Le condizioni di lavoro


 

La mia situazione attuale di lavoro è segnata, mi pare, da una precisa realtà e da una consapevolezza, che io cerco continuamente di vivere con intelligenza, perché fondino sempre più profondamente la mia coscienza di classe.
Lavoro in un’impresa di pulizie industriali: in altre parole, si tratta di rimozione di scorie varie e polveri da tutti gli impianti di una fabbrica siderurgica. Il listino-paga mi qualifica “addetto alle disincrostazioni, stasamenti ed evacuazioni con mezzi meccanici”. I mezzi meccanici sono il minimo indispensabile, data la quantità e le dimensioni degli impianti, perché il lavoro possa essere fatto: 60 volte su cento, pala e carriola. La professionalità è una parola vuota: il 4° livello ha come unica discriminante la patente di guida per camion.
La mia quotidiana attività lavorativa è perciò totalmente insignificante: nel mio lavoro non c’è nessuna valenza di realizzazione di sé e nessuno sviluppo di capacità personali. Ci è richiesta solo una grande voglia di lavorare e sufficiente energia e resistenza psicologica, oltre che fisica.
Questa è in sintesi la realtà che segna la mia attuale condizione di lavoro. Devo aggiungere che da qualche anno si è approfondita una sorta di selezione naturale, spesso provocata dalle pressioni dei capi, quasi a formare due gruppi di lavoratori: quelli più dotati fisicamente e più disponibili, fino allo stakanovismo, che si considerano il nerbo, la squadra d’assalto, quelli che danno i tempi nell’esecuzione del lavoro; e gli altri — io sono tra questi — che sono necessari, certo, perché negli eserciti non si arruolano soltanto gli eroi. Il problema grave è che tutto questo è stato interiorizzato da gran parte dei miei compagni di lavoro.

Io ho la consapevolezza che questi di fatto sono i miei compagni di lavoro, con i quali nonostante tutto devo costruire la coscienza sempre più chiara del non-senso del nostro lavoro, così com’è svolto; la non accettazione della logica che “comunque qualcuno questi lavori li deve pur fare”, con il conseguente senso di rassegnazione e accettazione del ruolo di operai “di serie B”. Arrivare a questa consapevolezza senza vivere il proprio lavoro con un senso di vergogna: uno di noi, molto giovane, alla ragazza con la quale usciva alla sera non ha avuto il coraggio di dire che lavoro faceva, ma si è presentato come “portavalori”.
Inoltre in mezzo a loro devo far crescere e sviluppare il senso di solidarietà, di corresponsabilità, di coscienza collettiva: si tratta prima di tutto di combattere gli atteggiamenti di competitività e di selezione che la nostra situazione mette in atto, individuando con intelligenza e lucidità cause e persone che con altrettanta intelligenza e lucidità operano alla radicalizzazione dei fattori di divisione tra noi.
Mi rendo conto che queste non sono novità: sono soltanto il primo gradino del “diventare soggetti”; ma questo è il gradino che manca a noi, in questa realtà che viviamo; con l’aggravante che siamo dentro una grande fabbrica e con l’handicap di avere pochissimo spazio di contrattazione autonoma e di lotta: la normativa e il salario sono infatti quelli della grande fabbrica trasferiti pari-pari senza nessun contributo da parte nostra.

Personalmente, dopo parecchi anni di vita di fabbrica, vivo questa mia situazione attuale con un certo senso di delusione e di frustrazione (almeno come primo impulso), perché è conseguenza di una discriminazione subita e quindi una sconfitta del movimento degli operai delle imprese d’appalto, nel quale all’inizio della mia vita operaia mi sono trovato buttato e che per quattro anni mi ha entusiasmato e gratificato: infatti quello è stato uno dei periodi più alti del movimento operaio e sindacale.
Ma nello stesso tempo mi rendo conto che oggi e qui si costruisce la mia personale coscienza di appartenenza e di fedeltà alla classe operaia, in questa impresa d’appalto dentro una grande azienda siderurgica.
Perché qui ci si rende conto che i problemi da affrontare sono. davvero quelli alla radice: non basta difendere il posto di lavoro o i livelli salariali (e già questi non sono problemi insignificanti); qui è in gioco il rispetto della dignità di ciascuno di noi (il comportamento dei capi ce lo dimostra quotidianamente), la difesa della salute che è continuamente in pericolo, la costruzione di un profondo e vero senso di solidarietà (provo spesso la sensazione che tra noi operai dell’impresa è difficile essere amici). Per questo come delegato mi sono impegnato anzitutto alla costruzione di più veri rapporti umani e di classe, sacrificando talvolta consapevolmente la radicalità di certe mie posizioni.

Bruno Ambrosini


 

Share This