Editoriale



Il primo numero “ufficiale”


E’ questo il primo numero “ufficiale” della rivista PRETIOPERAI: è una prima realizzazione di quanto avevamo immaginato e progettato con il cuore e con la mente.
Una rivista per noi, per gli amici, per coloro che hanno il desiderio di conoscere e di ascoltare.
Una rivista il cui contenuto è quello di un OSSERVATORIO aderente alla realtà delle cose e della vita, che i nostri occhi vedono, i nostri cuori sentono, il nostro intelletto pensa e progetta…
Non è facile per noi lo scrivere: in genere, chi fa non scrive e chi scrive non fa. Questo servizio alla verità, questo confermarci nella verità, questo dirci e dire che alcune cose sono vere, contro ogni cancellazione del passato, presente e futuro, di nostalgia, di speranza, è oggi un dovere storico: per questo abbiamo affrontato questa fatica.
In questo numero abbiamo raccolto i primi scritti arrivatici.
Non sono rappresentativi di tutto ciò che i preti operai vedono, sentono, fanno, progettano. Però sono un primo tentativo.
La stanchezza, la timidezza, l’aver perso l’abitudine alla penna rende difficile e lento il convincerci a scrivere.
Quando però si mettono assieme i vari scritti, ben diversi da quelli di altri giornali o riviste erudite, ci si accorge che emerge un mondo vero, una realtà che fa entrare in risonanza le cose più profonde dentro coloro che fanno parte di questo immenso popolo di “esiliati”, come scriveva Tognoni sul numero zero.
Se tutti i preti operai si mettessero davvero a scrivere, ad inviare senza timore pezzi di diario, di riflessioni ne dovrebbe…

“… uscire, naturalmente, lo specchio di quello che siamo, speriamo, vogliamo. Osservatorio scientifico — cioè aderente alla realtà delle cose e della vita — della nostra identità, che è anche quella dei tanti ultimi. Scrittura del libro dei racconti con i quali confrontarci, e da tramandare. Verifica di essere ancora vivi, o di essere reduci; di avere una lingua che parla e che ha senso o di essere fatti di reminiscenze e di luoghi comuni.
Materiale per dirci la verità, e per decidere se siamo ancora contenti di essere preti-operai-popolo-lievito, o se questa lunga avventura non ha più posto nella nostra vita. Per non finire per lisi progressiva, o per adattamento.
Per essere quello che siamo in un mondo che ci attraversa, per vedere se siamo sempre in grado di attraversare noi il mondo come portatori di una grande semplicissima idea di verità e di allegria, con tutta la varietà delle nostre motivazioni, degli stili, dei linguaggi, dei lavori.
Questo diario si scrive come un diario. Quando vien voglia, quando si è presi dentro, quando si immaginano vie di futuro, quando non si vede più il senso. Pezzi di carta. Quaderni regolari. Non importa il materiale.
Diario della nostra ricerca quotidiana di liberazione, documentazione del linguaggio che ci portiamo dentro, senza mediazioni: linguaggio della politica, della religione, del desiderio personale, dell’economia, della imprecazione, dell’analisi, della citazione di cose-testi-persone che rivelano pezzi di storia nostra e del mondo. La proposta che si fa è quella di parlare, e di ricordare giorno per giorno la nostra storia di lievito che incontra le potenzialità e le opacità della massa.
Esercizio di dire la nostra verità quotidiana, perché nel grande rumore della macrostoria non venga minacciata dalla invasione delle interpretazioni ufficiali, che ci condannerebbero a vivere da eroi, o da specie in via di sparizione da rispettare.
Esercizio di identità quotidiana: in cui ci accorgiamo di esistere.
Proposta di osservatorio degli ultimi…”  (Gianni Tognoni).

La nostra è una voce fra le tante. Non siamo gli unici. Anzi non ci saremmo neppure se non ci fossimo messi in mezzo a chi già era in movimento. Forse è una voce confusa, non teoricamente precisa. Scriveva uno di noi:

Ci fu un tempo in cui essere P.O.
poteva essere addebitato ad una “moda vincente”.
Il movimento operaio era in fase “ascendente”.
I valori di cui era portatore potevano affascinare
e interpellare una presenza/mescolanza in esso
degli, storicamente estraniati, valori religiosi.
Oggi il quadro è diverso!
Sotto gli occhi indifferenti o incoscienti di tutti
si sta perpetrando il misfatto di ridurre a niente
il potenziale di valori che la classe operaia aveva espresso.
Passando, naturalmente,
attaverso la riduzione a niente della sua forza.
Oggi è “moda vincente” far altro che l’operaio.
Noi che,
fedeli alla condizione operaia lo siamo stati allora,
rifiutando facili fughe in rappresentanze
che da essa ci allontanavano,
ci ritroviamo oggi nella situazione di poter vedere,
con gli occhi perenni della classe,
il vero di che cosa ci sta succedendo,
Sono state ristabilite le “regole del gioco”.
Quelle che, in momenti migliori,
avevamo avuto il coraggio di chiamare
“la permanente immoralità del capitalismo”.
Esse si sono rivelate “più forti”
di quelle che il mondo degli sfruttati aveva immaginato
e per le quali aveva lottato.
Le “istituzioni” si sono realisticamente adeguate.
Siccome la politica è l’arte del possibile,
e le regole di questo gioco
appaiono come storicamente vincenti,
esse sono state praticamente sposate.
E, volta per volta, chiamate
“moderno”, “nuovo”, “postindustriale”…
A noi,
che istituzione non siamo,
e che radichiamo il nostro giudicare
nel permanere nella condizione
e in un principio morale superiore,
non è lecito questo adeguamento realistico.
Arrivano tempi in cui,
al di là di una immediata spendibilità politica
dei bisogni che salgono dal mondo degli sfruttati,
essi devono essere gridati e mantenuti alti.
Contro tutto e contro tutti.

Noi proviamo a pensare che questa rivista possa essere uno strumento in cui dar voce alle nostre voci. Invitiamo tutti i P.O. dal fondo della loro condizione fedelmente tenuta, a tessere con i loro occhi gli infiniti tasselli del sopruso che il consenso alle regole del gioco sta scaricando su loro e sui loro compagni. Almeno per il permanere di una memoria storica […]

LA REDAZIONE


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