Editoriale
L’umanità si divide in due categorie:
le persone che contano qualcosa
e le persone che non contano nulla”
(Simone Weil)
È una delle cose che la Weil operaia ha imparato nei giorni trascorsi in fabbrica.
Aggiunge anche che si può arrivare a «trovare naturale di non contare nulla, il che non significa che non si soffra».
Quando si perviene ad una tale forma di naturalezza può crollare ogni capacità di reazione, ma rimane la sofferenza a testimoniare che quella persona, nonostante l’annientamento e la paralisi cui sono costrette le sue potenzialità, è ancora viva.
Al tempo delle prime grandi ondate di cassa di integrazione, quando più elevata era l’attenzione verso questa anomalia, vi erano operai che lasciavano la casa al mattino e tornavano la sera, all’orario consueto, come se lavorassero. Per loro era intollerabile non fare nulla e dover apparire tali in famiglia.
Degli studi hanno correlato l’incremento del ricorso ai servizi di igiene mentale al contraccolpo determinato dalla perdita del posto di lavoro. Una tale correlazione è stata riscontrata in numerosi suicidi di persone crollate per… incapacità di adattamento alla condizione di totale precarietà lavorativa.
Sono punte di iceberg che testimoniano la sofferenza che esplode dentro sino a non poter più essere controllata. Nessun computer potrà mai calcolare questo capitale umano il cui valore, nelle cifre e nei bilanci che contano, è uguale a zero.
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Durante quest’anno stiamo assistendo alla esibizione della sofferenza nelle forme della protesta radicale. Operai che salgono e stazionano sulla punta delle ciminiere, minatori che si sotterrano nei cunicoli umidi a centinaia di metri dalla superficie, la tensione al fosforo a Crotone dopo le oscenità nella gestione della chimica in Italia venute drammaticamente alla luce negli ultimi mesi, il blocco parziale dell’autostrada del sole da parte degli operai della Galileo, le lotte al centro siderurgico di Taranto… esprimono la ricerca di un pulpito, di un microfono, di uno spazio insomma, per dichiarare il rifiuto di non contare nulla e la volontà di vendere cara la pelle, invece di piegare il capo senza resistenza alcuna, alla sentenza senza appello “sparisci! Per te non c’è più lavoro”.
L’attuazione di forme di protesta che comportano gravi disagi, nonché rischi, da parte dei lavoratori, sono espressioni della sofferenza acuta che deriva dalla prospettiva di perdere per sempre il lavoro, cioè quel minimo di certezza e di identificazione sociale, per non piombare nello sradicamento totale. Esse sono figura della lotta politica e sindacale in un contesto segnato dal meritato discredito accumulato dai partiti e dalle istituzioni politiche, dalla organica partecipazione al sistema di tangentopoli delle controparti padronali e dal minimo storico di rappresentatività reale dei vertici sindacali.
Queste lotte dichiarano l’insensatezza e la disumanità di un qualunque proposito di risanamento che condanni al nulla un esercito sempre più numeroso di disoccupati cronici e senza speranza.
Di tale insensatezza sono paladini quanti traducono la progressiva carenza occupazionale e la conseguente fame di posti di lavoro in problema di ordine pubblico, invocando uno Stato che con la forza ricacci nel privato, nel silenzio, nell’impotenza totale, la sofferenza di milioni di persone annullate nella loro capacità produttiva e svuotate di quel minimo di speranza e radicamento nella realtà senza le quali la vita stessa arrischia di perdersi. La pretesa da più parti avanzata del rispetto delle “regole” che prevedono la sparizione silenziosa e rassegnata di chi è tagliato fuori rende tutt’altro che oziosa la domanda che pone la Rossanda:
“Fino a quale punto un ordine democratico borghese può reggere una disoccupazione crescente non congiunturale senza mettere in causa i suoi equilibri e le sue regole?” Infatti “come il capitale finanziario sul mercato internazionale è in grado di far saltare le monete degli stati, il capitale che è ancora investito in produzioni di merci materiali e immateriali è in grado di far saltare gli equilibri sociali del paese da cui esce sul mercato mondiale della manodopera” (Il Manifesto, 17.9.93).
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Non va dimenticato lo scippo del 31 luglio ’92 e la violenza da esso rappresentata con un accordo stipulato mentre le fabbriche chiudevano i battenti per le ferie estive. La sua vera natura è venuta alla luce nei mesi successivi con le sterzate antipopolari che hanno colpito soprattutto i più deboli (non sono ancora finite le processioni umilianti di anziani che da un ufficio all’altro vanno a mendicare una nuova quota di bollini). Dopo il nuovo accordo del 3 luglio, in 8 giorni si è fatta una consultazione lampo di milioni di lavoratori, considerando anche la complessità delle materie trattate. L’accompagnava una colonna sonora assordante. Dal governo alla confindustria, ai media, alle commissioni pastorali per i problemi sociali, alle ACLI, ai vertici sindacali che reclamizzavano solo le ragioni per il SÌ: una coralità da vero regime. Tutta l’Europa, anzi il mondo intero, attendevano con ansia ed impazienza l’esito della consultazione, dalla quale, si diceva, dipendeva la promozione o bocciatura dell’Italia nel giudizio dei grandi.
Anche in questo dopo-accordo viene alla luce la natura vera dell’accordo stesso. Ora, come lo scorso anno, i vertici sindacali in occasione della legge finanziaria, con stucchevole ripetitività, lamentano la violazione governativa dei patti per il vuoto di politica dell’occupazione, mentre la controparte padronale incassa le licenze concesse con la legittimazione di misure che costituiscono l’allargamento della precarietà ed instabilità del rapporto di lavoro. Avviene ora di sentire nei direttivi sindacali delegati che con angoscia si chiedono che cosa possono andare a dire ai lavoratori ora, dopo essersi adoperati perché si pronunciassero per il sì.
La realtà dell’accordo contiene al suo interno un “carattere coattivo”, determinato dai rapporti di forza, il ricatto dell’occupazione costringe inevitabilmente in uno stato di debolezza, dove ciò che è imposto diventa l’unica cosa ragionevole e sensata sulla quale si deve ottenere il consenso. Così la ragionevolezza consentita occulta la coazione dell’imposizione.
Almeno fosse stato un momento di chiarezza, di onesta lucidità sulla gravità e durezza della situazione, soprattutto sulle prospettive nefaste per l’occupazione. Ma è difficile resistere alla tentazione di presentare con i caratteri della vittoria quella che è una linea difensiva che prelude la sconfitta. Così capitava di sentir vendere ancora slogans datati, del tipo: “con lo sviluppo tecnologico si creeranno nuovi posti di lavoro”, pervenendo per questa via all’ovvia conclusione che “per governare questo processo occorre un sindacato nuovo, unitario, all’altezza dei tempi, cioè meno conflittuale, per poter essere codeterminante”. Non sono mancati gli osanna per la sconfitta della linea dura della Confindustria. Un altro dei leitmotiv era il tema della “concorrenza internazionale sempre più aggressiva da contrastare…”. Una concorrenza, aggiungiamo noi, che va da quella giapponese fino a quella che può contare su di un costo della mano d’opera di poco superiore allo zero. Una rincorsa, questa, che non solo avviene nel teatro internazionale, ma anche nel nostro cortile di casa.
Forse non è ozioso soffermarsi un istante a meditare su una valutazione che Benjamin scriveva tra le due guerre:
“nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare” (Angelus Novus, Einaudi, pag. 81).
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La realtà esplode sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione cresce in tutti i paesi della CEE e sta marciando verso i 25 milioni di disoccupati. Perfino il fondo monetario internazionale sottolinea che la disoccupazione sta raggiungendo “livelli intollerabili”, con costi sociali “inaccettabilmente alti”. È noto che la disoccupazione cronica, tipica di molti paesi del mondo ricco “sta distruggendo il tessuto sociale”. Una disoccupazione pertanto non prodotta dall’arretratezza, ma esattamente dal suo contrario, cioè dallo sviluppo delle forze produttive e dalla modernizzazione capitalistica ai quali concorrono la mondializzazione dell’economia e le caratteristiche tecnologiche.
“In altri tempi questo non sarebbe stato un problema. Il lavoro distrutto da una parte, dall’innovazione tecnologica o sociale, rinasceva magari più ricco dall’ altra. Sempre l’industria ha teso a migliorare la sua produttività, ovvero il rapporto tra fatturato e numero di addetti. Ma una frazione può crescere aumentando il numeratore (il fatturato) o diminuendo il denominatore (gli occupati), o con una miscela dei due interventi. La drammatica novità dell’oggi è che delle due ricette prevale quasi esclusivamente la seconda.” (F. Carlini, Lavoro in perdita costante, Il Manifesto, 10.9.93).
Un tale andamento non sembra avere caratteristiche congiunturali, ma strutturali: si delineano società nelle quali il processo di crescita e di incremento produttivo esige la riduzione del numero di occupati, ai quali peraltro è richiesto di lavorare di più, pena la perdita del posto. Vi sono delle tesi che parlano della liberazione “dal lavoro”. Sarebbero realistiche se le linee di tendenza fossero l’aumento della diffusione dell’occupazione unita alla diminuzione del tempo e dell’intensità di lavoro. Una redistribuzione del lavoro potrebbe avere caratteristiche liberanti (ad es. le 35 ore settimanali). Mentre la liquidazione secca di milioni di lavoratori rappresenta semplicemente un loro “sradicamento alla seconda potenza” (Weil).
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Queste note hanno preso l’avvio ponendo l’attenzione sulla sofferenza che sorge quando l’essere umano viene ridotto ad oggetto, quando vive l’esperienza di non valere nulla perché ridotto a nulla. Un approccio non molto consueto quando si parla di problemi del lavoro, anche perchè la categoria “sofferenza”, che richiama una forma di passività, viene confinata nel “patologico”, mentre l’efficienza moderna vieta che essa abbia una sua espressione. Invece vi sono sofferenze determinate chiaramente da rapporti sociali iniqui dai quali derivano forme più o meno conclamate di annientamento.
La resistenza a questo processo divoratore di energie e di esistenze umane, sostanzialmente necrofilo, fa parte della sanità e della forza della vita. È profondamente sano, non solo per !’individuo, ma per il vivere comune, che la sofferenza sociale trovi un suo spazio pubblico: che diventi grido, protesta, invenzione di forme di manifestazione attiva. Resistenza che cerca un’efficacia per esercitare un peso, quindi un contrappeso, che promuova un nuovo equilibrio. quale condizione per respirare e per sentire che la propria vita ha ancora un valore.
Parlando della sofferenza operaia e dell’angoscia per la perdita del lavoro non si vuole ovviamente circoscrivere il discorso, rimuovendo altri campi di sofferenza ancora più brucianti. Si vuole assumere un punto di vista che consenta la concretezza e l’universalità, l’individuo ed anche l’insieme.
Si può parlare della Bosnia, della Somalia, dell’Africa affamata… Ma quale il punto di vista? Pensiamo che la stella polare che deve guidare il pensiero, le analisi e le progettualità, debba essere l’attenzione portante ai costi umani indicibili che vengono fatti pagare, non da una divinità crudele o da un destino immodificabile, ma da decisioni umane precise che affidano l’esecuzione dell’opera all’esercizio della forza e a regole, ad esempio il mercato, cui ideologicamente si attribuisce la forza del fato o della natura.
Vi è chi, dopo la caduta del muro di Berlino, ha parlato di fine della storia, per la presunta immodificabilità dell’assetto raggiunto e delle istituzioni esistenti, per la cessazione delle grandi contrapposizioni dialettiche che hanno accompagnato l’intera epoca della modernità. L’economia del profitto e le regole del mercato dominano ovunque come le uniche efficaci e sensate. Questa è la razionalità dura e forte che resiste nei chiaroscuri del post-moderno. Ogni altra ragione alla fine viene filtrata da questa ragione ultima.
L’indifferenza è la compagna di viaggio di una tale razionalità.
L’indifferenza verso l’essere umano concreto, verso la verità delle cose e la giustizia. Indifferenza verso i diritti dell’uomo, perché è sottinteso che qualsiasi diritto è inefficace senza la forza. Indifferenza verso l’enorme sperpero di capitale naturale accumulato dalla biosfera in miliardi di anni, sul quale si regge l’ecosistema del pianeta e dal quale dipende il futuro delle generazioni umane.
No. La storia non è finita. Fino a quando, in qualunque angolo della terra, c’è bisogno di giustizia, nessuno può dichiarare chiusa la partita. Per dirla con Pontecorvo, il sistema socialista è fallito, ma l’attesa ed il compimento della giustizia non sono tramontati.
“Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore” (Bonhoeffer).