Tavola rotonda
Il gruppo dei pretioperai di Roma si è incontrato più volte nei mesi scorsi sviluppando una discussione sulla parrocchia. Si ritiene opportuno conservare la forma del dialogo per mettere in risalto la complementarietà degli interventi.
ROBERTO – In questo incontro dobbiamo fare delle osservazioni critiche, sapendo giudicare le cose che vanno bene e le cose che vanno male, ciò che va modificato e ciò che va cambiato.
GIOVANNI – Noi stiamo in parrocchia, ma come pretioperai abbiamo una diversità, anche se formalmente dovessimo fare le stesse cose e le stesse funzioni burocratiche. Come è visto dalla gente il fatto che noi lavoriamo? Come riusciamo a mettere insieme lavoro e pastorale? Meno disponibilità alla pastorale parrocchiale, ma maggiore apertura ai problemi della gente. Quando un prete operaio si dedica alla parrocchia ha una profonda lacerazione interna e si accorge di tutti i limiti del ministero così come è concepito abitualmente. La parrocchia è quella che è, ma se tu sei preteoperaio è naturale che tu non sia come gli altri. Non è un fatto secondario il non chiedere soldi. Vorrei essere chiaro: la parrocchia secondo me si deve distruggere come idea e noi ci poniamo come punto di rottura.
MARIO P. – Credo sia importante fare una sintesi delle nostre esperienze e quindi domandiamoci: “Io che tipo di parrocchia vorrei avere, che vita vorrei ci fosse in questa struttura?”. L’ipotesi di Giovanni: eliminare tutto, può essere un’ipotesi. Ma nella realtà questa struttura esiste. Che proposta faccio perché questo istituto sia vivo, vivificante e non formale?
ROBERTO – Nella parrocchia non è il lavoro in sé che è problematico, esso potrebbe creare sicurezza e quindi un alibi per se stessa; ma è tutta quella serie di riflessioni che nascono nel mondo del lavoro, di cui io mi faccio carico investendo le strutture pastorali: da quelle della catechesi a quelle dell’evangelizzazione, a quelle dell’approccio con i problemi della gente. Lì avviene la frattura. Questa mi introduce a una serie di riflessioni sulla struttura parrocchiale, se essa sia in grado di dare una risposta ai bisogni della gente, che sono bisogni soprattutto di carattere religioso. Da sette anni faccio dei corsi per fidanzati, ho preparato centinaia di coppie. Vedo di anno in anno che la situazione peggiora nel senso che se prima vedevo una certa sintonia di fronte a certe tematiche religiose, oggi le vedo con più fatica. Non parlo più di matrimonio, di psicologia e sociologia della coppia. Cerco di vedere la loro situazione e mi accorgo che il grande assente e il grande sconosciuto è Gesù di Nazaret. Allora concordo con loro sette o otto incontri finalizzati al riavvicinamento alla sua figura.
Il prete operaio per la sua storia, proprio per il suo impegno sociale, quando si trova in una struttura che vuole garantire la continuità, vuole inserire anche una linea di discontinuità: è qui che nasce la scintilla dei drammi che viviamo tutti. Pensiamo alla predicazione, alla catechesi, alla liturgia e all’approccio con i problemi della gente. Ho la sensazione, nonostante sia impegnato prevalentemente nel sociale, che le parrocchie in questi ultimi anni si stiano configurando come strutture sociali: come dipartimento del sociale nella periferia.
GIOVANNI – In parrocchia io ci sto solo il sabato pomeriggio e la domenica in maniera marginale. Mi sforzo durante la predica domenicale e nella confessione o in occasione di qualche incontro con la gente di superare il muro tra il cristiano e la chiesa. Il nocciolo del discorso è questo: voi siete liberi, nessuno può comandare e organizzare la vostra vita, neppure la mia vita di preteoperaio. Lavoro per affermare un altro diritto: non ci deve essere vescovo o gerarchia che organizza la mia vita, né la casa, né il mio tempo, né i miei soldi, né altro. Questa secondo me è una della condizioni per trasmettere il Vangelo. Se esso si trasmette attraverso una cosa organizzata io sono condizionato, anche nel rapporto con la gente. I cristiani devono essere più creativi e fantasiosi. Sarebbe necessario autoorganizzarsi solo su alcune cose essenziali, come incoraggiare a seguire il vangelo, testimoniare come si può vivere meglio la sequela di Gesù, per aiutare chi c’è da aiutare.
MARIO S. – Di fronte alla crisi delle parrocchie non possiamo prendercela con la gente: dietro la mentalità c’è una storia e una concezione di chiesa che si è sedimentata da secoli. Partire dalle loro concezioni e dalle loro idee, analizzarle insieme e verificarle per smontare pezzo per pezzo, con pazienza, tutto quello che non regge più. Molte volte la violenza la si esercita anche nel modo di proporre le idee. Vedo importantissimo il discorso della libertà del soggetto nel gestire la propria vita di fede. Qui c’è molto da lavorare perché il tutto è sempre stato organizzato dall’istituzione. Anche la richiesta di aiuto viene rispedita all’addetto ai lavori: il prete. Nel dialogo che faccio nella messa domenicale insisto molto su questo: non c’è nessuna delega, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità ed essere coinvolto direttamente, altrimenti si corre il rischio di comunità che delegano continuamente. Lo stesso che avviene nel campo della salute: si è talmente abituati ad andare dal medico per qualsiasi cosa, o al pronto soccorso, che non si è più capaci di affrontare da soli neanche un piccolo raffreddore.
GIOVANNI – La parrocchia favorisce la possibilità di incontrare gli altri come il buon samaritano? O favorisce il rimandare ad altri, come hanno fatto i leviti?
ROBERTO – Se tutto si esaurisce nell’incontro con l’altro che ha bisogno, le parrocchie sono afflitte da questi incontri quotidiani. Il problema secondo me nasce proprio da questo: il Lazzaro che incontro non mi dice niente, mi chiede solo di assisterlo, ma non c’è un messaggio che ritorna. L’incontro è autentico quando la comunicazione è reciproca e questa comunicazione provoca un cambiamento in entrambi. Quando incontro Lazzaro non solo io posso fargli del bene, ma è anche lui che fa del bene a me. Il nocciolo sta proprio qui: che ripercussione ha nel mio stile di vita, sul mio modo di ragionare e valutare gli eventi, sul mio modo di impostare la pastorale l’incontro con Lazzaro? Nelle parrocchie avviene la crisi quando c’è il passaggio dall’impegno particolare alla tematizzazione. Gesù non ha dato fastidio perché ha guarito il paralitico, ma nel momento in cui diceva che ciò si poteva fare di sabato ha avuto delle reazioni: tutti i giorni sì, ma il sabato no! La frattura tra Gesù e le istituzioni è avvenuta proprio nel momento in cui l’incontro con il paralitico non è stato un semplice incontro di guarigione, ma il momento in cui lui ha preso l’evento e lo ha tematizzato: lì è avvenuta la crisi di rigetto.
NICOLA – Cerchiamo di considerare un elemento che è fondamentale per la struttura parrocchiale: il tempo pieno. Noi di fatto lo facciamo saltare (ma non meno di altri, per es. gli insegnanti di religione). Ne viene una serie di conseguenze: la necessità di presa di coscienza e di responsabilità dei laici, sia nella custodia della chiesa e nella gestione dell’ordinario, sia in improvvise emergenze anche irreparabili, come una morte inattesa… Già che ci sono vorrei anche spendere una parola per contrastare l’idea che la parrocchia è solo e sempre gestione sacramentale di basso profilo. Non è detto. Anzi c’è ogni momento la possibilità di ripartire da lontano, anche quando la gente chiede un battesimo o un nulla osta con la macchina fuori parcheggiata in seconda fila. Dicendo “perché vuoi, per es. sposarti in chiesa? (la domanda sta anche nel processo matrimoniale!). Ti pare che Dio non voglia bene a chi si sposa in comune? Siamo cinque miliardi sulla terra, e quattro miliardi e rotti si sposano con altri riti… tutti perduti? “. Certo c’è l’arte pastorale per fare di queste domande non pugni sullo stomaco ma spesso vere aperture di sincerità e liberazione. Altro che liberazione da preparazioni e catechesi, altro che nulla osta facili che lasciano la gente schiava del bisogno irrazionale del sacro e la confermano come prima e peggio di prima! E di liberazioni simili se ne possono avviare ogni giorno in ogni ufficio parrocchiale almeno tre o quattro. E quasi sempre sboccano in un percorso catechistico (sugli sviluppi e caratteristiche del quale certo ci sarebbe ancora molto da dire…). Dunque io penso che nella parrocchia ci si può stare dentro in modo relativamente incisivo. Ancor più, e qui torniamo allo specifico del preteoperaio, perché queste cose vengono dette da chi almeno con un dito porta alcuni dei pesi quotidiani comuni a tante persone. E quando, in fondo, arriva l’inevitabile domanda (“quant’è?”) non c’è né la sfrontata tariffa né l’ipocrita offerta, e l’interlocutore si placa e abbassa il diaframma di cinque centimetri.
ROBERTO – Non dico che bisogna distruggere la parrocchia, vorrei che si tenesse conto della possibilità delle comunità che nascono e che la parrocchia fosse un momento istituzionale che garantisce continuità e comunicazione. Quindi non penso che si debba chiudere la parrocchia dopo secoli di storia, il passaggio deve essere graduale. Così com’è, non risponde più. Se si pensa che fra cinque anni avremo generazioni che prescindono dal vangelo…. Dobbiamo metterci in ascolto dello Spirito e prefigurare per il domani una struttura più duttile e più aperta a queste nuove realtà che vanno crescendo.
BATTISTA – La chiesa si trova davanti ad una molteplicità di comportamenti e la crisi della parrocchia è la crisi della chiesa locale che non riesce a collocarsi nella struttura molteplice della città. Porrei anche una domanda: in questa chiesa che si trova in una città complessa qual è l’identità e la funzione del ministero presbiterale? Ad una realtà che è molteplice noi rispondiamo ancora con un unico modello di prete che è quello sfornato dal seminario: prete celibe, fortemente indirizzato a fare il parroco. Ad una realtà pluralistica si risponde con una figura unilaterale di presbitero. Ad una realtà complessa si risponde con una figura unilaterale a servizio del popolo di Dio. Dobbiamo fare una riflessione teologica: il prete è configurato a Cristo in quanto capo di una comunità (teologia strettamente cattolica), mentre ogni battezzato è configurato a Cristo, alter Cristus. È quel “in quanto” che specifica, pur essendo espresso da una comunità. Se questa è l’identità del prete, il problema è allora questa comunità che è la chiesa di Roma, in cui è dentro in quanto membro di un collegio, non in maniera singola: esiste un collegio dei presbiteri. Bisogna legittimare o rilegittimare la pluralità del ministero, ma a servizio dell’unico popolo di Dio. Dare delle risposte univoche ad una società che è complessa e pluralista è semplicemente tradire la storia. Non ci sarà allora il problema del preteoperaio: il prete è incarnato nella realtà attraverso la sua professione: viva di quella! Come ci può stare benissimo la figura di prete che è a servizio a tempo pieno di una comunità, vivendo dell’altare come diceva Paolo. Sono posizioni legittime ma all’interno di un medesimo progetto: il prete che vive della sua professione è legittimato quanto quello che vive dell’altare. Nessuno è a metà tempo, perché sia che dormiamo, sia che mangiamo,siamo sempre del Signore. Tutto questo significa ripensare la formazione del seminario: finché pensiamo. che il seminario sia l’unico luogo in cui si formano i presbiteri, non avremo né una chiesa che sa ordinare dei preti a servizio del popolo di Dio, né espressione del popolo di Dio, finché il seminario è il “cuore del vescovo” o la “ pupilla destra o sinistra” del vescovo. Dopo di che avremo le crisi dopo tre anni di ministero. Oggi la chiesa ha bisogno di presenze diversificate e la parrocchia deve essere pensata in maniera più flessibile, meno opprimente per il presbitero che è parroco e per chi non è parroco.
GIOVANNI – Ci sono degli obblighi del diritto canonico: il parroco deve assicurare determinate cose e il vescovo chiede sempre conto al parroco, mai ai consigli pastorali. Di fronte alla legge è il parroco il legale responsabile dell’ente. Come ci possono essere alternative se lui deve rispondere di fronte alla legge? Si è convinti che la Chiesa sia una struttura in decadenza da rivitalizzare. Purtroppo devo dissociarmi perché essa è una grossa azienda e, riconfrontandoci col Vangelo, ci accorgiamo che Cristo non la voleva come tale, non voleva per forza raggiungere tutti: probabilmente voleva più seguaci che arrivassero come lui alla croce. Io mi trovo perso: qui si parla di ministero sacerdotale e di riorganizzare meglio il tutto, ma essa rimane sempre una azienda. La difficoltà mia è proprio lì: quando dico che bisogna distruggere la parrocchia, voglio fare una provocazione, ma sottintendo la domanda: a cosa mirava Cristo? Lo scopo massimo della chiesa è quello di raggiungere Cristo.
BATTISTA – La chiesa è strumento del Regno e oggi c’è la tentazione di concepirla in maniera psicologica; preferisco la chiesa come segno e strumento del Regno e la finalità dell’evangelizzazione non è la costruzione della chiesa, ma l’avvento del Regno di Dio, con la libertà e la giustizia. In questi ultimi anni con la presenza ciellina nella chiesa italiana si era dato risalto alla centralità della chiesa: si faceva un ecclesiocentrismo anziché un cristocentrismo: Cristo è il Regno, non la chiesa. L’economia sacramentale è essenziale perché siamo pellegrini nella storia, ma non bisogna farne degli idoli e delle istituzioni. Davanti al crollo delle certezze la tentazione è quella di ricrearsi delle ecclesiologie parallele, più confacenti alla propria realizzazione umana: autorealizzarsi …mi sento meglio in una piccola comunità… crearsi il piccolo giardinetto, l’orticello del prete.
MARIO P. – L’esigenza è quella di salvaguardare la chiesa come punto di incontro, dove tutti ci si possono trovare e dove tutte le realtà possono rientrare. Quello che secondo me è importante e su cui possiamo dare un contributo invece è quella parte in cui viene data importanza alla persona, che anche nella chiesa è stata eliminata: il valore della persona umana, dell’uomo, della donna e del bambino. Siamo tutti esseri strumentalizzati. Non c’è questa grande necessità di piccole comunità neocatecumenali, ma di una comunità che si crea attorno al vangelo, che ha degli spazi di vita propria e che quindi ha una sua vita di cui il nucleo portante è l’evangelizzazione, che non deve essere compito del prete ma del cristiano in quanto tale.
BATTISTA – Davanti al problema della società scristianizzata, andrebbe fatta secondo me un’ulteriore riflessione: questa non è qualcosa di prettamente negativo e forse può essere vista come il frutto più maturo del Vangelo.
ROBERTO – Quando parlavo di comunità non intendevo riferirmi ai neocatecumenali. Ritengo positiva la loro intuizione, ma non sono per quella soluzione, poiché lì si fa una lettura della Bibbia regressiva e moralistica: è assente ogni dibattito sul mondo e sulla società. È un supporto all’attuale sistema per farlo continuare a vivere.
MARIO S. – La parrocchia è in crisi perché è in crisi la stessa teologia, la liturgia, il ministero. Sono tematiche tutte collegate. Un fatto fondamentale da tener presente: eravamo abituati a considerare la chiesa come maggioranza su un territorio: una zona di 50 mila abitanti era considerata una parrocchia di 50 mila anime. Oggi non è così: si riscopre la chiesa come piccolo gregge, più in sintonia col Vangelo.
ROBERTO – Ci dovrebbe essere l’ansia per quelli che non ci sono e per questo occorre domandarci perché non ci sono. “L’altro” mi pone degli interrogativi, non un’ansia per andare a ripescarlo.
MARIO P. – Il discorso del Regno di Dio si sviluppa nel contesto delle piccole realtà, che non può essere una realtà di pubblicità, di massa, ma una realtà che cresce piano piano. Bisogna accettare quello che c’è e che non si riesce ad eliminare dall’oggi al domani: l’importante è che si continui a testimoniare e rendere presente il vangelo nella piccola realtà. Se si impostasse la pastorale in questo senso si ridarebbe valore alla persona, al cristiano in quanto cristiano. Questo farebbe riscoprire i carismi e i ministeri che sono presenti nella comunità. Saremo in questa realtà costretti a ripensare il ministero presbiterale e diaconale e alla sua formazione. Prete e diacono non più in funzione di una grossa struttura, ma pensati in una dimensione più pluralista, di ambienti e realtà determinati e la piccola comunità può ritrovare attraverso la sua autoorganizzazione il cammino per la realizzazione del regno di Dio.