Interventi



Non mi sono mai inserito in una struttura parrocchiale intesa come realtà burocratica e amministrativa: questo per scelta, anche perché ho avuto la fortuna di far parte di una comunità diocesana che dava a tutti la possibilità di scegliere i luoghi e gli ambienti in cui ci si voleva inserire. Ritengo che il ministero debba essere legato a una comunità, sia già essa strutturata, sia essa “in fieri”.
Già agli inizi degli anni ‘70 il dibattito su “parrocchia sì” e “parrocchia no” era molto serrato, soprattutto da parte di chi lavorava nelle grosse città e più di tutti si accorgeva della disgregazione e dei problemi enormi che le metropoli presentavano con le loro periferie prive di storia: agglomerati di persone venute da ogni dove, con culture e abitudini diverse. La preoccupazione dell’organizzazione ecclesiastica era quella di rifornire questi agglomerati di strutture (chiesa e ambienti parrocchiali e anche strutture ricreative e sportive), come se esse fossero il perno portante di una chiesa che ancora doveva nascere. In un quartiere, come c’era la scuola, la USL e altro, ci doveva essere la chiesa, che veniva così paragonata alle altre strutture civili.
Mi sono inserito in questi ambienti in modo silenzioso, vivendo la vita di tutti, convinto che la chiesa intesa come comunità debba nascere lentamente, con strutture minimali, per non correre il rischio di diventare il luogo delle richieste per i bisogni immediati e si sostituisca alle strutture civili, alle cui carenze essa ha supplito, come lo fa tuttora; anche perché è facile essere gratificati con azioni socio – ricreative. Rispondere agli interrogativi che le coscienze e il mondo in rapida evoluzione pongono, diventa più complicato, perché si è costretti al confronto e al cambiamento che passa attraverso una conversione e la revisione delle proprie certezze.
Il lavoro manuale è stato per tutti noi il primo passo per rompere quello stile di vita che poneva il prete nel mondo del sacro, pagato per un ministero divenuto professione e lontanissimo dalla gratuità che libera le coscienze. Ho scelto da allora la periferia, intesa come margine – laboratorio attraverso cui passa l’alternativa e si possono intravedere orizzonti nuovi. Occupare quegli spazi vuoti lasciati liberi dalle strutture che non possono coprirli, per riaffermare la possibilità che si può essere comunità senza essere necessariamente parrocchia, strutturata burocraticamente, anche perché c’è una pluralità di ministeri e una pluralità di modi di esercitare il ministero ordinato.
Qui penso al discorso di Paolo che faceva l’esempio del terreno: qualcuno ara, altri seminano e altri raccolgono. Tutte queste operazioni non sono legate necessariamente alla stessa persona e i metodi e le strategie, se così le vogliamo chiamare, sono diversi. Penso al mio ministero esercitato fin qui come ad un continuo arare per preparare il terreno.
Oggi non sceglierei di andare fuori: il prete è espressione di una comunità che ha i suoi carismi e ministeri, tra i quali quello ordinato. Quest’ultimo con funzioni molto limitate, perché non deve occupare funzioni che altri dovrebbero svolgere. La chiesa locale può supplire là dove una comunità non è in grado di esprimere i propri carismi.
Ritengo importante che il “prete” non debba vivere da solo. I modi per essere in compagnia sono moltissimi. Non voglio qui discutere del problema del celibato, ma vivere con altre persone, condividendo la quotidianità, ci abitua al confronto e ad essere meno “selvatici”. Parlerei volentieri di “compagnia pluralista”. Attualmente io vivo con quattro persone:
una coppia con un bambino e un giovane.
Penso anche all’abitazione uguale a tutti gli altri, non nella “canonica” che dà il senso di un’area riservata al sacro: casa di colui che si sente il custode della chiesa, come se non fosse tutta la comunità ad esserne responsabile. Canonica come spazio riservato alla comunità, non abitazione del prete, che deve avere una vita propria, come tutte le persone di questo mondo.
Uno dei pochi gesti del ministero ordinato è per me l’eucaristia domenicale dove il dialogo ha ampio spazio. Si dice spesso che la gente non è capace di parlare nelle nostre chiese, perché essa va a “sentire la messa”. È questa una tradizione dura a morire, perché le chiese sono molto grandi, la loro strutturazione non invita al dialogo e rispecchia una concezione prettamente verticistica. Oggi siamo in minoranza e i luoghi in cui normalmente la comunità si riunisce per pregare dovrebbero essere più piccoli, mentre le chiese grandi potrebbero servire in certe occasioni dell’anno, quando tutte le piccole comunità si ritrovano.
Ho trovato molto difficile all’inizio il dialogo, ma col tempo è diventato abituale, anche da parte delle persone anziane che hanno bisogno di chiarire le loro espressioni di fede ricevute dal catechismo e inculcate da decenni. Il lavoro che faccio spesso è partire dalle loro espressioni, analizzare quelle cosiddette “verità”, indagando sul come sono nate e il perché si è giunti a quelle enunciazioni frutto del loro tempo. Il tutto collegato con la storia e i fatti che nascono dalla vita e con il messaggio di Gesù di Nazareth.
Il metodo che uso durante la celebrazione è quello di sedermi con loro mentre si legge e qualche volta non ho neppure la stola e la tunica, perché in quel momento di fronte alla parola di Dio si è tutti uditori e discepoli. Prima di parlare lascio spazio al silenzio invitando i presenti a parlare. Sono quelli i momenti essenziali dove il racconto acquista grande importanza partendo dagli avvenimenti quotidiani.
Per quanto riguarda i sacramenti, che ampio spazio occupano nelle parrocchie ho poco da dire perché ne amministro pochissimi. Ricordo con gioia alcuni genitori che hanno preparato i loro figli, assumendosi direttamente la responsabilità di quei gesti. Non ho mai fatto preparazioni speciali, invitando gli interessati a inserirsi nell’incontro domenicale, lasciando loro la libertà di decidere i tempi, facendo presente anche a tutta la comunità riunita la richiesta. Essa diventa un modo per tutti di ripensare il sacramento e di seguire coloro che lo ricevono. Prendere sul serio il sacramento e seguire le persone anche dopo, “alzando il tiro” con proposte impegnative di ricerca e cammino di fede riserva delle sorprese inaspettate.
Tutto ciò è possibile perché la mia è una piccola comunità, così pure la chiesa, disposta in modo tale che ci si possa guardare in faccia tutti quanti, con i banchi disposti a quadrato. Cambio frequentemente il linguaggio liturgico e le preghiere si agganciano sempre al discorso evangelico del giorno e agli avvenimenti della settimana. Celebro solo la domenica come scelta: l’eucarestia deve essere un evento straordinario, le messe infrasettimanali potrebbero essere sostituite benissimo dalle lodi e dal vespro, guidate da qualcuno della comunità, abituando così le persone a pregare senza la guida del prete.
Per quanto riguarda la parrocchia non mi meraviglio che essa si trovi in crisi perché in questi ultimi decenni assistiamo a una crisi generale delle strutture, frutto di un contesto storico ben preciso. Essa è legata a una concezione di chiesa e a una teologia che oggi è messa in discussione perché non rispondente agli interrogativi e ai cambiamenti del mondo contemporaneo. Si apre pertanto un periodo di intensa ricerca e sperimentazioni che nessuno ha la pretesa di considerare definitive.
Oggi tutto è relativo. La parrocchia era l’unico polo unificante di un territorio, ora i poli sono diventati molti a causa della disgregazione delle città, della mobilità delle persone, costrette a spostarsi da un punto all’altro, per adeguarsi ai ritmi di lavoro imposti dalla società liberista, dove quello che conta è il profitto, non la persona con tutte le sue esigenze. La cultura è pluralista e il pluralismo è parte essenziale della mentalità contemporanea.
In crisi pure la concezione di autorità, a cui non si vuole dare alcuna delega in bianco, come è stato finora, portando le persone alla deresponsabilizzazione. La parrocchia entra in questo panorama a cui bisogna aggiungere la crisi della chiesa come organizzazione, e la maggior maturità di moltissimi credenti che si sentono responsabili della propria fede, stanchi di essere solo degli spettatori.
Una struttura che ha secoli di storia ha bisogno di tempi lunghi per essere rinnovata o sostituita. L’attenzione non dovrà essere posta sulla parrocchia stessa, bisogna puntare a un progetto più ampio tenendo presente a mio parere questi punti:

• Considerare i credenti come popolo di Dio, più che gregge da condurre. La vera carenza di fondo è la mancanza di formazione comunitaria. Per sua stessa natura e vocazione c’è la “comunità che si riunisce”. In un modo o nell’altro il suo futuro è quello di una comunità di libera scelta, dove ciò che si offre e si chiede è la propria decisione e partecipazione attiva.

• Riconsiderare la teologia, che è a servizio della fede, non oggetto di fede. Una teologia prettamente speculativa è riduttiva; essa deve riconciliare ed unificare naturale e soprannaturale ponendo fine al dualismo che ha delle ricadute sulla concezione quotidiana della fede: cristiano in chiesa e fuori ognuno fa quel che vuole, soprattutto nei confronti della giustizia, del denaro, dello sviluppo e della politica.
Non una teologia confessionalistica, ma ecumenica: una teologia che in ciascun’altra teologia non veda più degli avversari, ma dei partners. Solo così ci si può educare al pluralismo. La norma fondamentale di una teologia ecumenica è il Vangelo di Gesù di Nazareth, una riscoperta del Gesù della storia e il cui orizzonte è il mondo dell’esperienza contemporanea, che tenga presenti tanto le religioni universali quanto le teologie moderne.

• Riconsiderare il ministero, riducendo il più possibile la funzione del presbitero, che non è la somma dei carismi o degli “ordini”. Essi vanno distribuiti nella comunità senza discriminazione di età e sesso, rilanciandone dei nuovi, che non hanno bisogno di essere sacralizzati. Il tentativo odierno invece è quello di riclericalizzare tutto (vedi il diaconato permanente). Ministeri in funzione della comunità dalla quale essi traggono la loro autorità, non un aiuto al ministero ordinato.«Le singole parti portano propri doni alle altre parti e a tutta la chiesa, di modo che il tutto e le singole parti accrescano con l’apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre e che tendano con i loro sforzi verso la pienezza dell’unità. Ne consegue che il popolo di Dio… si sviluppa nei vari ordini» ( Lumen Gentium 13, d.).
Il ministero originariamente molto fluido è intimamente vincolato alla partecipazione attiva della comunità. Pensare che l’ulteriore sviluppo della struttura ecclesiale, da capo a piedi, sia opera dello Spirito, sarebbe una grossa semplificazione. Insieme con lo Spirito intervennero molti fattori umani e condizionamenti storici.

• Messaggio mediato dall’esperienza e quindi approccio esperienziale al Vangelo per essere fedele a quell’annuncio che è racconto di esperienze significative. Esso non è l’esposizione di dogmi e catechismi, che non sono sostitutivi della Bibbia. Si è fatta troppa ecclesiologia e sacramentalizzazione, pertanto è importante ricondurre il messaggio centrale della catechesi a Gesù di Nazareth.
Tutto questo inquadrato nell’ambito del sacerdozio universale dei fedeli che è essenziale e il perno. I ministeri entrano in questo ambito: funzionali alla comunità che si riunisce, non sacralizzati e non sostitutivi del nostro rapporto con Dio. “Anche voi, come pietre vive, formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pt. 2,4).

Mario Signorelli


 

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