesima fabbrica in ristrutturazione, quella dove anch’io lavoro.
È salito dalla Puglia a Milano nel ’75, con aspirazioni profonde ad esprimere anche le proprie tendenze artistiche (Savino modella l’argilla in forme sempre più interessanti; e per questo studia e ricerca costantemente). Per lui il lavoro in fabbrica è il dovere necessario per garantire la sopravvivenza della famiglia (moglie con qualche lavoretto e due figli); ma quello che più gli interessa è altro.
Le sue vicende di lavoro lo hanno però costretto ad occuparsi anche di “politica”, come dice lui. Ad un certo punto ha deciso di fare il delegato, senza capirci granché “perchè io ero ignorante al massimo di cose sindacali, ma non c’era nessun altro disponibile a fare il delegato; e a me certe cose non andavano giù…”.
Adesso dice con molta lucidità di aver deciso che non delegherà mai più nessuno. E riconosce nelle sue vicende quelle costanti che concorrono a tenere gli operai nella passività e nella “rassegnazione”.
Non accusa solo i padroni che parlano di difficoltà di mercato e che, mentre smantellano gli impianti, fanno investimenti che servono solo a “tranquillizzare” i lavoratori.
Accusa anche il sindacato e i leader dei consigli di fabbrica, che si dividono regolarmente tra loro, “giocandosi” poi in maniera clientelare la massa degli operai, ai quali è soltanto chiesto di fidarsi di loro, non di capire quello che sta succedendo: e come potrebbero capire, poi, se nei momenti drammatici dello scontro sulla ristrutturazione i loro leader sono così divisi?
Accusa sindacati e delegati che si accontentano di collaborare a costruire l’ipotesi meno traumatica possibile che va bene al padrone, anziché sviluppare la capacità di lotta degli operai per difendere il più possibile i loro interessi anche nella fase di ristrutturazione: “sindacati e azienda gestiscono tutto loro”, dice a proposito dell’ultimo posto di lavoro che ha perso.
Alla vigilia delle ferie Savino ha accettato di raccontarmi davanti a un registratore la sua storia di operaio in continua ristrutturazione. Io mi sono limitato ad ascoltare, a fare poche domande e a rimettere in ordine quello che lui mi ha raccontato.
Dal sud al nord / il primo posto di lavoro a Milano
Sono arrivato nel ’75 a Milano dalle Puglie.
Nel giro di un mese ho trovato la casa a Sesto San Giovanni e il lavoro in uno studio fotografico a Milano: un lavoro che mi interessava certamente più di tanti altri.
Savino mi sta parlando seduto al tavolo di casa: una casa in quella parte della vecchia Sesto adiacente all’area della storica Breda, che progressivamente si ritira per lasciar posto a moderne costruzioni commerciali. Naturalmente Savino ha già ricevuto il primo avviso di sfratto: la vecchia casa dovrà essere ristrutturata. Chissà come sarà e chi ci abiterà tra dieci anni, qua dentro?
Due stanze per un totale di 40 metri quadrati, che Savino è riuscito a prendere in affitto assieme con un amico nel ’77: a loro si sono poi aggiunti per un periodo non breve altri 5 amici, immigrati come loro.
Dal ’79 Savino ci abita con la moglie, conosciuta al paese d’origine e venuta al Nord solo dopo il matrimonio.
Siccome la mentalità di laggiù le ha impedito di venir qua a cercare un lavoro prima di sposarsi, nell’80 siamo stati costretti a fare un figlio, visto che nessuna azienda le offriva un lavoro decente (‘signora, e se tra qualche mese lei rimane a casa in maternità…?’). Costretti, appunto perchè, visto che ci si doveva accontentare di vivere con un salario, abbiamo deciso di fare un figlio subito. Anche perchè è naturale: un figlio ti completa, come coppia e come genitore.
Poi, quando il figlio ha cominciato ad andare all’asilo nido, mia moglie si è messa di nuovo a cercar lavoro. Ma nessuno la assumeva: risposta diversa, risultato uguale: ‘Signora, lei ha un bambino piccolo; se si ammala, lei dovrà stare a casa…’.
Insomma, le aziende assumono solo donne non sposate; e dopo 11 anni mia moglie non ha ancora un posto di lavoro. Anche perché abbiamo deciso di fare un altro figlio (il primo oggi ha 11 anni; la seconda ne ha 8) e di farli crescere completamente noi due senza darli in mano a nessun altro, senza doverli svegliare alle 5 del mattino, eccetera. E abbiamo fatto bene, perchè i bambini sono cresciuti bene, curati e guidati…
Il bello è che, quando i figli saranno grandi, mia moglie non troverà più lavoro, perchè ormai sarà vecchia, nel senso che avrà passato i 40 anni: e chi la assumerà più?
Il lavoro di fotografo a Savino piace. Ancora adesso si offre di farlo, anche per arrotondare il bilancio familiare.
Ma l’anno seguente lo studio fotografico viene venduto: dei 9 dipendenti ne possono restare soltanto 4. E a Savino tocca andarsene.
2° posto di lavoro: operaio turnista alla Richard Ginori
Alla Richard Ginori Savino resiste soltanto 14 mesi: lavora su due turni (6-14 e 14-22); la fabbrica (“Fonderie e smalterie lombarde”, di proprietà del gruppo Richard Ginori) si trova alla periferia Nord Ovest di Milano: per arrivarci ci vuole molto tempo, soprattutto al mattino, quando la metropolitana non funziona ancora.
Era un lavoro schifoso: in coppia con un vecchio operaio (un tipo favoloso) ero addetto alla sabbiera delle vasche da bagno: bisognava scaricarne una e caricarne un’altra al suo posto sulla piattaforma girevole nella quale venivano ripulite da ogni scoria le vasche di ghisa appena uscite dalla fonderia (80 chili di peso ciascuna). I margini di tempo che avevamo erano pochissimi. E poi c’era il gran rumore della sabbiera e soprattutto la polvere: dovevo stare tutto imbacuccato di pezze, con maschera e occhiali; l’aspiratore c’era, ma era quasi sempre guasto.
Alla Richard Ginori ho avuto una buona esperienza di rapporto con gli operai e con un capo che era ormai arrivato all’età della pensione. Lì c’era già una situazione di crisi: c’era ormai nell’aria che la fabbrica non sarebbe andata avanti molto.
Io ho partecipato agli scioperi insieme a tutti gli altri operai, senza però una particolare coscienza politica. I miei interessi allora erano più a livello umano, artistico, di conoscenza spirituale (in quegli anni ho conosciuto bene un pensatore indiano). Allora la politica la odiavo; ancora oggi non riesco a sopportarla molto.E comunque io non ce la facevo più a restare lì; era un lavoro troppo sporco e pesante. E piuttosto che star lì ero disposto a tornarmene al mio paese.
3° posto di lavoro: operaio turnista a Sesto San Giovanni
Proprio nei giorni in cui Savino sta decidendo di andarsene (siamo nella primavera del ’78), incontra nella cerchia dei suoi amici un operaio che gli fa presentare domanda di assunzione in uno stabilimento della Magneti Marelli di Sesto San Giovanni dove si producevano accumulatori (poco più di 150 dipendenti).
Nel giro di 10 giorni la vita di Savino cambia. Non di molto, certamente: ancora operaio, ancora su due turni, ancora lavorazioni nocive: questa volta si tratta del piombo delle batterie.
Il lavoro mi pareva più pulito. E soprattutto era più vicino a casa.
Ma sono potuto rimanerci poco più di 16 mesi, perchè nel frattempo è iniziata la ristrutturazione della FIAT nel settore degli accumulatori (la Magneti Marelli fa tuttora parte del gruppo FIAT).
Iniziarono a vendere, a smantellare pezzi di fabbrica… Con i soliti effetti sugli operai e sulle organizzazioni sindacali: la divisione all’interno del sindacato, gli scontri tra delegati del consiglio di fabbrica, eccetera.
La Magneti Marelli aveva acquistato una fabbrica di Melzo: la Tudor. E decise la chiusura dello stabilimento di Sesto.
E il sindacato firmò un accordo in base al quale nessun lavoratore si sarebbe trovato senza posto di lavoro: qualcuno si dimise con un po’ di milioni di incentivo, molti vennero trasferiti nel vicino stabilimento di Crescenzago, dove si producevano candele e spinterogeni; gran parte degli operai dovettero andare a Melzo, alle dipendenze della Compagnia Generale Accumulatori.
4° posto di lavoro: operaio turnista a Melzo
Andare a Melzo per Savino vuol dire finire 25 chilometri più lontano da casa; c’è però il servizio di pullman dell’azienda. Ma vuol dire anche qualche soldo in più e qualche minuto di lavoro in meno al giorno: là infatti gli operai avevano conquistato la quattordicesima mensilità e alcune pause durante il lavoro.
Nello stabilimento di Melzo (circa 500 dipendenti) la FIAT aveva concentrato la produzione delle marche di batterie più importanti a livello nazionale (Tudor, Fiamm, Marelli, Scaini): “la batteria era uguale, ma secondo l’ordine, si metteva l’etichetta di una o dell’altra marca”.
Lo stabilimento di Melzo però è ormai vecchio. E si trova all’interno della cittadina, su un’area appetibile anche per la speculazione edilizia.
E dalla ex-Tudor siamo stati buttati fuori, dopo 5 anni e mezzo che ci lavoravo. Dicevano che ristrutturare l’azienda era troppo costoso; meglio vendere quell’area e costruire una fabbrica nuova altrove. Tutto il resto, per loro che comandano, non contava: gli uomini e le donne si spostano come si vuole.
E’ stato allora che ho visto gente che si è messa a piangere, gente veramente disperata che ne diceva di tutti i colori. Anche perchè lì lavoravano parecchie operaie (questa per me è stata l’unica fabbrica dove c’erano operaie; e con loro ricordo di aver costruito dei rapporti molto belli).
Anche nelle ultime settimane di vita della fabbrica ho visto le reazioni più diverse della gente: da quelli che si arruffianano per garantirsi in qualche modo il futuro, a quelli che se ne vanno prendendosi i soldi, perchè hanno altri interessi.
5° posto di lavoro: operaio su 3 turni a Sesto
Nel febbraio ’85, altro trasferimento forzato.
Ancora in aziende del gruppo FIAT.
Alcuni napoletani riuscirono a farsi spostare nella sede centrale della Compagnia Generale Accumulatori, a Napoli. La massa dei lavoratori fu spostata a Romano Lombardo. Io ed altri che abitavamo a Sesto e dintorni, siamo stati trasferiti alla Gilby, che produceva tubi in acciaio inossidabile: in tutto, saremo stati 60 dipendenti, compresi gli impiegati.
Quasi tre anni di lavoro ‘tranquillo’ (se così può essere definito il lavoro su 3 turni) e poi ricomincia il solito ‘giro’:
A un certo punto cominciarono a dire che alla FIAT non conveniva tenersi il tubificio. Questo però è l’unico posto di lavoro dove non hanno tirato in ballo il mercato, la mancanza di commesse, la concorrenza: la produzione alla Gilby andava a gonfie vele, tant’è che si facevano i 3 turni sulle macchine per la produzione dei tubi.
La FIAT ha venduto la fabbrica a un tubificio di Cremona, di cui non ricordo neanche più il nome.
Durò ancora 7 mesi: giusto il tempo per acquistare l’azienda e poi chiuderla. Fummo acquistati con i soldi del finanziamento che la società di Cremona aveva ottenuto dallo stato per ristrutturare la Ferrotubi di Sestri, che era in fallimento; e con gli stessi soldi aveva acquistato anche il Tubificio Lombardo di Corbetta, dove tutti gli operai erano stati messi in cassa integrazione.
Queste cose le ricordo bene, perchè negli ultimi sei mesi avevo accettato di fare il delegato. Ma ero ignorante al massimo delle cose sindacali e mi toccava fare la parte del palo, anche se io mi sforzavo di capire. Quasi tutti gli altri delegati precedenti erano stati ‘promossi’ impiegati o se n’erano andati con un po’ di soldi in più. Nessun altro era disponibile a fare il delegato e allora mi sono fatto avanti io, perchè certe cose non mi andavano proprio giù…
Nessun delegato però era in grado di contrastare la direzione, né aveva le conoscenze e le competenze necessarie. E l’accordo per chiudere la Gilby fu gestito tutto dal sindacato di zona assieme all’azienda.
6° posto di lavoro: operaio turnista a Corbetta
La logica del sindacato è ancora la stessa: accettare tutto purché nessun operaio sia licenziato. Ed è così che Savino si ritrova ancora una volta a dover andare lontano qualche decina di chilometri da casa, per poter continuare a lavorare. Siamo ormai nell’estate dell’88.
Questa volta però il viaggio da Sesto al Tubificio Lombardo Ferrotubi di Corbetta (quasi 50 chilometri al giorno) è proprio necessario farlo con mezzi propri: alle 5 del mattino, poi, non c’è nessun’altra possibilità.
E per una spesa di viaggio calcolata in almeno 3 milioni all’anno, i lavoratori trasferiti ottengono un contributo di 3 milioni una volta per tutte!
Questa fu l’unica cosa concordata in cambio dello spostamento a Corbetta. Notare che la chiusura della Gilby avvenne senza neppure mezz’ora di sciopero. Non scioperammo neanche quando stavano smontando i macchinari sotto i nostri occhi.
Cosa si può ottenere di più, allora, senza neppure un po’ di lotta?
7° posto di lavoro: operaio turnista a Sesto San Giovanni
Io però a Corbetta non ci volevo andare. Era troppo scomodo e mi costava troppo, sia in tempo che in soldi. E a forza di insistere con il sindacalista che aveva firmato l’accordo di trasferimento, dopo un paio di mesi riuscii ad essere assunto alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni.
Autunno ’88. In un’azienda a partecipazione statale che fa capo alla Finanziaria Ernesto Breda. Di nuovo vicino a casa, sempre facendo due turni. Da lì in avanti la storia di Savino coincide con la mia. Dopo un anno dalla sua assunzione, siamo stati ‘scorporati’ sotto la minaccia del fallimento dell’azienda: cioè la Breda Fucine è scomparsa, suddivisa in 3 differenti società, due delle quali lasciate in mano ad azionisti privati (“un altro passaggio di proprietà supplementare, come alla Gilby”, sottolinea Savino).
Ormai tira aria di smantellamento dell’azienda.
Forse quando queste pagine potranno essere lette, Savino sarà in cassa integrazione, e io con lui, in attesa di un nuovo trasferimento.
La ‘lezione’ di Savino
Savino ha terminato di raccontare la sua storia di operaio super-ristrutturato. Ma a me non basta; mi pare che la sua pesante esperienza abbia non poco da insegnare a tutti, proprio perchè a lui ha probabilmente insegnato molto più di quello che riesce ad esprimere.
Mi arrischio a fargli una domanda non facile: nel corso di tutte queste ristrutturazioni, riconosci alcuni fatti significativi che si sono costantemente verificati?
Lui ha qualche attimo di indecisione; premette che quello che riesce a vedere adesso (“proiettandomi indietro”, dice) non è quello che vedeva qualche anno fa. E poi inizia a parlare ‘a ruota libera’: e gli viene fuori una vera e propria ‘lezione’, di quelle che all’università non si potranno mai ascoltare.
Quello che mi ha risposto mi sembra così chiaro, così preciso, che riproduco letteralmente tutte le sue parole. Aggiungo soltanto i numeri e i titoletti, che permettono di cogliere ancora meglio la lucidità della ‘lezione’ di Savino.
I fatti sono simili dappertutto. Cioè sono sempre le stesse cose che riscontri, sia nel padronato che nel sindacato che tra gli operai.
I padroni fanno regolarmente due cose:
1. Prima danno libertà: tutto funziona normalmente, liberamente: i tuoi diritti sono fuori di ogni discussione.
A un certo momento avviene invece che le cose non stanno funzionando più. C’è carenza di qua, carenza di là… e poi il consiglio di fabbrica viene chiamato in direzione e torna a dirci: qua sta succedendo qualcosa. Il mercato non va, non tira. Ci sono i giapponesi che stanno facendo delle batterie eccezionali (a Melzo ci hanno detto così), quelle senz’acido: sono già sigillate, si risparmia sulla mano d’opera.
E questa è la scusa per far capire al consiglio di fabbrica che ‘qui si deve chiudere’.
Questa faccenda del mercato l’hanno tirata in ballo dappertutto. C’è sempre qualcosa che non va, per cui le commesse mancano. Poi ognuno dice che la colpa è di qualcun altro; e il sindacato dice che no, la colpa è della direzione che non vuol fare investimenti.
2. E questa è un’altra faccenda che ho rivisto dappertutto: quella degli investimenti nella ristrutturazione.
Quando decidono la ristrutturazione (o il trasferimento dell’attività produttiva o la chiusura della fabbrica), l’azienda decide la spesa di una certa somma di miliardi, o di centinaia di milioni.
E qui scatta l’imbroglio: la direzione fa vedere che investe.
‘No, state tranquilli, perchè è vero che dobbiamo tirare, perchè il mercato… i giapponesi… eccetera; però vedete anche che stiamo investendo’. Così a Melzo misero un sacco di tubi, costruirono gli impianti di aspirazione che 2 o 3 anni prima si erano rifiutati di costruire, quando il consiglio di fabbrica li aveva richiesti.
Nel periodo in cui si minacciava la chiusura e lo spostamento dell’azienda, vedevi continuamente tecnici che venivano a prendere misure, controllare disegni, installare apparecchiature: e i tubi di aspirazione che partivano dai banchi di lavoro vedevi che venivano ampliati, rimodernati, potenziati: insomma, l’ambiente di lavoro stavano proprio migliorandolo.
Di fronte a questa situazione non ci può essere una reazione forte, di lotta, dei lavoratori. ‘Stanno investendo, cosa vuoi fare? Qualcuno lo manderanno in prepensionamento, qualcuno prenderà i soldi per andarsene…’
A Melzo avevano addirittura costruito una linea nuova che poteva occupare 8 operai per turno; ci avranno speso almeno 300 milioni. Contemporaneamente cambiarono gli aspiratori e i banchi di lavoro. E intanto smantellarono una catena che andava dal primo piano del magazzino al piano terra, dove io e altri addetti scaricavamo il materiale per le linee di montaggio: dicevano che bisognava cambiare sistema, ampliare la capacità dell’impianto usando altre metodologie, eccetera. Cose che non furono più fatte.
Insomma, mentre ti fanno vedere che fanno investimenti, tu vedi anche che iniziano a smantellare: cominciano a prendere una macchina e la buttano via. Poi un’altra. Un tipo di catena non serve più perchè ‘dovremo cambiarla’… Intanto i primi pezzi di fabbrica stanno andandosene.
Cosa fanno il sindacato e il consiglio di fabbrica
Anche a livello del consiglio di fabbrica succedono regolarmente le stesse cose.
Si formano sempre delle tendenze diverse, che hanno ciascuna un capo che ha un suo seguito di operai: chi ha fatto avere un passaggio di livello, chi ha fatto ottenere dei favori, chi ha fatto avere le ferie prima, chi ha fatto avere l’anticipo della liquidazione… insomma, ogni delegato che ‘conta’ ha la sua clientela che può gestire come vuole.
Solo adesso mi rendo conto che il sindacato ha sempre gestito le cose in questo modo; e alla fine dice ai padroni: ‘fate quello che volete, purché non perdiamo nessuno per strada’. Cioè il sindacato collabora con i padroni per ristrutturare in modo indolore.
Le conseguenze per i lavoratori: divisione e “rassegnazione”
1. Però questo porta delle conseguenze gravi tra gli operai: di fatto tutto viene scombinato, e non solo l’amicizia e i rapporti che si sono creati. Non è più il tuo posto di lavoro che tu hai creato in tanti anni.
E’ vero che c’è sempre qualcuno che riesce più o meno ad inserirsi nella nuova azienda, però resta vero che ‘voi siete venuti da Sesto a rompere le scatole a noi di Melzo’. E queste frasi te le buttano sempre in faccia e dividono ulteriormente i lavoratori.
Questo l’ho riscontrato sempre. Anche quando sono passato da Melzo al Tubificio Gilbi: a me è successo che mi avevano messo su una macchina sulla quale l’operaio aveva diritto al 5° livello. E qualcuno ha reagito: ‘ma come, io sono in questa ditta da 20 anni, ho fatto richiesta di andare su quella macchina e non mi ci hanno messo. Adesso arriva da un’altra parte questo qua e invece di fargli fare la gavetta, lo mettono proprio su quella macchina!’
2. Le prime volte che mi è successo, non ero in grado di dare un mio giudizio politico-sindacale. Ero rassegnato, ma non perchè ero disposto a subire tutto: la rassegnazione veniva dal fatto che ci assicuravano che nessun operaio si sarebbe perso per strada: e su questo uno si tranquillizzava, si fidava di loro.
E ci si fida anche tanto più, quanto più si va a finire in un’azienda grossa: e, a parte la Gilbi, tutte le aziende dove io sono stato trasferito erano abbastanza grosse.
Adesso, proiettandomi indietro, io dico che d’ora in poi non mi fiderò mai più di nessuno; perlomeno valuterò io in prima persona le cose: niente delega in bianco a nessuno.
Ho preso coscienza che non delegherò più. O meglio, se delegherò, lo farò con la coscienza di sapere perchè delego un altro.
Non: ‘delego, e basta’; ma se delego è perchè so i passaggi che si dovranno fare, come, dove andiamo a finire. Cosciente quindi di quello che i delegati andranno a fare.
Invece prima non ce l’avevo questa coscienza. Appunto, mi fidavo, proprio perchè non capivo quasi niente di politica e di sindacato.