Interventi


 
Partecipo al dialogo sul tema «Pretioperai e parrocchia» dal punto di vista della mia personale posizione di parroco e artigiano, cosa che sarà fin troppo riconoscibile nelle posizioni che indicherà. Libero ciascuno di credere che penso così perché faccio così.
 

A.

 
Prima di entrare in concetti di merito, ritengo dunque di dover esprimere, esplicitare il quadro di riferimento generale che mi sembra avvolgere i dettagli.
 
1. Eccetto casi di vocazioni particolari, ritengo che la funzione presbiterale vada esercitata nell’ambito usuale, ordinario, della comunità ecclesiale di base.
 
2. Prendo per dato di fatto che tale luogo sia oggi la parrocchia, dove per “oggi” intendo il tempo in cui sta scorrendo la mia vita. Taglio corto dunque su alternative che nei grandi numeri possono al massimo riguardare il futuro. Nulla contro chi cerca per altre vie, che seguo con attenzione e interesse.
 
3. Nel seguito, prescindo anche dalle argomentazioni che vengono proposte per scoraggiare l’impegno in parrocchia. Nelle città la parrocchia è a livelli massivi e disumani, ridotta a pura gestione del sacro naturale, compromessa nel denaro eccetera eccetera. Non c’è dubbio che, entrando in parrocchia anche come pretioperai (o uscendone), la partita è ancora tutta da giocare. Dico solo che quella è la scacchiera disponibile, o almeno quella che frequento io.
 
4. Preciso che partecipo con moltissimi confratelli (non necessariamente pretioperai), a tutta la serie delle problematiche della parrocchia e della pastorale. Ho in comune con loro tante questioni e qualche risposta. Mi spiace invece di non avere né le une né le altre in comune con molti pretioperai. Ma tant’è. Con loro sono contiguo per le scelte di lavoro, che davvero non è poco, e credo pertanto che quanto segue sarà loro ugualmente comprensibile.
 

B.

 
Passo ora alle caratteristiche concrete, dico concrete della presenza di un preteoperaio in parrocchia. Solo qua e là spunteranno alcune caratteristiche di spiritualità o di visione globale della vita.
 
1. Inizio dall’elemento più banale eppure spesso sottolineato: il tempo, la “disponibilità”. Non c’è dubbio che la permanenza fisica in parrocchia sia ridotta. Non è il caso di ribattere nel piccolo cabotaggio che è assente anche l’impiegato di curia, o il professore di religione, o il prete dei movimenti, e spesso in modi molto più disordinati. Sta il fatto che questo produce lentamente nei laici la consapevolezza di un’assenza.
Ciò produce in loro una lenta scomposizione e ricomposizione della figura presbiterale, e più concretamente, che il lavoro parrocchiale vada ridistribuito altrimenti. La ridistribuzione può essere aiutata dando a ciascuno il suo, in un quadro sempre più nitido di competenze sacramentali (laicali, ministeriali in genere, diaconali, presbiterali). Ci sono cose che il parroco non fa più. Si sviluppano corrispondenti qualità e responsabilità laicali.
Non sfugga la potenza di accelerazione imposta su direttrici che la chiesa ha fatto ormai sue in teoria ma spesso stagnanti in pratica. Mi sia consentito sottolineare che quanto vado scrivendo mi sembra già esperienza di venticinque anni più che immaginazione o speranza.
 
2. Il prete operaio in parrocchia sconta una dignitosa collocazione nel rapporto con gli uomini adulti del quartiere. Ho letto in certe inchieste che i preti sentono estraneità al mondo. Questo a noi succede di meno. Resta l’irriducibilità prevista dal Signore (“il mondo vi odia perché non siete del mondo”) del resto comune con i laici, ma non c’è dubbio che tutto si compie ormai in un rapporto umano paritario, in cui nessuno ha da rimproverare all’altro più di tanto, e nessuno pertanto con l’altro può menare il can per l’aia.
Il dialogo spesso nasce e si normalizza in occasione di prestazione d’opera improvvisamente necessaria, come capita a noi artigiani (una porta che non si apre nel giorno di capodanno o di ferragosto e in una città di tre milioni di abitanti sei l’unico fabbro che trovano). A parte i casi provvidenziali, il rapporto di lavoro accelera la riqualificazione dì un rapporto umano ed ecclesiale. Di passaggio ciò rivela come il rifiuto che alcuni pochi hanno verso la figura del preteoperaio (ma si tratta sempre di borghesi) sia legato all’idea del personaggio sacro, cioè disumano, che tengono bloccato nella loro immaginazione – coscienza e dal quale non intendono staccarsi, dovendo altrimenti mettere in questione il loro concetto di fede, o più in generale di religione o di sacro.
 
3. Ritengo molto formativo che le giovani generazioni ed i ragazzi vadano consolidando la loro visione globale del mondo e della chiesa con l’inserimento di una figura presbiterale che è tale per le funzioni che esercita nella comunità domenicale (= di fede) anziché per caratteristiche sociologiche convenzionali e convenzionate. Anche sotto l’aspetto più ridotto (se è ridotto, a Roma…) dell’affezione al lavoro manuale, anzi al lavoro e basta, o al lavoro senza secondo lavoro, o al lavoro con un bel resto di giornata per Dio e il Regno.
Credo che per molti bambini e ragazzi, i quali per molti anni non vedono altri preti che quello (con l’eccezione di certe spaventose apparizioni televisive), il frutto a lungo termine in fatto di configurazione teologica – umana del prete, e perché no di vocazione, resta del tutto inestimabile. Il papa del 2050 starà ben facendo il catechismo di prima comunione da qualche parte.
 
4. La polarizzazione della nostra pastorale sulla domenica favorisce la costituzione di quel popolo fedele alternativamente festoso ed impegnato, celebrante e reale, sacerdotale e profetico. Diminuendo il sacro feriale, il messaggio evangelico della domenica si incanala, pena l’annullamento nella vita sia dei preti che dei laici. Inversamente la vita quotidiana, vissuta da noi preti all’unisono con i vicini (la stessa grandine per lo stesso raccolto…) caratterizza e riempie la celebrazione e la vita comunitaria tutta.
 
5. L’aspetto economico non è il meno. Tolte dalla parrocchia le spese per il parroco ormai autosufficiente si possono senza timore pubblicare i bilanci della parrocchia, ivi compreso, se si vuole, un simbolico compenso paolino per l’operaio evangelico. Si può impostare un bilancio in cui le spese sono secondo le entrate, dato che l’unica spesa non rinviabile, il sopravvivere del parroco, è onorata altrimenti. Si può vivificare l’offertorio domenicale partecipandovi anche noi. Si possono celebrare sacramenti senza tasse, affidare l’amministrazione ai laici in totale trasparenza, combattere le spese inutili e superflue senza pericolo di fraintendimenti. Fosse uno di questi il solo risultato dell’essere preteoperaio in parrocchia, sarebbe abbastanza.
 
6. Lascio completamente da parte molti altri aspetti. Persino quello ecumenico; non facciamo così la nostra parte di cammino incontro ad orientali ed evangelici? Quello dell’impostazione spirituale-umana, ora et labora.
Man mano sono andato verso temi ben noti ai pretioperai, nei quali la parrocchia specificamente entra poco. Perciò non è il caso di fermarcisi. Nei rapporti tra parrocchie, oltre le ostilità, si instaura spesso una profonda collaborazione con parroci “normali” che condividono temi e tentativi concreti di vero aggiornamento, di rinnovamento pastorale non marginale.
 

C.

 
Conclusione. Ritengo quindi che sia da condividere attentamente la proposta di prender parrocchia che a volte riceviamo dai vescovi. Spesso si immaginano operazioni di recupero, di snervamento. Anzitutto i vescovi in genere offrono, e opportunamente, parrocchie assai modeste e quindi gli effetti di spersonalizzazione e burocratizzazione sono già piuttosto ridotti in partenza. E poi, come ho cercato di evidenziare, non mancano le indicazioni in senso positivo.
Chi vuole può lavorare per nuove ipotetiche comunità totalmente altre, o sedersi in riva al fiume per veder passare il cadavere della parrocchia. Si può anche starci dentro e, a dirla con un linguaggio che per ora non è strettamente curiale, prenderle ma anche darle. Quello della rincorsa culturale (ormai dobbiamo chiamarla così) nei confronti di universi di valori che si realizzano e si trasmettono nei luoghi di lavoro. Quello dell’equilibrio psicofisico, che naturalmente si stabilizza nel ritmo del lavoro – riposo. Quello delle attitudini relazionali che normalmente si affinano nei rapporti tra adulti.

Nicolino Barra



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